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Un weekend a Palermo

Il mercato di Ballarò

Il mercato di Ballarò

Perché Palermo

Cambiare aria per tre giorni si può e senza andare troppo lontano. Una meta ideale e organizzabile anche all’ultimo potrebbe essere Palermo. Io ci sono appena stata, andata e tornata con un volo davvero low cost (60 euro andata e ritorno da Bologna con Ryan Air) con un’ottima combinazione di orari (partenza alle 6.30 e ritorno alle 23.30). Per prima cosa consiglio un B&b, in posizione strategica: ‘La via delle biciclette’ è a cinque minuti tanto dalla stazione che dai Quattro canti, punto di partenza per girare il centro storico. Nella stretta via (un tempo qui c’era il ghetto ebraico) che odora di camere d’aria, si varca un portone e si sale per due piani, fino alla vista sui tetti. I giovani proprietari Manlio e Manuela si prodigano in consigli per gli ospiti e le camere sono arredate con uno stile che fa un po’ Amélie Poulain, ma decisamente accogliente. Mi hanno colpita la pulizia e le brioche della colazione. Ottimo anche il prezzo (doppia a partire da 70 euro). Giusto per farsi un’idea, un blitz di questo tipo costa circa 250 euro.

Vucciria 'by night'

Vucciria ‘by night’

Perché andare. Lasciarsi il ‘continente’ alle spalle è emozionante. Palermo è come una porta sul Mediterraneo, è un mosaico di stili, volti, suggestioni che vanno dall’Africa alla Francia normanna. Questo guazzabuglio si ricrea nei mercati, i cuori pulsanti della città e le mete più affascinanti della città. Ballarò, il Capo e la Vucciria sono macchie di colore abbagliante sullo sfondo di grigi, decadenti, palazzi. I giovani affollano, soprattutto di sera, strette vie fra case crollate o piene di crepe: mi sono chiesta se questo è il futuro che avranno sempre davanti o se loro stessi rappresentano il futuro dopo tanto abbandono. Le chiese opulente in oro e mosaici contrastano con il degrado, come gioielli inghiottiti dal traffico incessante. E poi c’è il mare, l’azzurro dell’acqua di Mondello. La luce abbagliante. E poi c’è la cucina, che trionfa in sapore e che di certo non ama la semplicità. Ma il colore, la sostanza e la generosità, quelle sì.

Dove mangiare
Forse dirò una cosa impopolare, ma della cucina palermitana non ho trovato insuperabile il pesce. Sfizioso (anche se non per deboli di stomaco), invece, lo street food. Un capolavoro, i dolci a base di ricotta. Partirei dai primi piatti: ne ho provati due che si sono rivelati un successo.

Pasta con le sarde

Pasta con le sarde

La pasta con le sarde è un must cittadino, ma conosco gente che  ne è rimasta delusa. Molto buona quella della Cambusa, locale con prezzi onesti che si affaccia su piazza Marina. Sedetevi nei tavolini all’aperto, provate l’insalata di arance, finocchi, pesce spada e bacche rosa: freschissima. Ed eccoci alla pasta con le sarde: non amo il pesce col pomodoro, ma devo fare un’eccezione: intanto perché la salsa non è troppo abbondante e poi perché le sarde, il finocchietto e il pan grattato si sposano alla meraviglia. Sulla stessa linea anche la pasta con l’anciova: anche in questo caso dove non bisogna andarci piano col pan grattato. Riconoscerete comunque nel sugo l’ingrediente principale: l’acciuga. Molto saporito. Io l’ho mangiata al Piccolo Napoli, ristorante molto amato dalle guide, sia Lonely Planet, che Routard per intendersi. Il locale è un po’ datato, ma la caponata, le panelle iniziali e il loquace proprietario valgono la visita. Una cena completa per due, con bottiglia di vino, si aggira sui 75 euro.

Veniamo proprio alle panelle e allo street food. Mi riferisco al mitico pani ca meusa, il panino con la milza, alle frittelle di ceci, arancini e crocché, crocchette di patate (c’è anche una versione insaporita con la cipolla).

Il panino con la milza della Focacceria San Francesco

Il panino con la milza della Focacceria San Francesco

Avete davanti a voi due strade per provarli. Quella più soft. Recatevi subito all’Antica focacceria San Francesco: un locale storico che si affaccia davanti a una bella chiesa (fate una sosta al chiostro, merita una visita per gli stucchi dll’artista locale Serpotti). Potete provare tutte queste specialità, anche la pizza tipica locale, lo sfincione, a prezzi contenuti, seduti in comodi tavolini. Altrimenti potete immergervi, soprattutto nel tardo pomeriggio, nella bolgia di Ballarò per la versione più strong. Ci sono diversi ambulanti che vi serviranno la milza, riscaldata al momento in un grande pentolone, dentro al panino. Per finire, una spruzzata di limone e una manciata di formaggio grattuggiato. Il sapore è veramente deciso e il primo morso può confondere per la somiglianza con la carne di fegato. Un consiglio: sedetevi ai tavoli di legno nel cuore del mercato, ordinate un piattino di crocchette e panelle (2 euro) e accompagnatelo a una birra gelata (curiosamente hanno l’altoatesina Forst, che mix tutto italiano).

Panelle e crocchette: aperitivo a Ballarò

Panelle e crocchette: aperitivo a Ballarò

Sempre a Ballarò, una via prima, c’è la Mecca del cannolo. In un vecchio laboratorio della famiglia Rosciglione potete provare il più tradizionale dei dolci siciliani: quando sono passata io c’era una comitiva di tedeschi urlanti (dalla gioia?). Si possono prendere anche da asporto, lo stesso vale per i pasticcini di mandorle e pistacchi già impacchettati. Quanto alla cassata, l’ho assaggiata buonissima in tutti i posti già citati.

Infine, veniamo proprio al pesce. Dei posti provati da me, non mi sento di consigliare un locale in particolare. Devo dire che ho puntato più sulla posizione dei ristoranti che sull’aspetto (nella bella e animata zona di via Bara all’Olivella sono tutti molto turistici). In uno di questi però (vale la pena scegliere più o meno a sentimento), ho trovato dei buoni involtini di pesce spada, ripieni con pangrattato e formaggio. Un appunto su Mondello: avevo voglia di pranzare vicino alla spiaggia, con vista mare. I locali sono piuttosto affollati e datati: devo dire che né l’impepata di cozze né il pesce alla griglia mi hanno veramente soddisfatta, ma la terrazza sull’azzurro dell’acqua indubbiamente valeva. Se trovate un posto valido segnalatemelo!
Polpette di sardeMerita, invece, un ristorante proprio nel cuore del mercato del Capo: si chiama Supra I Mura e il suo punto di forza è che si trova in una piazzetta assolata circondata da palazzi e bancarelle. Un dipendente del ristorante vi cuocerà il pesce alla griglia davanti al locale e sono ottimi anche gli spaghetti ai ricci di mare (molto intensi). Io però consiglierei soprattutto gli antipasti: dalla più classica parmigiana di melanzane a delle strepitose polpette di sarde (ancora loro, sì) in salsa di pomodoro. Mai assaggiata una così buona, di una dolcezza incredibile, c’era il sole dentro a quel piatto. In alternativa, altrettanto buone polpette di spada con cipolla. Davvero un indirizzo da non perdere all’ombra di Santa Rosalia.

Ristoranti della domenica: sulle colline modenesi

La vista dalla veranda dell'osteria Villabianca

La vista dalla veranda dell’osteria Villabianca

In questa pazza primavera, che regala qualche sprazzo di sole, ecco una nuova puntata con i ‘ristoranti della domenica’. Questa volta siamo fra Modena e Bologna, dove, notoriamente, difficilmente capita di mangiare male. L’osteria che propongo qui si chiama Villabianca -da Ida e Anselmo Tagliazucchi e si trova sulle colline di Marano sul Panaro, pochi chilometri dopo Vignola. Come nelle migliori tradizioni, la scoperta del posto è stata casuale: cercavo un ristorante che proponesse anche borlenghi, cosa che non è scontata neanche nel fine settimana, e mi sono imbattuta in lusinghiere recensioni di questo locale su TripAdvisor.  E dunque l’ho testato.

