Latest Posts

Quattro chiacchiere con lo chef Michael White

Michael White assieme a Valentino Marcattilii nella cucina del ristorante San Domenico (Foto IsolaPress)

Michael White assieme a Valentino Marcattilii nella cucina del ristorante San Domenico (Foto IsolaPress)

Garganelli a stelle e strisce
Un post veloce veloce, da dedicare a Michael White. Il mio incontro con lo chef americano, premiato a Imola durante il Baccanale qualche giorno fa, è stato davvero piacevole e spontaneo. Proprio come è lui: se la potrebbe tirare ai massimi, dall’alto delle sue stelle Michelin, è invece è stato affabile e disponibile come pochi. Del resto, ha detto che si sente romagnolo. E in effetti sembra proprio così, anche se non riesco bene a immaginarlo in quelle cucine frenetiche pronto a urlare contro giovani apprendisti, come vediamo fare nei vari Masterchef e similari.

In realtà l’ho visto in azione. E non a New York (anche se sono otto i suoi ristoranti nel mondo, tutti di cucina italiana), ma al San Domenico (due stelle Michelin). Ma che ci faceva White in cucina con lo chef imolese Valentino Marcattilii? La storia è così. Siamo negli anni Novanta: il cuoco americano Michael White sente parlare della città da un collega e fa armi e bagagli per il suo ‘gran tour’ italiano. Il motivo, mi racconta, dimostrare ai genitori che si sta impegnando ai massimi in questo lavoro. E così approda a Imola al raffinato ristorante di Valentino, ma la visita non sarà breve, visto che ci resterà per sette anni. Nel frattempo impara ogni segreto della sfoglia, dei sughi della nostra tradizione, gira un po’ tutta l’Italia e trova pure moglie.

Insomma, una storia, quella di questo grande chef che ha centinaia di persone che lavorano per lui, che in realtà è estremamente legata al nostro paese e alla nostra cucina. Lo si vede bene nel documentario Taste memory. Il sapore emiliano romagnolo nel mondo. La storia di Michael White, documentario, a cura di Mauro Bartoli, in cui White va alla scoperta dell’enogastronomia emiliano romagnola, tra produttori, ricette della tradizione e personaggi locali. Prodotto dalla Regione Emilia Romagna, girato anche a Imola, nel video affiorano ricordi e gesti semplici di mani sapienti che preparano pasta fresca, vino di qualità, prodotti della tradizione locale. Tutti ingredienti che si ritrovano poi nella cucina di White. E posso assicurare che il garganello, molto piccolo e cotto perfettamente al dente, che ho assaggiato nella cena organizzata al San Domenico in suo onore, raccontava esattamente tutto questo. Bello l’accostamento di colori: giallo, rosa e nero. Per quanto riguarda il gusto, beh, direi che la parola delicatezza sia la più adatta.

I garganelli preparati da Michael White e Valentino Marcattilii (Foto di IsolaPress)

I garganelli preparati da Michael White e Valentino Marcattilii (Foto di IsolaPress)

Bello soprattutto vedere i due chef, White e Marcattilii, muoversi con sicurezza e precisione ai fornelli, quasi fluttuando. Ogni cosa perfettamente in ordine, i gesti erano rapidi e incisivi. Per quanto riguarda White, poi, il sorriso non è scomparso un attimo, mentre due giovani apprendisti rispondevano alle direttive in inglese di Valentino. Perché non devi sentire la fatica, aveva appena detto lo chef americano: è un lavoro troppo totalizzante se no. Ecco, non ti deve sembrare un lavoro, se no non ce la fai.

Qualche altra domanda l’avevo fatta qui, se andate a trovarlo a New York, fatemi sapere!

Mangiare (quasi) low cost a Tel Aviv

Labaneh sulla spiaggia

Labaneh sulla spiaggia

Tel Aviv

Diciamolo subito: Israele è un tripudio enogastronomico. Terra di incrocio, approdo, sintesi, anche la cucina descrive questo continuo puzzle culturale. Se i sapori dominanti sono quelli mediorentali, non mancano influssi dell’Europa dell’Est e tanta, tanta sperimentazione. In più è decisamente anche il regno di vegetariani e vegani: dai falafel all’hummus, non è difficile infatti trovare locali che comprendono nei menù tante possibilità. Unico problemino: il prezzo. Se vi trovate a Tel Aviv non avrete che l’imbarazzo della scelta dalla colazione al dopo cena, ma per il portafogli potrebbero essere dolori. Giusto per dare un’idea, non ci discostiamo dai prezzi delle città del Nord Italia o dalla principali capitali europee. Ecco quindi qualche consiglio per mangiare (davvero) molto bene a prezzi onesti.


Miznon

Miznon, su King George

Miznon, su King George

Come sempre, i posti migliori si trovano per caso. E dire che spesso, arrivando tardi (oltre le 23.30) in una città nuova, mi è capitato di dovermi accontentare del primo posto trovato aperto nei paraggi dell’albergo. Questa volta siamo stati davvero fortunati. In King George, infatti, vagando solo pochi minuti (a proposito, ottimo l’Hotel Galileo, nel quartiere yemenita, su Allenby, poco distante da questo locale), siamo stati attirati dai tavolini in strada e dall’ambiente informale, ma indubbiamente studiato. Musica alta, pomodori e cavolfiori sugli scaffali al posto dei libri, lampade vintage. Tutto molto trendy, come il look un po’ alternativo della (giovane) clientela. Superate le difficoltà iniziali con il menù in ebraico, ci siamo lanciati con lo staff scoprendo l’esistenza di una lista anche in inglese.

Un cavolfiore... intero, da Miznon

Un cavolfiore… intero, da Miznon

Mizon, 23 Ibn Gabirol st.

Mizon, 23 Ibn Gabirol st.