Triangoloni di ricotta ai fiori di zucca

Triangoloni di ricotta ai fiori di zucca

I punti di forza dell’osteria sono due: la posizione e la veranda. Si trova su un cucuzzulo vicino a una romantica chiesetta e l’occhio si perde sulla vallata. Vista che si gode, appunto, dalla sala, che non cerca di essere a tutti i costi tradizionale, chessò con le solite tovaglie a quadrettoni. Anche perché l’occhio vi sarà caduto prima sugli antipasti a buffet a centro campo. Sarete invitati a servirvi per ingannare l’attesa: si va dalle crocchette di verdure a una sorta di parmigiana di melanzane. A fianco, ciccioli freschi fanno bella mostra di sé con un ruspante cartello taia e magna (taglia e mangia). La tradizione è un po’ rivisitata nei primi piatti, che includono comunque tagliatelle e tortellini. Io ho scelto dei triangoloni verdi ai fiori di zucca: molto delicati.

Un borlengo

Un borlengo

Veniamo al piatto per cui mi sono messa in viaggio: il borlengo. Per me è il classico cibo dell’infanzia, quello delle estati trascorse in campagna, a pochi calanchi da qui. Per chi non li conoscesse, sono sfoglie sottili preparate con una capiente padella (la pastella ricorda vagamente quella delle crépe); vengono poi conditi con lardo, aglio, rosmarino e parmigiano e poi richiusi in quattro, tipo portafoglio. Se nelle sagre e feste di paese del modenese è una sorta di street food immancabile, non sempre è facile trovare ristoranti che li facciano tutto l’anno. A Villabianca direi che hanno superato il test: anche se li preparano in versione piuttosto leggera, alcuni potrebbero non trovarli abbastanza conditi. La scelta comunque non è obbligatoria, visto che in menù ci sono anche secondi di carne, come la grigliata mista, o frittelle di baccalà (ottime, molto morbide e saporite).

Torta Barozzi

Torta Barozzi

Infine i dolci. Ho visto passare sui carrelli diverse cose interessanti, ma io consiglierei, anche solo per onorare la zona, la torta Barozzi. Tipica della vicina Vignola (in centro c’è anche il negozio originale, con prezzi da gioielleria), unisce il gusto del caffé a quello del cioccolato. La consistenza è compatta, ma si scioglie in bocca e spesso è abbinata con il mascarpone: anche questo per me è un dolce un po’ proustiano visto che me la faceva mia mamma per il compleanno. Un appunto sul vino: ho scelto senza indugi un Pignoletto frizzante Colli bolognesi Doc Corte d’Aibo del 2012. L’azienda, biologica, si trova proprio qui vicino, sui colli di Monteveglio. Insomma, osteria ampiamente promossa, anche perché si può unire a una passeggiata fino a Castelvetro passando per un caseificio e qualche vecchia casa di campagna. Infine, ottimo il prezzo: per tutto quello che ho raccontato in questo post, ci si alza da tavola (sazi) con 25 euro a testa. E pure due borlenghi ad asporto.

Il Vinitaly 2013 in dieci produttori

Lo stand di Ritterhof

Lo stand di Ritterhof

Lo so, il Vinitaly è ormai finito da giorni, ma ecco qui alcune note veloci, raccontando di qualche bella sorpresa e di qualche piacevole conferma. Per impegni di lavoro sono riuscita ad andare solo nella giornata di apertura, che non è mai l’ideale visto i quantitativi di gente, decisamente non tutta addetta al settore. Regionale delle 8 di mattina da Bologna, alle 10 sono dentro la fiera, per uscirne solo alle 18.30. Quaranta degustazioni circa, per sette regioni visitate. Questi i numeri, vediamo i vini.

Emilia Romagna
Prima il saluto di rito agli amici dell’Emilia Romagna. Ancora una volta merita una sosta la Fattoria del Monticino Rosso di Imola (ne avevo già scritto qui se vi va di saperne di più). L’azienda dei fratelli Giovanni e Luciano Zeoli presentava un Sangiovese completamente privo di solfiti (davvero gioioso, vivace nel colore dai sentori di frutta rossa giovane) e il loro vino di punta, il Codronchio. Questa bottiglia (assai premiata) esprime tutte le potenzialità di invecchiamento dell’Albana e le sue declinazioni. Le uve infatti fanno un riposo sur lies e lo stesso vino si trova anche nella versione ‘botritizzata’: alcuni grappoli sono attaccati dalle muffe nobili e, diventa, permettetemelo, un piccolo Sauternes (molto amato dal mercato giapponese pare). Parlando con Luciano e l’enologo Giancarlo Soverchia, l’obiettivo dell’azienda è farlo invecchiare il più possibile: penso vinceranno la scommessa.

Luciano Zeoli del Monticino Rosso con l'enologo Giancarlo Soverchia

Luciano Zeoli del Monticino Rosso con l’enologo Giancarlo Soverchia

Passaggio d’obbligo all’interno del convito di Romagna dalla famiglia Navacchia di Tre Monti. Per il fondatore Sergio il trentesimo Vinitaly è ampiamente superato. Antesignani del vino di qualità in tempi non sospetti per questa regione, ormai i Navacchia sono molto lanciati nel mercato estero, in particolare in quello statunitense. Mi hanno offerto un assaggio di Thea rosso, vino di grande complessità e cavallo di battaglia dell’azienda. Però ripeto ancora una volta che, per me, sono molto interessanti i bianchi: dal Ciardo (Chardonnay in purezza) al Salcerella (un Sauvignon blanc che commuove). Questi veri signori del vino sono una graditissima conferma. Dopo un blitz dall’imolese Augusto Zuffa, un pioniere in campo bio (ha persino la certificazione per la Cina), ho lasciato la Romagna per l’Emilia: volevo assaggiare il Fortana e così ho fatto.

Il Lambrusco metodo classico della Cantina della Volta (foto dal sito dell'azienda)

Il Lambrusco metodo classico della Cantina della Volta (foto dal sito)

Il vino delle sabbie in versione frizzante è molto sfizioso, soprattutto accompagnato a un ottimo salame all’aglio, ma la grande riconferma direi che sia la Cantina della Volta. Nell’azienda di Bomporto si sono inventati un Lambrusco rosé di Modena Metodo classico: raffinatissimo, di un colore così delicato da sembrare quasi spumantizzato in bianco. Una bollicina scoppiettante, alla cieca sarebbe impossibile riconoscere un Lambrusco di Sorbara.

Lombardia
Lasciato il padiglione 1, mi sono lanciata nel Franciacorta. Non so se fosse lo spazio più ridotto, l’ora vicino al pranzo o il successo di cui godono questi bianchi al momento, ma di sicuro c’era parecchio da sgomitare (a dire il vero per molti sembrava più un aperitivo che un banco d’assaggio). Ho fatto varie degustazioni molto valide, ma segnalerei qui la Cascina Clarabella. Non solo perché ho trovato sublime il Pas dosé, ma anche perché la cantina è qualcosa di più: una coop (anzi un’unione di cooperative) che inserisce in questo settore pazienti psichiatrici. Il tutto rigorosamente bio. Una delle più belle sorprese della fiera che lascia anche parecchie speranze: di gente in gamba ce n’è e il vino è pure buono.

Dalla Francia all’Abruzzo
Un mini tour interessante è stato quello nello stand dei vini naturali, con una buona presenza anche di produttori francesi e austriaci. Segnalerei sicuramente lo Champagne della piccola maison Demarne Frison. Sono due le etichette: Champagne Goustan Brut Nature (cento per cento Pinot nero) e Champagne Lalore Brut Nature (100 per cento Chardonnay). Pochi riflettori, ma molto sostanza. Cercando un po’ in Rete, ho visto che il prezzo parte da circa 42 euro. Ad anni luce di distanza, fra gli italiani, da sottolineare l’abruzzese Emidio Pepe. Non ne ha certo bisogno visto che è ormai  noto per i suoi vini Triple A, in particolare per il Montepulciano d’Abruzzo e per il Trebbiano. E’ incredibile la longevità di queste bottiglie: del Trebbiano ho sentito anche un’annata 1983 e, davvero, ha ancora molto da dire.

Un incontro ravvicinato con Joe Bastianich

Un incontro ravvicinato con Joe Bastianich

Friuli Venezia Giulia
Vagando nel Friuli Venezia Giulia, mi sono imbattuta in Joe Bastianich. Proprio lui, il giudice di Masterchef, che non avendo abbastanza impegni nella ristorazione stellata e nel piccolo schermo, si diletta anche di vino. Lo ammetto, ho improvvisato qualche domanda pur di vederlo a distanza ravvicinata: ha detto di essere ben contento del successo dei bianchi nel pubblico italiano. Per distinguermi dai fan, ho assaggiato qualcosa: il Sauvignon francamente era davvero buono, con un bel sentore di peperone e… pipì di gatto proprio come piace a me. Insomma, è un po’ un Re Mida il nostro Bastianich.

Veneto
Un appuntamento cui non volevo mancare era, in Veneto, quello con le Vigne di Alice. Cinzia Canzian e Pier Francesca Bonicelli le avevo conosciute telefonicamente tre anni fa, quando mi raccontarono di essersi appena lanciate in una nuova azienda (prima lavoravano con i mariti) guidate dallo slogan ‘life is a bubble’. Finalmente ho conosciuto Cinzia, donna di classe (il filo di perle in fiera non è da tutti), caratteristica che sa trasmettere ai vini. Come zona siamo nel Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg e le due produttrici hanno giocato con il vitigno e ripescato tagli tradizionali. Interessante il P.S. integrale Brut, da uve Glera: il vino fermenta sui suoi lieviti senza sboccatura. L’etichetta di punta, (sempre 100 per cento uve Glera), è un metodo classico. Dei profumi del Prosecco resta poco, mentre affiorano sentori di lieviti e crosta di pane: davvero difficile distinguerlo da uno Champagne. Non si può scordare neanche nel nome, visto che si chiama ‘Alice. G’. Più spumeggiante di così…

La bottiglia di Alice.G (tratta da Facebook)

La bottiglia di Alice.G (tratta da Facebook)

Alto Adige
Infine il mio amato Alto Adige. Per prima cosa mi sono tolta la curiosità di vedere di persona aggirarsi nello stand come un comune mortale il conte  Conte Michael Goëss-Enzenberg di Manincor, l’azienda biodinamica adagiata sul lago di Caldaro. A seguire, ho finalmente assaggiato i vini di Stroblohf, che nelle mie scorribande nella strada del vino non ero ancora riuscita a raggiungere. In una guida avevo trovato l’indirizzo del maso (ad Appiano, sembra davvero stupendo, però d’inverno è chiuso), ma non immaginavo che i vini fossero così buoni. Sotto la guida sapiente di Andreas Nicolussi-Leck, ho assaggiato un ottimo Pinot nero ‘Pigeno’: un’esplosione di frutta e fiori. Infine, la migliore delle conferme, Ritterhof. E’ dopo avere assaggiato questi vini eccezionali che sono andata, due volte a distanza di sei mesi, in Alto Adige. Ed è stato bello, la seconda, essere riconosciuti in cantina, proprio in una zona in cui il visitatore non è mai accolto in maniera eccessivamente calorosa. Per quanto, ed è quello che conta, con una professionalità impeccabile. Ebbene, ho ritrovato il simpatico banchiere che al Vinitaly diventa una valida guida nella degustazione: il mio preferito resta il Gewurztraminer della linea ‘Crescendo’, da uve di un vigneto selezionato. Un bouquet esplosivo. Chicca finale, l’assaggio di una grappa Roner alla pera: prima o poi anche questo mondo è da esplorare.

Dove mangiare a notte fonda a Bologna

Osteria Mortetto

Voglio che i professionisti che leggono queste pagine le apprezzino per quelle che sono, e cioè uno sguardo sincero all’esistenza che molti di noi hanno condotto e respirato per la maggior parte dei propri giorni  e delle proprie notti, a detrimento della ‘normale’ interazione sociale. Non avere mai un venerdì o un sabato sera liberi, lavorare sempre durante le vacanze, essere indaffarati soprattutto quando il resto della popolazione è appena uscita dall’ufficio, generano una visione del mondo a volte peculiare, che spero i miei colleghi chef e cuochi riconoscano. 
Anthony Bourdain, ‘Kitchen confidential’

Volevo scrivere questo post da tempo. Ma la spinta decisiva è arrivata dopo una serata organizzata dall’Ais di Bologna cui ho partecipato di recente. Il tema era quello delle osterie bolognesi dagli anni Venti a oggi con due testimoni che di aneddoti ne avevano parecchi da raccontare: Carlo Faccioli, ex titolare della storica osteria di via Altabella Olindo Faccioli (il padre) e Nicola Spolaore, figlio di quel Luciano che gestì fino a pochi anni fa l’Osteria del Sole (vicolo Ranocchi). Sono stati loro a guidarci in un viaggio fra locali ruspanti, con pochi fronzoli, diventati simboli della città. Anche chi non è di Bologna potrà immaginarsi Guccini e Dalla a bere vino a tarda notte su tavolacci di legno. Il punto, dove voglio arrivare, è proprio questo, le ore piccole.

In quegli anni dei biassanot (i divoranotte) e del vino sincero, nel ghetto o in stazione si mangiava più o meno a qualsiasi ora. Bei tempi, visto che oggi per chi finisce di lavorare tardi come la sottoscritta (la domenica vado a procacciarmi il cibo non prima delle 23.30) riuscire a cenare, anche in centro, è una vera impresa. Non bisogna per forza essere giornalisti per avere ben presente quell’espressione dell’oste che, fra il costernato, il meravigliato e il seccato vi dice: “La cucina è chiusa, al massimo posso darvi un toast o un dolce, ed entro venti minuti”. Vaglielo a spiegare che hai lavorato dodici ore e hai una fame che altro che dolce mangeresti. E così ecco questo post, per segnalare alcuni locali che mi sfamano generosamente (e bene, e per questo rientrano in questa piccola lista) nelle mie ricerche raminghe, sperando che altri che sicuramente avrò tralasciato me li indichiate voi.

Via del Pratello

Iniziamo da una zona cruciale per la vita notturna bolognese: via del Pratello. Un paio di locali servono da mangiare almeno fino alle 24 (ora da me sperimentata). Il Montesino, osteria sarda dall’atmosfera calda (ma d’estate c’è il dehors). Sono sempre proposti due o tre primi della casa, spesso a tema, tipo malloreddu o gnocchetti, e antipasti a base di pane carasau. D’obbligo il mirto bianco della staffa. Nota dolente: nel fine settimana non si può prenotare. Anche se agli orari di cui stiamo parlando si trova spessp posto.

L’altra tappa, anche se è meglio dare un colpo di telefono prima, è il Rovescio, all’angolo con via Pietralata.

Il Rovescio (Foto da Facebook)

Il Rovescio (Foto da Facebook)

Qui la parola d’ordine è ‘a chilometro zero’ e bio: ci sono primi e secondi del giorno e il menù cambia tutti i mesi con i prodotti di stagione. Una menzione speciale in questa via la meritano però altri due locali: la pizzeria Totò, all’angolo con via San Rocco: posto spartano, particolarmente caro ai fuori sede, la pizza è davvero buona e alle 23.30 ve la servono.