I piatti sono fondamentalmente tutte delle varianti sul tema pita, cibo da strada molto rivisitato. Come consigliato dal ragazzo al bancone, abbiamo provato quella con il pesce (sardine) e quella con i fegatini di pollo (buonissimo). Tutto arricchito da salse, verdure fresche e una buona dose di spezie. Veramente ottimo, così come il cavolfiore, intero, servito come contorno. E’ grigliato, con un goccio d’olio sopra: divino.

Chiacchierando un altro po’ è poi saltato fuori come mai questo posto è così frequentato. Si tratta di uno dei due locali ‘gemelli’ aperti dallo chef israeliano Eyal Shani: una specie di Carlo Cracco locale (è uno dei giudici di Masterchef), che propone cibo di strada in versione più ricercata e a prezzi bassi, ma non bassissimi. Diciamo che 15 euro circa per una pita e una birra non è pochissimo, ma vista la bontà e i prezzi della città è un’ottima scelta. In più ci sono stati offerti anche una pita con gelato (ebbene sì) alla vaniglia e resina (ebbene sì) e té alla menta. Buono, buono, buono.

Ultima cosa: lo chef Shani ha anche il suo ristorante di alto livello, aperto solo due sere a settimana vista la qualità delle materie prime: si chiama The Salon. Se ci andate, fatemi sapere.


Port Said

I tavoli all'aperto del Port Said

I tavoli all’aperto del Port Said

Come ha detto la mia amica Shani, è un locale veramente frequentato dai giovani di Tel Aviv. I piatti si ispirano alla tradizione, ma sono completamente rivisitati. Un posto favoloso, in cui siamo voluti tornare anche l’ultima sera. E prezzi accettabili: mangiando a sazietà, non si superano i 30 euro a testa (circa 110 shekel). Ma veniamo al locale, sempre in zona Allenby, proprio davanti alla Sinagoga principale. Una curiosità: sempre Shani, pediatra a Tel Aviv, ma che ha studiato Medicina in Italia, ci ha raccontato che il posto le ricorda Bologna visto che si trova sotto l’unico portico della città!

In generale lo stile ricorda un po’ quello dei locali di tapas… ci si siede su tavoli di legno all’aperto, oppure dentro, al banco. Bello in entrambi i casi: fuori sei nel cuore della movida e stare anche a fine ottobre in vestito senza maniche è impagabile. Dentro, gli stilosi camerieri, fra un vinile e l’altro (sì, il Port Sa’id è un po’ hipster e sugli scaffali ci sono centinaia di dischi) vi allungheranno un cicchetto a scelta. Veniamo al menù, che, per altro qui è scritto solo in ebraico (niente paura, i ragazzi dello staff vi aiuteranno). Noi abbiamo provato il carpaccio di manzo, con olio e pepe e yogurt, una melanzana stufata con salsa piccante, oppure in ratatouille servita con uova sode. E poi ancora: pomodorini dalla incredibile dolcezza semplicemente fatti al forno e serviti su un cartoccio, tris di salse con un peperoncino (mooolto piccante) e ottimo hummus. L’avevo detto che i vegetariani in Israele trovano pane per i loro denti. A proposito, il pane qui è portato in appositi sacchetti. Questo posto ci piace proprio tanto.

Port Said

Port Said


Kalboni

Sempre su suggerimento di Shani, ci siamo avventurati nel quartiere yemenita alla ricerca del “miglior hummus della città”. E, aggiungerei, del più conveniente. Nelle stradine che partono dal Souk Hacarmel, infatti, si trovano diversi posticini ottimi per provare lo street food locale. L’hummus qui è uno dei pilastri: questa crema a base di ceci e olio si trova un po’ dappertutto, da sola o in accompagnamento ai mitici falafel (polpette croccanti sempre a base di ceci). Noi abbiamo scelto Kalboni, un chioschetto dall’interessante proprietario: una vera macchina da guerra nella preparazione degli ingredienti, ha decisamente uno spirito imprenditoriale. Ci ha chiesto, infatti, quanto potrebbe costare aprire in Italia un posto simile. Già, chissà. Una cosa è certa, un buon ristorante israeliano a Bologna ci vorrebbe proprio.

Kalboni

Il simpatico proprietario di Kalboni

Falafel e insalata da Kalboni

Falafel e insalata

Per il resto l’hummus, sempre accompagnato da pita era in effetti molto buono e proposto in due versioni: una con i ceci e l’altra con altre verdure. Il menù comprendeva anche un’insalata, tutto ottimo e a sei-sette euro a testa.

Cafè Bialik

La prima sera l’avevamo sotto il naso e non l’abbiamo riconosciuto (ma siamo finiti al Miznon quindi bene così). Ci siamo voluti tornare, visto che il Cafè Bialik, oltre a essere a un passo dal nostro albergo, è davvero un posto versatile, sempre aperto. Si parte da ottime colazioni e si finisce con i concerti e musica dal vivo la sera. E anche in questo caso i prezzi sono accettabili.

La colazione al Cafè Bialik

La colazione al Cafè Bialik

IMG_20131025_075530

Un’altra colazione al Cafè Bialik

Descriverò più nel dettaglio la colazione, visto che capita spesso che negli hotel di Tel Aviv non sia compresa. Io, dopo due giorni di falafel e carne mi sono lanciata sul dolce: mi hanno portato un enorme piatto di muesli, ricoperto da yogurt e pezzi di frutta fresca. A fianco, un bricco pieno di miele: davvero fantastico. In alternativa, la maggior parte delle colazioni sono a base di uova con ricette sia mediorientali (con anche pomodori e cetrioli e formaggio tipo feta) oppure squisitamente anglosassoni, tipo con uova alla Benedict. Tavolini all’aperto e personale cordiale: da provare.

Volete saperne di più su una città dall’atmosfera unica come Tel Aviv? Qui, su Orizzonti, c’è molto da leggere.

Un venerdì pomeriggio a Gerusalemme

Il Western Wall a Gerusalemme

Il Western Wall a Gerusalemme di lunedì mattina

“E fattolsi chiamare, e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere, et appresso gli disse: – Valente uomo, io ho da più persona inteso che tu se’ savissimo, e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te, quale delle tre Leggi tu reputi la verace, o la giudaica, o la saracina, o la cristiana”
Boccaccio, Decameron


Ci sono un ebreo, un cristiano e un musulmano

Arrivano con passo spedito, sagome nere mentre le luci calano sulla città vecchia. Sono piccoli gruppi, qualcuno è solo, e tagliano l’aria non traditi dalla pietra scivolosa. Ci accodiamo, ci porteranno loro al muro occidentale (il western wall), punto di incontro fra il quartiere ebraico e quello arabo. Il minareto ancora canta e da poco abbiamo lasciato il corteo dei francescani che hanno guidato i fedeli lungo la Via Crucis del venerdì. Li abbiamo seguiti fino al Santo Sepolcro, nel suq a tratti sembrava di soffocare da tanti eravamo. Alcuni commercianti arabi ci hanno guardato con irritazione: bloccavamo l’ingresso al loro negozio, lì fermi davanti alle stazioni del calvario. Usciamo dalla chiesa confusi e storditi dalle voci e dalle preghiere, così come dall’incenso, una nube densa sparsa dai guardiani ortodossi.

Fuori dal Santo Sepolcro

Fuori dal Santo Sepolcro

Lungo la via dolorosa

Lungo la via dolorosa

Un momento di calma nella chiesa etiope

Un momento di calma nella chiesa etiope

Ma ora tocca a loro e seguiamo le figure veloci, gli alti cappelli. Visti più da vicino, sono veramente colbacchi di pelo, in pieno Medio oriente. Ogni copricapo ha il suo nome specifico, così come ogni abito: nero, a righe sottilissime, con pantaloni lunghi o corti. Le calze sono sia bianche che nere. Ognuno di loro ha un pezzo di Europa cucito su di sé. Penso, infatti, a questo popolo ricompattato dopo secoli di diaspora, in cui ha assorbito culture che oggi sono tutte sintetizzate qui, come su una carta geografica. Ma non sono gli unici ad accelerare il passo nei vicoli, avanzano anche gruppetti di militari. Proprio davanti a noi scendono tre ragazze in divisa con il loro carico di armi sulla schiena. Le nostre strade si dividono dopo l’ultima curva: loro vanno verso la sinagoga, noi passiamo attraverso un metal detector. Stiamo per entrare nel posto più sacro al mondo per gli ebrei. E siamo in Israele: i controlli, l’abbiamo già visto in aeroporto, sono il pane quotidiano.

Soldatesse dirette al Muro del pianto

Soldatesse dirette al Muro del pianto

Davanti a noi si apre una piazza, enorme. Ed eccolo lì davanti il muro del pianto, visto, stravisto, rivisto. Ma è come tornare nella propria stanza di bambini, un luogo che, da qualche parte di noi, c’era già. Un punto di partenza. La storia è scritta sulle pietre stesse, nel grigiore di alcuni punti, nei ciuffi d’erba che spuntano qua e là. Ma chi osa toccarlo questo muro che, lassù, divide ebrei e musulmani, che in questo momento del venerdì sono radunati sotto l’oro della Cupola della roccia. I protagonisti, però, ora sono loro, i fedeli ebrei, assiepati, accalcati, davanti a 150 metri di pietra. Penso all’imponenza delle nostre chiese, all’opulenza di ori e stucchi, alle storie raccontate dagli affreschi. Qui c’è solo un muro spoglio, ma la fede brucia.

Le loro teste ondeggiano, avanti e di lato, sembrano portati da una corrente, che nella loro mente sicuramente c’è. Continuano a scendere le scalinate lungo la piazza che declina, precipitosamente. Purtroppo non ho scatti che raccontino tutto questo: durante lo shabbat è proibito fare foto e noi le regole le abbiamo volute rispettare. Ma ora devo scrivere, per non dimenticare le sensazioni e le immagini di questo fiume in piena. E le figure che pregano le dovete immaginare voi: gli scatti io non li ho voluti rubare. Gli uomini hanno il capo coperto, così come io sono coperta fino alle braccia. Mi sporgo oltre la grata che divide noi “gentili” che guardiamo strabiliati riccioli, calzature, occhiali dalla montatura spessa. Un mondo che affiora dal passato, dai miei libri universitari, dalle lezioni del mio professore nel dipartimento di Storia. L’immagine successiva è sonora: c’è il vociare di chi si ritrova in un momento di festa, c’è chi ripete preghiere, c’è chi si lancia in balli animati, cantando in coro.

Il canto esplode soprattutto fra le donne, separate dagli uomini e posizionate alla parte destra del muro. Un gruppo è scatenato e intona a gran voce una melodia molto ritmata, che mi ricorda quello delle nostre parrocchie. Poi arrivano le soldatesse; sono giovanissime e bellissime ragazze. Capelli raccolti in trecce e conci, zaini e armi radunati per terra, al centro di un cerchio che hanno formato con le sedie. Io lo facevo in discoteca, borse in mezzo e noi amiche attorno. Qui il servizio militare non è un gioco e non dimenticherò molto facilmente queste giovani donne che con totale disinvoltura, e abitudine, passano dall’addestramento al canto, battendo le mani, con quel sorriso mezzo divertito, imbarazzato e sfrontato al tempo stesso che si ha solo a diciotto anni. Posso scendere fra loro e le guardo, mi chiedo che significato ha questo sabato per loro. Solo vacanza e un ritorno a casa? Non di sicuro per le donne in prima fila, col capo, coperto, appoggiato al muro.