L’altra va al mitico Babilonia: molto più che un kebabbaro. Il panino col falafel è una goduria, soprattutto dopo la coda che avrete fatto per ordinarlo. E’ logico che qui non ci si siede, se non nella vicina piazza San Francesco, d’estate molto animata. Ma d’estate, appunto.

Ed ecco una new entry, particolarmente gradita. Siamo di fianco al Barazzo, locale all’angolo con via Pietralata che di solito non spicca per l’atmosfera silenziosa. Ebbene, a fianco c’è l’ala jazz bar: certe sere in calendario ci sono concerti (anche jam sessions improvvisate), ma quello che è sbalorditivo è la cucina. Spazia dalla tartare di tonno, al polipo e patate, ai piatti di carne. Creativa e a prezzi ragionevoli: per due piatti di pesce e un calice di vino l’ultima volta abbiamo speso 30 euro. E tutto questo a mezzanotte e mezza. E, per l’atmosfera, non sembrava neanche di essere a Bologna.

Centro storico

Lasciamo il Pratello e andiamo in centro: qui la ricerca si complica, ma due porti sicuri ci sono. Eppure il primo, proprio dietro piazza Santo Stefano, si chiama curiosamente L’Infedele. Ma non lasciatevi ingannare: a discapito del nome, anche dopo il secondo spettacolo del cinema vi sfamerà. Il posto è piccolo, d’estate si allunga nella stretta via Gerusalemme con alcuni tavolini (spesso vi capiterà di veder passare Romano Prodi, che abita qui vicino). Ultimamente ha cambiato gestione, ma un crostino o un tagliere di salumi e formaggi si rimediano. Ridotta la scelta di vini.

Poco più in là, in via Borgonuovo, c’è un’altra certezza: l’osteria delle Sette Chiese. Ancora tavoli di legno e ancora crostoni pronti fino a tardi: da provare anche la salsiccia misurata in centimetri e la birra di castagne. Cambiando zona, ma sempre dentro le mura, resiste da anni un’altra storica osteria che vi sfamerà oltre le 24: Lo Scorpione (via Santa Caterina).

L'osteria dello Scorpione (foto tratta da www.curvyfoodiehungry.it)

L’osteria dello Scorpione (foto tratta da www.curvyfoodiehungry.it)

Fino a un po’ di tempo fa un vero scorpione vi attendeva dentro una teca, ma ho l’impressione che non ci sia più. Un must sono i panini, la crema di whisky della casa e i semi di zucca vicini alla cassa. Nel frattempo potete anche tirare tardi con giochi di società, (c’è anche Indovina chi).

Allora, diciamo subito che i tempi non sono sempre velocissimi. Ma a mezzanotte mi hanno messo sotto il naso una parmigiana di melanzane e dei taralli da svegliare chiunque dai primi abbiocchi. Sto parlando dell’osteria del Cirmolo, in via San Felice, giusto all’angolo con via Riva Reno. Ci siamo presentati (di sabato sera, però) dopo le 11 e la cucina era ancora allegramente aperta. La proposta è di piatti pugliesi, con qualche incursione nel bolognese.

Se, invece, bazzicate per via degli Orefici (che per altro ultimamente ha cambiato faccia con la splendida idea di renderla pedonale) una sosta entro la mezzanotte la potete fare anche da WellDone. Tutto è molto radic chic, persino l’hamburger, la star del locale. E’ grande più o meno la metà di quello dei fastfood e costa il triplo. Detto questo ne vale la pena perché è davvero buonissimo: provate il Cicero con hamburger di ceci. Gnam gnam.

E perché non viaggiare un po’ in Francia. A questo ci pensa il bistrot Le bar à vin, del simpatico Angelo. Siamo in via Nazario Sauro, proprio dietro quel Mercato delle Erbe che è tanto carino e trendy quanto più vincolato agli orari di chiusura. In questo piccolo e intimo locale si mangiano quiche, croque monsier, formaggi, fois gra, insalate e dolci strepitosi. Buona anche la scelta dei vini.

Opzione ristorante. Anche al Casa Monica, locale di via San Rocco all’interno di uno stiloso loft, mi hanno risposto diverse volte che la cucina restava aperta fino a dopo le 23. E in effetti devo dire che anche di recente hanno mantenuto la promessa, pure a inizio settimana. Però consiglio di prenotare per avvisare! Il menù varia spesso, con qualche costante, tipo il trancio di tonno. Io consiglio di provare gli antipasti, sempre buonissimi, e il vino della casa, un Pinot Bianco pulito e adatto a molti piatti. Bell’indirizzo. Costa circa 35 euro a testa.

L'esterno del Casa Monica (Foto tratta dalla pagina Facebook del ristorante)

L’esterno del Casa Monica (Foto tratta dalla pagina Facebook del ristorante)

Alla Tigre ci siamo spostati in via Orfeo, vicino all’angolo con via Rialto. Locale intimo, luci basse, tavolini di legno: il classico posto che piace ai bolognesi, non a a caso fra i titolari c’è pure Cesare Cremonini. I piatti sono scritti sulla lavagna, ma c’è sempre anche qualche fuori menù. Se lo trovate, ottimo il pesce spada marinato con zucca e carciofi. Buoni anche i dolci.

Una menzione speciale, sempre  da tenere a mente per chi si aggira in centro. E’ il ristorante indiano Taj Mahal, in via San Felice: ho testato che almeno fino alle 23-23.30 vi mette a tavola.

Fuori porta

Ultima sezione: usciamo dal centro (ma di poco). Subito fuori porta San Mamolo c’è un pilastro della notte bolognese, il Moretto. Il primo pregio dello storico locale dove un tempo si suonava jazz è che è aperto davvero sempre, persino a Ferragosto quando in città non c’è neanche un prete per chiacchierar (qualche volta capiterà pure a loro, non sono santi). Il secondo è che si mangia (e si beve) davvero bene: crostini variegati e ottimi piatti del giorno, primi e secondi (ottimo il roast beef) che vi saranno serviti anche all’una di notte.

Spostiamoci nel quartiere Costa-Saragozza, anche qui un locale non vi lascerà in braghe di tela: La Frasca.

La Frasca ( tratta dalla pagina Facebook)

La Frasca ( tratta dalla pagina Facebook)

Siamo a Porta Sant’Isaia: qui il massimo è il fritto assortito, ma ho testato anche vari crostini e panini. Direi che sia d’obbligo la birra: ne hanno di artigianali molto buone. Un poco più avanti, verso lo stadio, c’è un’altra enoteca collaudata: Zampa. La domenica sera e il lunedì è chiuso, e all’orario dell’aperitivo sedersi è un’impresa, ma all’orario che ci interessa si dovrebbe sul sicuro. La selezione dei vini è valida, consiglio crostino toscano e carne salada.

In zona Mazzini va assolutamente citata anche l’osteria Vini d’Italia. Buona la selezione dei vini, ma soprattutto i piatti della tradizione bolognese: ormai porto sempre qui stranieri o amici da fuori che vogliano assaggiare una cotoletta come si deve o tagliatelle al ragù. Buoni pure i prezzi. In Cirenaica, invece, c’è una certezza, e da decenni: è l’osteria Da Vito, quartier generale di Francesco Guccini, Lucio Dalla e tanti artisti bolognesi dagli anni Settanta. E’ rimasto praticamente immutato, nelle tende verdi, nelle foto all’ingresso, nel menù. Piatti della tradizione (buona la gramigna alla salsiccia, un po’ meno il vino), prezzi umani e tanta atmosfera vintage.
Arrivando fino a via Zanardi, una trattoria che sfama fino a notte fonda, particolarmente gettonato dai miei colleghi sportivi: il Mulino bruciato. Buffet d’antipasti, cotoletta alla bolognese e spiedone vanno per la maggiore. Anche in questo caso, qualche menzione speciale la meritano alcune pizzerie attivissime anche  oltre le 23. Fraiese, in via Saffi: mi hanno servito senza batter ciglio gamberoni e pesce al forno.