Il quartiere cristiano di notte

Il quartiere cristiano di notte

Iniziamo a risalire verso la città nuova quando ormai il buio è calato, portando con sé un velo di freddo. Lo stacco, quando il sole scende, è repentino. Le strade del quartiere cristiano si stanno spopolando, chiudono gli ultimi negozi, mentre, davanti a noi, alcune famiglie ebree iniziano a camminare verso casa. Procediamo in silenzio, con una sensazione di cupezza, e di sazietà, per tutto quello che abbiamo visto. L’aggrovigliarsi di voci nel santo sepolcro, la quiete della chiesa etiope (grazie guida Routard Israël, Paléstine che l’hai segnalata così bene), il té alla menta mediorentale, i colbacchi degli ebrei ultraortodossi e i riccioli di bambini di pochi anni. Le immagini si fondono, e pesano, mentre torniamo all’albergo in una Gerusalemme a un tratto deserta. Non c’è più il tram a scandire i minuti nel viale, si sono spente le luci dei negozi, gli ascensori nelle case. Scorgo, aperto, un ristorante cinese e penso che, in tutto il mondo, c’è un popolo che non si ferma mai. E non c’è festa che tenga. E intanto lo shabbat è sceso sulla città.

Link: per un’altra versione della storia, c’è un post su Orizzonti

 

 

Mangiare a Venezia: il Paradiso Perduto

L'esterno del Paradiso Perduto

Non tutto è… perduto in Laguna
Un breve post per sfatare un diffusissimo luogo comune: che a Venezia si mangia male. Tornata da poco dalla Mostra internazionale del Cinema voglio segnalare un posto che ha più di un punto a suo favore: il cibo è tradizionale (e buono), si trova in un punto molto pittoresco di Cannaregio, è popolato tanto da turisti che da gente del posto. E non costa un’esagerazione (siamo pure sempre in centro a Venezia, non è comunque regalato, questo sì). La cena al Paradiso Perduto (c’è anche un sito molto curato, qui tutte le informazioni sulla storia del locale con gli appuntamenti musicali) è stato un gradito ritorno. Ce lo consigliò la prima volta il proprietario del suggestivo B&b Campiello Zen (una favola, ma ha il suo costo): cercavamo un bacaro o comunque un posto il più possibile simile a un’osteria. La sfida a Venezia non è così facile: molte zone sono ostaggi dei turisti, le proposte di spaghetti bolognesi non si contano, così come i menù in inglese. Ma qualche isola felice c’è. O qualche angolo di paradiso, appunto.


Dove si trova 

Siamo a Cannaregio, a un passo, anzi a un ponte, dal campo del Ghetto Nuovo (il fatto che dormissimo qui, nell’unico albergo certificato kosher di Venezia merita decisamente un altro post. Soprattutto perché ci siamo finiti durante il capodanno ebraico con un bel po’ di americani ultraortodossi in vena di festeggiamenti). Tutta la Fondamenta della Misericordia è molto animata, soprattutto ora che tutti i locali hanno tavolini (o barche) all’esterno. Vale anche per il Paradiso Perduto che ha qualche coperto fuori, ma anche dentro è ricco d’atmosfera: subito sulla destra sono presentati cicheti e antipasti, poi si susseguono tavoli e tavolate di legno con luci basse e candele. L’ambiente è rumoroso, caldo, frenetico, divertente.

Il menù

L'antipasto Paradiso Perduto

L’antipasto Paradiso Perduto

Per quanto riguarda i piatti, la cucina consiglia frittura di pesce e bigoli, pasta lunga fatta in casa. Concordo pienamente. I bigoli torchiati in casa, una porzione generosa, li ho provati in versione nero di seppia: al dente, saporiti, cremosi. In alternativa erano proposti anche agli scampi o alle vongole (siamo sui 14 euro). Ampiamente promossi. La frittura, il gran fritoìn unisce pesci di stagione ai più classici gamberi e totani, è molto abbondante e, così come gli altri secondi, è accompagnato da polenta bianca.

Il fritto misto

Il fritto misto

Un altro piatto che consiglierei è la saltata mista di cappe, scampi, noci di mare con crostino all’aglio e buono anche l’antipasto misto ‘Paradiso perduto’ per due (28 euro): verdure alla griglia o gratin, fantastiche sardine, capesante, gamberi, insalata di polpo. Non le ho assaggiate, ma, vedendole passare, mi sono sembrate fantastiche le sarde grigliate. Per chi proprio non ama il pesce, in menù l’ultima volta c’era anche una gran bistecca di Angus argentino alla griglia. Per quanto riguarda il vino, mi sono limitata a quello della casa. Lo Chardonnay frizzante è piacevole, fresco, adatto a cibi ben conditi. Caffé offerto e acqua: siamo arrivati a ottanta euro in due, ma francamente direi proprio che ne è valsa la pena.

La Cuba più vera: Viñales

La campagna di Viñales

La campagna di Viñales

“Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherottipi: figure sognanti in perplessita’, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cucu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chermisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!”.

Guido Gozzano, L’amica di Nonna di nonna Speranza

C’è un angolo di Cuba in cui il turismo e l’autenticità delle persone formano (ancora) un’equazione perfetta. Questo posto è Viñales. Ripensando, e mi capita spesso, al mio ultimo viaggio nell’isola caraibica, uno dei ricordi più vivi me lo regala questa piccola e vivace cittadina, annidata in una quieta vallata. Paesaggi da Jurassic Park, ottima Piña Colada, persone ospitali proprio in una delle regioni che, se pur popolata fondamentalmente da agricoltori, in qualche modo traina l’economia nazionale. Qui, infatti, si coltiva il tabacco e nasce una delle eccellenze cubane, il sigaro. Viñales dista circa un paio d’ore dall’Avana: da Miramar si prende l’autopista A4 verso Pinar del Rio, la capitale del tabacco, sede di fabbriche di stato e piantagioni visitabili. A una decina di chilometri a nord, si trova Viñales, nel cuore di una vallata diventata Patrimonio dell’Unesco ormai da qualche anno. Tre strade, non di più, in cui si susseguono casas particulares. I numeri sono impressionanti: sono 500 per una popolazione di circa 30mila abitanti in tutta la regione. Un vero boom in questo paese in cui – ci spiegano- tutti sono proprietari delle loro abitazioni. E tutti quelli che se lo sono potuti permettere hanno aperto le loro porte ai turisti.