Poi Tomi a San Lazzaro. Come la prima non spiccano per il fascino, ma davanti alla richiesta “possiamo ordinare anche  pesce a quest’ora”? non strabuzzano gli occhi e rispondono “ma certo”. Da Tomi comunque è molto famosa la pizza, soprattutto per le sue dimensioni (straborda sistematicamente dal piatto), non per niente già all’inizio del liceo era un must. Direi che, tanti anni dopo, il cerchio si è chiuso.

Capitolo Colli

Devo dire che ho avuto una piacevole sorpresa quando, qualche sera fa, sono tornata dal ‘Nonno’, posto abbastanza mitologico per noi bolognesi in quanto a connubio colli-crescentine e tigelle. Vista superba (vabbé per questa magari tornate di giorno), parcheggio in mezzo alle vigne, da un po’ di tempo non andavo perché mi pareva che avesse alzato un po’ troppo i prezzi, ma non la qualità. Di sicuro va promosso sull’orario visto che mi hanno risposto un consolante “la cucina è aperta fino a mezzanotte” (anche se va verificato nella stagione invernale). E devo dire che anche le crescentine meritavano un passaggio.

Ps. Una nota. Ho testato personalmente più volte gli orari di questi locali, poi è ovvio: ogni sera fa storia a sé. Pensate che ne abbia tralasciati clamorosamente altri? Fatemelo sapere!

Ponte Alidosi

Ristoranti della domenica: Castel del Rio

Ponte Alidosi

Ponte Alidosi

Anche se la primavera mi sembra ancora parecchio lontana, almeno da queste parti, inizio a scrivere di giretti domenicali. E, in particolare, di qualche ristorante. Vorrei cominciare da uno che mi piace molto: si trova a Castel del Rio, sulle colline a cavallo tra la Romagna e la Toscana (ma, di fatto, a circa un’ora da Bologna), ‘il Gallo’. Ci sono stata domenica scorsa con alcuni amici di Imola: era la terza volta e le buone impressioni delle precedenti sono state confermate. Il ristorante si trova nella piazza centrale del paese, ma sul retro si affaccia sulla Vallata del Santerno. A proposito, Castel del Rio da queste parti è famoso per almeno quattro motivi: il ponte Alidosi, un esempio ardito di ingegneria civile del Cinquecento, il Palazzo (sempre Alidosi), altro gioiello rinascimentale unico su questa fetta di Appennino e perché  qui su è ancora bello fare un tuffo (anche se in teoria non si potrebbe) nel fiume Santerno. Infine, la gastronomia, il paese è famoso per il Marrone Igp (cui viene dedicata una lunga sagra a ottobre) e un quantitativo di feste di paese più o meno mangerecce (dal porcino al cinghiale). Tutte cose che troverete al Gallo.

Torniamo al ristorante.  D’antipasto arriva anche calda ficattola (lo so, il nome un po’ preoccupa, è una specie di gnocco fritto… sempre sorprendente la fantasia dei nomi montanari) e crostini inondati di funghi. L’ultima volta era proposto un menù degustazione, in cui campeggiavano lasagnette ai carciofi. Chi era con me, e se ne intende, ha decisamente apprezzato. Io però mi sono buttata su tre pilastri del ristorante. Primo, i ravioli di patate con i funghi porcini. Letteralmente ricoperti di funghi, davvero da non perdere. Come secondo la tagliata, grande classico, con sale e rosmarino, accompagnata – sorpresa – da due fette di polenta: davvero morbida. Ma tenete presente che si possono anche provare piatti più squisitamente romagnoli come agnello e castrato.

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Infine, il dolce. Io non sono fissata con le castagne, ma qui è d’obbligo prendere la meringa di marroni: una parte morbida e una friabile, arricchita pure da un marron glacé.

Inoltre, col caffé ti servono anche la piccola pasticceria della casa. Ero in compagnia di un produttore e ammetto di non avere guardato la lista dei vini, ma è ben fornita anche di etichette locali. I prezzi? Nella media, sui 35 euro a testa.

Meringa al marrone Igp

Meringa al marrone Igp

I... magnifici in degustazione

Voluptates, Magnifici vini in degustazione

I... magnifici in degustazione

I… magnifici in degustazione (foto tratta da www.voluptates.it)

Vabbe’ che ormai manca poco al Vinitaly, ma in giro ci sono altre manifestazioni che si rivelano un’ottima occasione per fare qualche degustazione. Ad esempio a Imola c’è un evento che ormai è giunto alla sua decima edizione ‘Voluptates, i magnifici in degustazione’. Per l’esattezza quest’anno sono 150 (erano partiti da quaranta), fra cui una ventina di etichette francesi. La tre giorni parte venerdì 15 fino e si chiude domenica 17 marzo ed è organizzata dalla delegazione locale dell’Ais. La novità di quest’anno è che è ospitata nel quadriportico di un museo civico, il San Domenico. Che, non a caso, è anche il nome del ristorante stellato imolese, gestito di Valentino Marcattilii. E in realtà, un’altra new entry di quest’anno è proprio che si potranno degustare (a 25 euro) tre fra i piatti più famosi dello chef.

Torniamo ai vini, i veri protagonisti. La lista la potete trovare qui, ma intanto ve ne elenco qualcuno. Io ho un po’ una fissazione: che i territori dovrebbero proporre eventi che valorizzino i loro vini. Tanto più in Emilia Romagna, che è una regione che ha molto bisogno di essere raccontata, sdoganata e spiegata al grande pubblico. Però Voluptates mi incuriosisce parecchio perché delle varie cantine sono selezionate solo alcune annate particolari. E in alcuni casi sono presenti pure i produttori, come Feudi di San Gregorio e Firriato. Qualche nome? Vi elenco quelli che vorrei assaggiare io. Chateau d’Yquem (Yquem 98), Gravner (Breg Bianco Anfora 2005), Masciarelli (Trebbiano d’Abruzzo Marina Cvetic 2009), Umani Ronchi (Verdicchio Castelli di Jesi Riserva Plenio 2009).

Altri nomi: Manincor (questo è un conte che ha un debole per il biodinamico), Cantina Termeno (ah, l’Alto Adige), Leoni Conti (la sua Albana -sì per lui è femminile-, è una scommessa vinta). E poi i grandi nomi: Antinori, Gaja. C’è anche Soldera Case Basse: l’ultima annata prima che un’intera cantina venisse profanata. Il delegato imolese, Claudio Maria, mi ha spiegato che ci saranno comunque anche tavoli tematici, tra cui uno di Sangiovese di Romagna e uno di grandi piemontesi.

Mi fermo qui, non prima di lasciare qualche dritta su costi e orari. Il venerdì e il sabato dalle 17 alle 22, mentre la domenica si entra dalle 16 alle 21. Il coupon di base, per assaggiare da uno a sei vini (ma non tutti, dipende dalla bottiglia), costa 15 euro e permette di visitare anche il museo cittadino di San Domenico.

Il Club del Fornello di Rivalta, Imola

A cena con le fornelle

Il Club del Fornello di Rivalta, Imola

Il Club del Fornello di Rivalta, Imola

Chi ha mai sentito parlare del Fornello di Rivalta? Io mai, almeno fino a qualche mese fa. Fino a quando non ho incontrato un gruppo di simpatiche signore di Imola che fanno parte del gruppo locale. Il Fornello (magari ce n’è uno vicino anche a casa vostra) altro non è che una sorta di club di cucina, nato una trentina di anni fa a Castello di Rivalta, appunto, nel piacentino. Da qui si è ramificato in tutto il mondo e solo in Italia ci sono 44 delegazioni da Bolzano fino a Siracusa. Le associate, rigorosamente donne, si radunano periodicamente per organizzare cene a tema, molto ricercate, dal menù stampato all’apparecchiatura della tavola. Ai fornelli, che per molte di loro sono un hobby, abbinano a volte anche attività di volontariato nelle loro città. Insomma, il gruppo è una miscela di una sapiente cucina fatta in casa, con una buona dose di Saper vivere di Donna Letizia.

Che ci sia dietro un po’ di snobismo se lo dicono da sé: “A noi non piace cucinare da massaie”, mi ha specificato la referente imolese Bona Sandrini Caliendo. “Ci piace sperimentare nuovi piatti”. In più le signore le hanno pensate tutte: mica si ritrovano a casa di una che avrà sulle spalle da sola le sorti della cena e che arriverà alla sera stravolta. Lo schema è questo: decidono il tema (la cena ricorre circa ogni due mesi), ognuna a casa sua cucina un piatto che poi al massimo riscalderà nella sede ospitante. Quando le ho incontrate la prima volta erano una dozzina e in cerca di nuove leve: l’età media (è vero che alle signore non si dovrebbe chiedere…) era piuttosto alta. Ma, all’ultima cena a cui sono stata invitata (sì, ogni tanto aprono le porte a soggetti esterni) il gruppo si era ampliato con tre giovani new entry. Immagino che la selezione non sia stata facile. Anche se in fondo, quello che viene richiesto è di amare la cucina e la bella tavola.

E à la carte, che si mangia? Le signore spaziano dai piatti della tradizione al finger food. Posso citare il menù della cena cui ho assistito io: Vellutata di zucca con pizzico di zenzero, sformatine di cardo gobbo su letto di fondue, petto di canard profumato all’orange e, per chi non ama la carne, bien sur, c’era anche la quiche di carciofi dell’Agro Pontino. Insomma, anche i nomi la dicono lunga.

Conversando con alcune di loro ho strappato qualche consiglio di cucina. Una è moglie e madre di cacciatori e quindi (un vero peccato, sì) ha sempre il congelatore pieno di selvaggina. Ebbene, il fagiano con il tartufo incontrerebbe i gusti anche dei più ostili alla caccia. Secondo un’altra ‘fornella’, il modo migliore per utilizzare gli albumi avanzati è realizzare dei ricciarelli, con mandorle in arrivo solo dalla Sicilia però. Oppure vi va un dolcetto serale, la classica ‘voglia di qualcosa di buono’? C’è chi consiglia di preparare una crèpe un po’ più spessa e di cuocerla in padella assieme alle mele. Niente male.

Mi è scappata la domanda: ma le fornelle sono la risposta casalinga a Masterchef e similari? “Macché- mi hanno risposto- quei tre giudici lì sono cattivissimi e ci sgriderebbero”. A giudicare dai piatti non si direbbe.

Sauvignon blanc Salcerella

Salcerella, il Sauvignon romagnolo che sa di Alto Adige

David e Vittorio Navacchia (Azienda Tre Monti)

David e Vittorio Navacchia (Azienda Agricola Tre Monti)

Ho veramente un debole per il Sauvignon, uno dei motivi per cui appena posso faccio una scappata in Alto Adige per fare incetta di questi bianchi profumatissimi. Ma, anche senza dover prendere la macchina per salire fino a Bolzano, ne ho trovato uno a pochi passi da casa che non solo non ha niente da invidiare ai bianchi altoatesini, ma vola anche più in alto. Almeno dipende da quanto vi piace quel caratteristico sentore vegetale o, come direbbero i francesi (che ci mettono sempre più grazia), di pipi du chat.

Sauvignon blanc Salcerella

Sauvignon blanc Salcerella

La miracolosa scoperta è avvenuta a Imola, in provincia di Bologna. Città famosa per i matti, la Formula Uno (un tempo), tanta buona gastronomia e che io sto esplorando dal punto di vista enologico. Il vino di cui parlo è il Salcerella, un Sauvignon blanc in purezza, Colli d’Imola bianco Doc, prodotto dall’azienda agricola Tre Monti. Queste uve crescono nel podere che la famiglia ha sulle colline imolesi (l’atro è nel forlivese), particolarmente vocate per i bianchi semi-aromatici. Una prova ne è anche il Ciardo, uno Chardonnay (sempre in purezza), ammorbidito da un passaggio in legno. Citando Andrea Scanzi nel libro ‘Elogio dell’invecchiamento’, sono ancora alla personale ricerca del ‘super naso’ e ci sto lavorando su al corso di primo livello Ais. Premesso quindi che non sono un’esperta, qualcosa del Salcerella voglio provare a raccontarlo. Di un vivace giallo paglierino, al naso è un’esplosione di profumi, in particolare di foglia di pomodoro e erbe. In bocca non tradisce le aspettative: il bouquet resta, unito a una grande freschezza e a una buona morbidezza (del resto la gradazione alcolica è di 14%, e si sentono). In azienda raccontano che persino dall’Alto Adige sono venuti “a studiare come si fa il Sauvignon in Romagna”. Non mi stupisce. Quanto agli abbinamenti, io l’ho provato con il sushi ed è perfetto, ma è ottimo con primi piatti con verdure o comunque pesce. Una grande bottiglia a un prezzo per altro contenuto: sugli 8 euro in enoteca.

Per quanto riguarda l’azienda, Tre Monti, è una delle realtà più note dell’Imolese. La sua storia è iniziata quarant’anni fa: il fondatore è Sergio Navacchia e i suoi figli, David e Vittorio, tengono le redini della cantina. Si sarà capito che ho un debole per questa famiglia e per i loro vini. Ma non sono l’unica: il vino di punta, il Thea rosso, ormai da anni ha sdoganato i 90 punti del Wine Spectator. La scorsa primavera ha fatto una capatina in azienda anche un certo Anthony Bourdain. Se volete saperne di più, ecco qui una recente intervista che ho fatto.

Bruno Barbieri (Dal sito di Sky.it)

Quattro chiacchiere con lo chef Bruno Barbieri

Bruno Barbieri (Dal sito di Sky.it)

Bruno Barbieri (Dal sito di Sky.it)

Lo ammetto, anche io sono entrata nel tunnel e, per un paio di mesi, mi sono drogata di Masterchef Italia. Non avevo guardato la prima edizione e mi sono accostata con sospetto, come faccio spesso nei confronti dei talent show e della tv in generale, alla seconda. Poi, puntata dopo puntata, mi è letteralmente spuntata la voglia di cucinare, tanto che, verso la fine della serie, le serate sono diventate ‘metaculinarie’: me ai fornelli in attesa della temibile mistery box. Oltre alla sorpresa, come ho giù scritto, di trovare un concorrente conosciuto (il terzo classificato Andrea), credo che il programma abbia alcuni difetti. Ad esempio, sarebbe bello che gli chef dispensassero qualche dritta culinaria in più per noi poveri mortali (anche se nelle ultime puntate hanno intensificato i consigli ai concorrenti in preda al panico). Anche la registrazione, che sicuramente permette di selezionare solo i momenti chiave, a volte rende la trasmissione un po’ fredda. E tutti entrano molto nel personaggio e ci marciano su. Il vero successo, secondo me, dipende dall’azzeccato trio di giudici: Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich. Non solo perché sono belli, stilosi e severi, ma perché sanno sapientemente completarsi come personaggi. E perché, in un panorama televisivo spesso desolante, sono persone con competenza, che eccellono in un mestiere, lo amano e lo fanno amare.