Vinales, musica a tutte le ore

Vinales, musica a tutte le ore

Incontri bizzarri per strada

Incontri bizzarri per strada

Una tipica casa di Viñales

Una tipica casa di Viñales

Silvia

La troviamo che ci aspetta già in mezzo alla strada, sbracciandosi. In effetti siamo arrivati un po’ in ritardo, ma sull’autostrada fra l’Havana e Pinar del Rio un acquazzone tropicale ci ha reso la vita davvero impossibile. Per non parlare dei cartelli con le frecce cancellate prima di Viñales, stratagemma locale per costringere i passanti a chiedere informazioni (a pagamento magari, ma Cuba è anche questo). Siamo partiti da Cienfeguos, quindi, dopo quasi 400 chilometri di auto, siamo stremati.

La casa di Silvia si chiama La Campestre, da Marguerita y Berito. E’ la classica casa del posto, anche se non è colorata: un unico piano e una veranda sul davanti con due comode sedie a dondolo a far da guardia alla porta. Bastano pochi minuti per capire come mai la guida la caldeggi vivamente per l’ospitalità delle padrone di casa, madre e figlia. In realtà la figlia Marguerita da un paio d’anni vive in Spagna, col marito che l’ha portata con sé. Là non ha più una casa particular, ma un agriturismo in pietra grigia: Silvia ce lo mostra orgogliosamente sfogliando una Smart box. La loro è una delle tante storie di separazione nelle famiglie dell’isola, di chi è partito per trovare qualcosa di più. E, anche se oggi è possibile viaggiare, ancora genitori e figli non si vedono per parecchi mesi. A volte anni. L’interno della casa è semplice, ma spicca per la pulizia: come sempre non mancano quei piccoli oggetti che vedevamo negli appartamenti dei nonni. Cose, spesso di poco valore, ma tenute con grande cura. Centrini, soprammobili di ceramica, copriletto di raso dai colori accesi. Fotografie. La parte più bella, quella sul davanti, è a disposizione degli ospiti, mentre i proprietari si ritirano sul retro.

In cucina Silvia si scatena: il suo asso nella manica è il pollo alla birra, accompagnato, come anche nei paladar, da riso e fagioli neri (arroz e frijoles), piatto di verdure e avocado. Terminare la cena in una casa è quasi impossibile, le dimensioni delle porzioni mettono a dura prova anche le buone forchette.

La tavola imbandita da Silvia

La tavola imbandita da Silvia

Non resta che riprendere i sensi sulle sedie a dondolo, dove Silvia ci raggiunge per due chiacchiere. Il nostro spagnolo è stentato, ma dal fiume di parole emergono l’orgoglio per una sanità di livello e per un’istruzione gratuita fino all’università. Traspare una generazione che la Rivoluzione non l’ha forse vista, ma interiorizzata (“è stata cruenta, sì, ma prima era peggio”). Silvia sul bloqueo non si sbilancia, ma se le chiedo cosa succederà dopo l’era Castro, mi risponde che “ci sono giovani preparati”. Intanto non ci lascia a mani vuote, lei che ci ospita a 12 euro a notte: ci regala una vissuta biografia di Fidel, di quelle che distribuiscono le scuole. “L’ho già letta. Ve la regalo, anche perché i soldi non sono tutto nella vita”.


Juan

Ci aspetta davanti al museo di storia locale, poco più di una stanza nel cuore di Viñales. Ha l’aspetto tipico della gente del posto: sembrano dei cow boy finiti ai Caraibi. Canotta e cappello di paglia. Ci chiede se abbiamo dell’acqua: la camminata fino ai mogotes, con questa giornata serena di sole, può essere estenuante. Juan (Juanito per la gente del posto) è la nostra guida che ci porterà a piedi nella vallata, dove faremo visita a un campesino. Ci inoltriamo nel sentiero di terra rossa, ci spiega che è piena di ferro. Contrasta con il verde delle piante di caffé, del platano, del granoturco. Durante l’estate, infatti, i contadini alternano la coltivazione del tabacco a quella del mais. In realtà il tabacco c’é: in un secador, una capanna di paglia, due donne stanno ripulendo le foglie, facendone dei mazzi. Questi saranno seccati e poi messi a fermentare, solo dopo il 90 per cento di questa foglie sarà fornito allo Stato per la produzione dei sigari. “Ma- ci spiega Juan- il campesino con il restante può produrre i suoi sigari artigianali e venderli”.