Comunque sia, anche facendo gli snob, va detto che Masterchef è stato seguito su Sky, e quindi a pagamento, da un esercito di spettatori. Eppure di cucina è pieno il piccolo schermo. Dunque qual è la ricetta? L’ho chiesto a uno di loro, gli chef, intervistato perché non solo è nato, ma anche perché bazzica spesso nelle zone di cui scrivo io (l’imolese): Bruno Barbieri. Affabile, spontaneità tutta emiliano-romagnola, mi ha spiegato perché gli piace tanto la parola mapazzone, perché ha vinto l’avvocato, che si è affezionato a tutti i concorrenti, ma soprattutto “a Ivan, Suyenne e Nicola”. E che cosa si cucina quando è giù di morale. Ecco qui come si diventa chef anche fuori da Masterchef.

Non solo sushi, cosa mangiare in Giappone

Il padiglione d'oro (Kinkaku-ji), a Kyoto

Il padiglione d’oro (Kinkaku-ji), a Kyoto

 Prima del più famoso ‘l’Eleganza del riccio’, Muriel Barbery ha scritto un libro che si chiama ‘Estasi culinarie’. Sarebbe il titolo perfetto anche del mio primo viaggio in Giappone. Dodici giorni fra il delirio di Tokyo, l’incanto di Kyoto e suggestive (e innevate) località di montagna. Sono pronta a sostenere che un quaranta per cento almeno della bellezza del Paese risiede nel cibo. Lo scopo principale di questo post, dunque, è sfatare un mito: che nel Sol Levante si mangi solo pesce crudo (cosa che per altro mi renderebbe molto felice). Non c’è persona, e dico una, che alla partenza o al rientro dalle vacanze non mi abbia buttato là: “Quindi, avrai mangiato del gran Sushi?”. Gran sushi sì, ma non solo.

In Giappone c’è una varietà gastronomica incredibile. Troverete localini in ogni cittadina, in ogni stradina. Fra le cose divertenti, è che tutti i posti sono specializzati in un piatto particolare, quindi basta capire di che cosa si ha voglia e cercare il ristorante adatto. Altra cosa: anche i prezzi sono molto fluttuanti: gli spiedini di carne o una ciotola di ramen vi costeranno davvero pochi euro, mentre per provare la raffinata (e vegetariana) cucina Kaiseki, beh… mettetene in conto almeno un centinaio a persona. Un avvertimento: non sempre sarà facile trovare il locale che cercate. Primo perché, i posti hanno l’insegna in ideogrammi e spesso da fuori non è facile capire che tipo di piatti vengono proposti. A meno che non riusciate a sbirciare oltre una porta di legno e carta di riso, dovrete entrare e aspettarvi qualsiasi sorpresa. Altra cosa, i giapponesi hanno un rapporto peculiare con la toponomastica: nel senso che non hanno proprio i nomi delle strade. Loro stessi si perdono spesso quindi… portatevi le mappe. Difficoltà a parte, sarete ovunque ampiamente ripagati.

Cosa mangiare in Giappone? Yakitori a Kyoto

Cosa mangiare in Giappone? Yakitori appena messi sulla griglia

Yakitori, pollo alla griglia

Partiamo da un pasto molto divertente. I Giapponesi affollano alcuni locali soprattutto all’uscita dal lavoro. Sulle 18 troverete uomini in giacca e cravatta ridere e bere di gusto davanti a un piatto di yakitori (letteralmente ‘pollo alla griglia). Si tratta di spiedini cotti alla brace proprio davanti a voi: chiedete allo chef e ve li preparerà in salsa agrodolce o col sale; starà poi a voi accompagnarli a birra o sakè. Tenete presente che gli yakitori sono soprattutto a base di carne e, in particolare, di interiora di pollo. Fra quelli che mi sono stati proposti, c’erano fegato d’anatra, collo e addirittura un utero. Niente paura, il sapore è forte, ma gustoso: se non conoscete la lingua, tanto meglio, scoprirete cosa avete mangiato solo dopo. Indirizzi utili. Ne consiglio due, dallo stile molto diverso. A Kyoto, nel cuore di Pontocho, una delle strade più suggestive della città, provate Torijin: l’oste molto simpatico vi servirà anche uova sode, salsine e un dolce gratuito per giustificare il coperto (4 euro). Sedetevi al banco e mescolatevi alla gente del posto. Come riconoscerlo? Gli yakitori a Pontocho sono solo due. Questo è il più buio.

Se siete a Tokyo, c’è un’intera strada, proprio dietro alla stazione di Shinjuku (yakitori-yokocho, vicino all’uscita Nishiguchi). Sono localini aperti sulla strada molto, molto spartani, anche troppo: presi d’assalto dai giapponesi con voglia di chiacchiere rappresentano comunque una divertente cena low cost.

Visto che ho parlato di carne, mi soffermo su un locale davvero assurdo di Tokyo, Toriki (3-11-13 Hatanodai, Shinagawa-ku), che ho poi scoperto essere abbastanza noto dopo la visita di Anthony Bourdain. Qui il motto potrebbe essere ‘del pollo non si butta via nulla’. I pennuti arrivano da un allevamento locale che serve solo il ristorante. Qui vi verrà servito anche un piatto che mette in crisi una delle convinzioni che più ci hanno inculcato da piccoli: pollo crudo, accompagnato col wasabi (il rafano che si mette anche col sushi). Ho assaggiato con sospetto, ma devo dire che è molto fresco. E che sono ancora viva. Poi si prosegue con brodo, collo (tutto intero con tanto di trachea, sì), interiora, cosce, magoncini… fino al boccone del prete. Proprio lui, il lato b del pennuto, sempre cotto alla brace. La carne è abbastanza grassa, quindi succulenta: è un’esperienza unica, va provato.

Toriki, Tokyo

La parte… meno nobile del pollo

Toriwasa

Pollo appena scottato (di fatto crudo) con wasabi fresco, da Toriki (Tokyo)

Dal sukiyaki alla carne di Hida

Continuando con la carne, uno dei piatti più gustosi e simili al gusto europeo che ho assaggiato è di sicuro il sukiyaki. Il cameriere vi porterà un fornellino in cui cuocere fette di manzo (o di anatra) con le verdure. Il ‘sughino’ della carne è celestiale e la cottura sul tavolo, un po’ come nelle nostre bourguignonne è divertente. Subito un indirizzo, sempre a Kyoto: Negiya heikichi. Costa un po’ di più, circa 5mila yen a persona, ma la location da sola vale il prezzo. E’ fuori dalle zone più frequentate, lungo uno stretto canale che di notte è illuminato dalle lanterne: l’interno, tutto in legno, è reso magico da una vetrata che si affaccia sull’acqua del fiume. Il locale ha molta personalità, punta sugli ortaggi (ampiamente caldeggiati dal cuoco che ve li mostrerà). Fantastica la cipolla, veramente enorme, lentamente cotta al forno. Morbidissima, saporita, e da intingere nel sale.

Negiya Heikichi

Un morbidissimo cipollone al forno da Negiya Heikichi (Kyoto)

Finiamo con la carne, toccando una delle punte più elevate della cucina giapponese: la carne di Hida, tipica della zona montana di Takayama. Io adoro ogni tipo di carne, ma mai, davvero mai, ho mangiato manzo così morbido e delicato. Il modo ideale per assaggiarlo – e così introduco un’altra esperienza imperdibile di un viaggio in Giappone – è durante una cena tradizionale in una ryokan, una casa tradizionale. L’ho provato due volte, ma citerò il posto più suggestivo: nel minuscolo paesino di Shirakawa-go. E’ annidato in montagna a circa tre e ore e mezza da Kyoto e le sue casette di legno dalla forma tipica Gassho-zukuri (in italiano, a mani giunte) sono patrimonio mondiale dell’Unesco. Pernottare in una di queste case significa anche cenare intorno all’irori (focolare) con gli altri ospiti. Sul tatami troverete, già in tavola, zuppa di miso, the verde, ciotola di riso, sottaceti di montagna, pesce al forno e tempura di verdure. Il re, il manzo di Hida, è adagiato su una specie di bruciatore per essenze su un letto di funghi e una foglia profumatissima. Durante la cottura sulla fiamma, le consistenze si sciolgono e i sapori si fondono dolcemente. Una meraviglia.