La lavorazione delle foglie di tabacco

La lavorazione delle foglie di tabacco

La preparazione del sigaro

La preparazione del sigaro

La tappa successiva è, per l’appunto, a casa di Eraldo, che ci aspetta con il caffé sul fuoco. Lo vende anche in grani, ma la sua principale attività è fabbricare sigari, cosa che fa sotto il nostro naso con grande maestria. Assembla le foglie, le racchiude nella capa e poi le arrotola, ed ecco che il sigaro è pronto. Partiamo con il nostro carico di sigari (se ne possono portare all’estero senza ricevuta fino a cinquanta a persona) e di caffé in grani e ripartiamo con Juan verso i mogotes. Ci spiega che l’erosione di vento e pioggia sta facendo cadere pezzi  di roccia di queste strane e antichissime formazioni rocciose che affiorano dal nulla. Il sole comincia a farsi sentire lungo il sentiero. Juan ci racconta di come Cuba sia uno dei paesi con più regole al mondo, e allo stesso tempo quello in cui ci sono più modi per eluderle. E’ vero che non c’è libertà di fare tutto, ma molti problemi non ci sono. “Forse, a Santiago.. lì è più pericoloso”. Attraversiamo prati, dove zebù sonnecchiano placidamente e i cavalli brucano tranquilli. L’unica presenza inquietante sono gli avvoltoi i caroñeros li chiama Juan, “con la cabeza pelata”. Andiamo oltre, fino alla tappa di rito: la capanna dell’uomo che fa “la migliore Piña colada di Cuba”. Ovviamente è un amico di Juan, manco a dirlo, ma di fatto ha ragione. Il segreto? Ananas ghiacciato, latte di cocco fresco, cannella e il liquore tipico di Pinar del Rio. Un momento di estasi mentre un gruppo di francesi- sono un’invasione a Viñales-, fuma rumorosamente i sigari.

"La Piña colada più buona di Cuba"

“La Piña colada più buona di Cuba”

Judi e Emilio

Ci aspetta sulla veranda, dove ci fa sedere in attesa di prepararci la stanza. Abbiamo lasciato Silvia a malincuore, ma avevamo già una precedente prenotazione in un’altra casa, una vera e propria fattoria con vista sui mogotes. La casa è come sempre semplice, ma ci piace la stanza tutta di legno con le coperte gialle e le tendine rosa. Judi è un’altra faccia ancora di Cuba: sorride, ma non fa nulla di più per ingraziarsi i visitatori a tutti i costi. Si illumina di un sorriso sincero, però, snocciolandoci le opzioni per il menu: quando scegliamo il cerdo (maiale), sembra oggettivamente soddisfatta. Forse sa che i turisti qui non mancano mai, visto che sono il primo indirizzo consigliato dalla Routard. Ne è consapevole il marito, che sfoglia la guida sapendo benissimo dov’è la sezione di Viñales e ci dà precise indicazioni su come raggiungere la Cueva de Santo Tomas. Da qui si raggiungono nell’arco di due ore sia Cayo Jutias che Cayo Levisa, con belle spiagge in cui si possono fare anche diving e snorkeling, ma ormai non abbiamo tempo e decidiamo di correre alla grotta prima della chiusura. Arriviamo al pelo per l’ultimo ingresso e ci avventuriamo con uno speleologo praticamente dentro a un mogote dopo un’arrampicata nella foresta breve, ma stile Indiana Jones.

L'uscita non proprio agile dalla Cueva

L’uscita non proprio agile dalla Cueva

Caschetto con torcia all’interno sono inevitabili visto il buio: la grotta è un’enorme pancia nella montagna, in cui si incontrano solo qualche pipistrello e gamberi. Esploriamo due livelli salendo una ripida scala, prima di uscire nell’aria carica di acqua. Non torniamo soli: sul sedile posteriore ora siedono tre speleologi. “Chiediamo sempre un passaggio agli ultimi visitatori. Alcuni di noi devono rientrare fino a Pinar del Rio”. E così facciamo la strada di casa con il rumoroso gruppo, che parla questo spagnolo così difficile da seguire.

Rientriamo a casa, dove ci aspetta una tavola apparecchiata sul retro, proprio con la vista sui campi e queste curiose alture. Condividiamo il pasto con una coppia svizzera appena arrivata dall’Avana. Il cerdo è effettivamente buonissimo, accompagnato da platano fritto, tipo patatine croccanti, riso e fagioli, un dolce di cocco e il solito abbondante piatto di frutta. Finisce con un tramonto rosato questa giornata, poi un domino e un sigaro sulla veranda, mentre il cielo si riempe di stelle. E’ così bello che ci convince a restare a cambiare programma: invece che andare a sentire musica dal vivo nel locale al centro del paese, ci fermiamo in questa oasi di pace.

La vista sui Mogotes

La vista sui Mogotes

La cena con vista

La cena con vista

Altri post su Cuba

  1. Itinerario per un viaggio a Cuba di due settimane
  2. Mangiare a Cuba
  3. La cuba più vera: Vinales

Se lo spumante è Famoso

Torre di Oriolo (Foto dal sito della Pro loco di Faenza)

Torre di Oriolo (Foto dal sito della Pro loco di Faenza)

Lo ho eletto a vino dell’estate. A discapito del nome, non è molto noto, ma lo spumante da uve Famoso ‘Divo’ della ‘Cantina La Sabbiona’ con queste temperature è una vera goduria. Ci troviamo sulle colline di Faenza, a Oriolo. Ne approfitto per ricordare ancora una volta che anche la Romagna può regalare dei bianchi freschi e raffinati. Vini di qualità, ricavati da vitigni autoctoni come questo, riscoperto dai produttori solo da pochi anni. Da quanto ho potuto trovare in rete (e non molto devo dire), infatti, l’uva Famoso era fra le tante utilizzate per fare vini da tavola e poi finite nel dimenticatoio perché eccessivamente aromatiche. Questo fino a pochissimi anni fa.

Divo, foto tratta da www.lasabbiona.it

Divo, foto tratta da www.lasabbiona.it

La bottiglia. Il nome forse è un po’ impegnativo, ‘Divo’, ma se non altro, resta in mente. Si tratta di uno spumante extra dry metodo charmat. All’occhio il colore è brillante, tra il paglierino il verdolino, e il perlage è fine. Al naso regala profumi fruttati e floreali: io ho riconosciuto mela e frutti tropicali. In bocca è fresco, ma anche piacevolmente morbido. Con i suoi 12 gradi di titolo alcolometrico, è proprio una bella bevuta di mezza estate. Lo trovo perfetto per un aperitivo, ma già in due occasioni l’ho ‘testato’ a tutto pasto e se la cavava benissimo con antipasti di pesci, carni bianche e anche salumi stagionati.