Aggiungo una nota: nelle ryokan, più o meno lo stesso pasto si mangia a colazione, servita intorno alle sette e mezza. Preparatevi quindi al pesce di prima mattina: niente paura, è delicato e farà gola anche ai più scettici. Un indirizzo: Koemon Minshuku (circa 10mila yen a persona comprensivi di due pasti e sakè attorno al focolare).

Scodelle fumanti: Ramen, Soba e Oden

Un piatto fumante di soba con vista sul fiume non ha prezzo

Un piatto fumante di soba con vista sul fiume non ha prezzo

Tornando ai piatti ‘da tutti i giorni’, economici e perfetti per scaldarsi durante i rigori invernali, non posso non parlare di soba, ramen e oden. Nel primo caso, si tratta di spaghetti di grano saraceno, molto sottili, cotti nel brodo, insaporito con verdure (ma si possono mangiare anche freddi). Come sempre, un indirizzo imperdibile: siamo a est di Kyoto, sulle colline, in una zona costellata di templi.  Proprio sul fiume, prima della montagna delle scimmie, c’è il ristorante Yoshimura. A 2mila yen, si pranza con la vista sul corso d’acqua, al secondo piano, davanti a enormi vetrate. I soba sono arricchiti da cipolline verdi e tofu fritto: fra il cibo e la vista (e la musica classica di sottofondo) si intravede la pace dell’anima. Passiamo al ramen. Avete presente quei cartoni giapponesi in cui il protagonista sorbisce rumorosamente gli spaghetti con la faccia nel piatto? Ebbene questi posti esistono e la gente mangia questa pasta in brodo di carne (più o meno arricchita in soia a seconda della zona) proprio così. Con le bacchette rischia di diventare un incubo, ma ancora una volta il gusto deciso conquista: spesso accompagnato da riso e sottaceti, ve la cavate con meno di mille yen.

Infine, gli oden, un piatto che in Italia è sconosciuto. Il protagonista è sempre il brodo, in cui vengono cotti palline di carne o pesce, tofu, verdure. In particolare il daikon, una specie di rapa, che in questa versione è molto saporita. Ancora una volta ci troviamo davanti a un piatto molto economico, da gustare direttamente al bancone davanti al cuoco. Un locale divertente, Miyuki, si trova a Kanazawa. Appena entrate, proprietari e commensali vi saluteranno in coro: i gestori si fermano a parlare volentieri, incuriositi dai clienti (pochi) stranieri. Dettaglio non indifferente: qui ho bevuto il miglior sakè del viaggio, consigliato dalla titolare (marca Tedorigana).

Okonomiyaki

Nel caso non bastasse ai detrattori del pesce, le vie della cucina sono infinite. Un capitolo lo merita di gran lunga l’Okonomiyaki, chiamata ‘pizza giapponese’ e particolarmente amato da comitive di giovani e studenti. In realtà con la nostra pizza (fortunatamente) ha poco a che fare. Si tratta più di una specie di pancake con verdure e carne: in alcuni locali vi serviranno una pastella e gli ingredienti. Starà poi a voi cuocerla e girarla con le apposite palette su una piastra rovente a centro tavola. In alcuni locali – quelli di livello un po’ più alto, o semplicemente più turistici – saranno i cuochi a prepararvelo e dovrete solo mangiarlo al bancone.

Tutti questi piatti sono adatti anche nel caso in cui vi troviate a viaggiare in Giappone con dei bambini. Per saperne di più ⇒ne ho scritto in questo post.

Tempura

Non posso non citare uno dei piatti più sfiziosi, questo conosciuto anche in Italia: il tempura. Sembra fritto, ma non è. O almeno, la pastella è particolarmente delicata, a base di farina di riso e acqua ghiacciata. Lo si trova in tantissimi ristoranti, ma alcuni posti sono specializzati. Ne segnalo uno, a Tokyo, Tsunahachi (ce ne sono diversi, sono stata a quello di Shinjuku). Sedetevi al banco e chiedete il menù degustazione: il cuoco vi servirà direttamente nel piatto sei-sette porzioni di verdura, gamberi e altri tipi di pesce. A me piacciono molto le foglie, tipo salvia: sono particolarmente croccanti.

E infine il pesce: non solo sushi

Ed è così, con il tramite del tempura che, finalmente, arrivo al pesce. Per chi lo ama, non credo possa assaggiare niente di più buono. Ci sono tanti posti per gustarlo, a partire dalle izakaya, una sorta di pub in stile giapponese. Diversamente dall’Italia, è difficile che si beva senza l’accompagnamento del cibo e in questi locali si mangia sempre qualcosa. In cima alle mie preferenze ce n’è una a Kyoto, Ikawamaru, specializzata, appunto nel pesce. Ordinate subito il polipo crudo al wasabi. Poi proseguite con un bel piatto di sashimi misto… fino al pezzo forte: le ostriche fritte (piatto tipico di Hiroshima). Accompagnate da una salsina vagamente simile alla mayonese, è un’esperienza da lacrime. Il sapore forte di mare si sposa benissimo con la pastella croccante: un piacere unico.

Ostriche fritte

Ostriche fritte!

Se come me siete fanatici delle ostriche, in questo ristorante di Hiroshima mangerete solo quelle! Oppure potete provare quelle in versione  street food!

Chi ama il pesce crudo, non può non provare il sashimi al mercato del pesce. Purtroppo per vari disguidi ho perso la famosa asta del tonno a Tokyo, ma fortunatamente a Kanazawa ho fatto un salto al mercato cittadino. Si rimane stupiti dagli enormi granchi in vendita, dai molluschi e dai crostacei esposti. Che il pesce sia freschissimo lo testerete da voi nei ristorantini che si affacciano sulle bancarelle, molto frequentati nella pausa pranzo. Io ho scelto una ciotola di riso con sopra adagiate fettine di sashimi: il top, come sempre è il gambero crudo. Con una birra piccola, ve la caverete intorno ai 2mila yen.

E arriviamo così al gran finale, un vero e proprio lusso che mi sono concessa: il ristorante Kyubey, un’istituzione di Ginza, a Tokyo. La cucina è raffinatissima e, come potrete leggere all’interno del locale, è molto frequentato da star di Hollywood e pezzi grossi locali. A pranzo i prezzi sono più contenuti e per una degustazione piccola (che comunque conta una ventina di portate), dovrete mettere in conto circa 10mila yen (circa 90 euro). E anche per questo è frequentato da turisti. Alcuni lo considerano in declino (e infatti ha perso la stella Michelin), ma le infinite file di clienti locali confermano che il locale è apprezzato. Si può prenotare solo per l’orario di apertura (11,30). Altrimenti sarete messi in lista d’attesa, Una volta nel locale, aspetterete in una sala apposita. Poi, il tripudio. Davanti a voi avrete uno chef che cucina quello che chiedete. Un rapporto diretto che mette un po’ soggezione, ma ci si sente viziati come non mai. Ogni portata viene adagiata in un piattino davanti al cliente, con tanto di indicazioni sulla salsa più adatta; in ogni caso va mangiata subito. Fra sashimi, onigiri e sushi, mai nessun pesce mi sembrerà mai più all’altezza, ma due piatti mi hanno davvero tolto le parole. Un pesce cotto con mandarino cinese e un tipo di tonno di una morbidezza inaudita. Attorno a voi donne in kimono non vi lasceranno mai sprovvisti di the verde. La quinta essenza della cucina giapponese. La cura dei particolari. Il senso del bello. La più grande lezione chre il Giappone sa insegnare.

Ginza Kyybey

Il sushi viene preparato un pezzo alla volta (Ginza Kyubey)