Anche il prezzo mi sembra assolutamente abbordabile: nell’agriturismo di via di Oriolo, la bottiglia costa sette euro. Leggero e fresco, per quanto mi riguarda ha superato il test del battesimo di fine luglio in compagnia di Caronte: gli invitati erano felici e contenti e se ne sono andati belli dritti sulle loro gambe.

Perché andare ad Atene

Athens - Acropolis: View of Lykavittos Hill

Il Licabetto domina Atene (di Wally Gobetz, da Flickr)
condiviso con creative commons

E’ un po’ la Cenerentola delle capitali europee e, devo dire, ingiustamente. Per me Atene è stata davvero una sorpresa dopo che tanti me l’avevano descritta come una città deludente: inquinata, caotica e con poco fascino. L’anno scorso, poi, le immagini degli scontri e l’ombra nera della crisi economica avevano contribuito a rendere un po’ cupo questo luogo così evocativo della nostra vecchia Europa. E per fortuna, avevano torto. Certo, non si può partire per la Grecia senza una buona dose di immaginazione, altrimenti la sensazione netta è che i siti archeologici raccontino ben poco delle grandezze di un tempo. Io ci sono arrivata col mio carico di autori e versioni sudate in anni di liceo classico e tanta arte antica nella mente. Tanta storia che sono riuscita comunque a ritrovare sull’Acropoli, nell’emozionante Museo archeologico e nel possente Tempio di Poseidone. Là quei miti che sono il dna della nostra cultura occidentale c’erano ancora. Io li ho trovati. Certo, c’erano anche i segni del disagio sociale, dalle scritte sui muri alle decine di negozi abbandonati e saracinesche abbassate. Ma, sotto il caldo soffocante di luglio e dietro ai negozietti turistici, ho trovato una vivacità culturale che conquista.


Quando si arriva

Il colpo d’occhio arrivando in aereo è sconcertante. Ammetto, ho paura di volare e non sempre guardo fuori dal finestrino in fase di atterraggio, ma Atene dall’alto è un’enorme macchia bianca: una distesa incredibilmente vasta di case. In mezzo, e lo si vede da ogni punto, spicca il simbolo della città, un punto di riferimento: la collina dell’Acropoli, che trasmette ancora tutta la sua sacralità. Il percorso dall’aeroporto è piuttosto lungo: un taxi per due costa circa 50 euro, meglio informarsi per il pullman (autobus X95) e, volendo, c’è anche la metro, (linea 3). Lungo il tragitto i palazzoni anonimi sono un primo biglietto da visita poco attraente, ma il cuore della città, in particolare la Plaka, offre stradine e piazzette pronte a essere scoperte. Un indirizzo che mi ha molto divertita, tanto che ci sono poi tornata l’ultima sera (di ritorno dall’isola di Naxos, nelle Cicladi, ne ho scritto qui) è l’Acropolis Hotel. In posizione eccezionale, è un po’ datato come molti alberghi che lo circondano, ma all’interno c’è un guazzabuglio piacevole di oggetti più o meno vintage e da alcune stanze la vista sull’Acropoli (appunto) è magica. In più il personale è davvero simpatico, anche se, devo avvisare, alcuni miei amici si sono trovati in una stanza senza la porta del bagno. Ma ci ridono ancora su.

Una camera da letto tipo dell'Acropolis Hotel (foto tratta dal sito dell'albergo)

Una camera da letto tipo dell’Acropolis Hotel (foto tratta dal sito dell’albergo)


Itinerari. Dal classico al pallone

Per farsi già una buona idea della città bastano anche due giorni. Da ripetere fino allo sfinimento: se partite dall’Acropoli (e io lo consiglio), andateci molto presto, appena apre (alle 8 in alta stagione, gli ingressi sono due). Intanto per il caldo che in estate può giocare brutti scherzi (si trovano anche distributori d’acqua all’interno del parco alle pendici della collina). Ma soprattutto perché potreste avere la sorpresa, specialmente se entrate da dietro, di girare l’angolo verso i Propilei e trovarli letteralmente invasi di gente. Fiumi di gente, non scherzo. Per fortuna lo spazio nell’area sacra è vasto e anche lo spettacolare Partenone lascia senza fiato, nonostante ci siano più o meno sempre lavori di restauro in corso. Premettendo che buona parte del fregio si vede bene… al British Museum di Londra, l’enorme tempio di Fidia, diventato persino una polveriera durante la dominazione turca, sembra avere lottato in tutti i modi per restare più o meno integro e mostrarsi fino a noi. E davvero non è cosa da poco visto che il tempietto di Athena Nike, poco prima, è stato smontato e ricostruito come un Lego. Per restare nell’archeologico, merita anche l’Agorà, subito sotto la collina, soprattutto per il tempio di Efesto, meravigliosamente conservato, e il museo sotto il portico di Attalo che, oltre un momento di frescura, offre anche una bella esposizione di oggetti che raccontano della democrazia ateniese.

Un angolo di Partenone

Un angolo di Partenone

Con lo stesso biglietto di quanto raccontato finora, non si può perdere la visita al Museo archeologico nazionale, nel quartiere di Omònia, che ospita anche l’università. Ci si può arrivare in autobus da piazza Sindagma (il centro politico della capitale). Da fuori i colori accesi sono un trionfo del kitsch, ma all’interno c’è un paradiso di reperti. Mi sono trovata più volte con le lacrime agli occhi davanti a questi tesori che ci parlano da tempi così remoti. Meravigliosa la prima sezione sulla civiltà micenea (c’è anche la famosa Maschera d’oro che potrebbe riprodurre il viso del guerriero Agamennone); la sala 15, dedicata al periodo classico e le 16 e 18, dedicate ai monumenti funerari. Commovente il vaso 4.485, del periodo successivo alla guerra del Peloponneso: raffigura Hermes che accompagna, per mano, una giovane dell’Ade. Un’immagine che regala serenità, scaturita dalla sensibilità dell’uomo di allora, per raccontare il dolore più profondo. Atmosfera onirica che ha contrastato in modo molto divertente che con la scena che ho trovato subito fuori dal museo: sulla piazza era in corso un’agguerrita partita di calcio fra ragazzini, a pochi metri da dove dormono questi reperti. E’ qui che ho avuto la conferma del fatto che in Grecia vanno matti per il calcio. Di queste partite, nel primo spiazzo aperto sulla strada, ne ho trovate molte altre, anche sulle isole.

Un vaso del museo archeologico nazionale

Un vaso del museo archeologico nazionale

Ma questo non è l’unico museo incredibile: lo è anche quello, aperto nel 2009, dell’Acropoli. All’ultimo piano la vista sul Partenone, proprio mentre dall’interno se ne ripercorre il perimetro attraverso i reperti, è un altro momento ineffabile. Se non ne aveste ancora avuto abbastanza, per completare il bagno di archeologia sono tanti i siti in città, fra cui il mitico stadio delle Olimpiadi. Ma tocca il cuore anche la bellezza del Tempio di Poseidone, a Capo Sounio, a circa un’ora e mezza di auto da Atene. Le stupende colonne candide si stagliano contro l’azzurro del mare e del cielo, che si perdono l’uno nell’altro. Mi sembra un posto molto meno invaso dai turisti che può davvero rivelarsi una tappa ideale, soprattutto se decidete di pranzare qui. Poco più sotto, un paio di ristorantini si affacciano direttamente sulla spiaggia e la vista sul promontorio invita al silenzio e alla contemplazione. Quanto all’appetito, è ampiamente soddisfatto dalla cucina, sempre gustosa e abbondante. Da O Elias sono buonissimi sia il polipo grigliato che le cozze, il tutto accompagnato da insalata greca e fresco retsina. Il dolcetto è offerto dal cordiale cameriere che si diverte a cimentarsi con l’italiano. Del resto, Italia Grecia, una faccia una razza.

La stupenda vista dai ristoranti sotto Capio Sounion

La stupenda vista dai ristoranti sotto Capio Sounion


Non solo archeologia

E a proposito di piaceri della tavola, un altro aspetto bello della città è il perdersi fra le viuzze che salgono alla collina dell’Acropoli e fare soste nei bar o nelle taberne, che spesso hanno tavolini adagiati su scalinate ombreggiate (e qui l’ombra è un valore aggiunto). Nella Plaka si può bighellonare sulle strade lastricate. Non mancano negozietti, a volte di paccottiglia ahimé: per chi vuole comprare un peplo, ad esempio, ce n’è per tutti i gusti. Ho particolarmente apprezzato, invece, i venditori di cappelli di paglia: se si viaggia d’estate è un oggetto fondamentale per non stramazzare sulle rovine. Per me è stato così, quando il primo giorno ho ben pensato di arrampicarmi subito sul Monte Licabetto. Si sale anche con la funicolare (andata e ritorno, 7.50 euro): la cima, su cui si trovano una romantica chiesetta ortodossa e un ristorante, sembra dialogare a distanza con l’Acropoli. Scendendo a piedi, la bella vista sulla città purtroppo è funestata dallo spettacolo di agave, fichi d’india e piante grasse lasciate al loro destino, senza alcuna cura del paesaggio. Peccato, ma Atene è anche questo.

Passando a un po’ di vita serale, nel mio viaggio del 2012 ho avuto la fortuna di assistere a uno spettacolo davvero interessante, Socrates Now. Oltre alla location -un giardino dell’università ai piedi dell’Acropoli-, la suggestiva ‘Apologia di Socrate’ portata in scena da Yannis Simonides è in inglese e dimostra ancora tutta la sua attualità. Non a caso, alla fine segue un dibattito per chi vuole fermarsi con l’attore: l’anno scorso il sottile legame con la crisi era evidente. Guardando un po’ in rete, ho visto che è in corso ad Atene proprio in questi giorni, con date fino a settembre. Una curiosità, l’accoglienza con una birretta fresca sarebbe da esportare anche da queste parti.

Un momento dello spettacolo Socrates Now

Un momento dello spettacolo Socrates Now

Poco lontano, ci sono ristorantini deliziosi, all’aperto, illuminati da candele: si può scegliere a sentimento, mi sembra che il menù fosse più o meno quello tradizionale. Un accenno, però, lo merita un altro posto che unisce cucina tradizionale e atmosfera simpatica, sempre nella Plaka. Si chiama Paradosiako Oinomageirio, in un bell’angolino. Alcuni tavolini sono all’aperto, sul marciapiede. Un posto semplice ed economico, dove gustare ottime sardine fritte, ma anche fresche insalate. Un’ultima nota sulla retsina: non convince tutti, ma per me è un must della Grecia. Non per fare i beoni, ma col caldo che fa sempre, una pausa con questo vino bianco freschissimo dal gusto balsamico (sa un po’ di corteccia in effetti), servito nelle brocche di rame, è davvero un momento di pure piacere.

Cosa mangiare nei Balcani

La salsiccia di tonno con vista sulla cattedrale di Sibenik

La salsiccia di tonno con vista sulla cattedrale di Sibenik

A chi è mai capitato di fare colazione con una pasta sfoglia piena di carne macinata alzi la mano. E faccia un passo avanti chi mangia abitualmente salsicce di tonno. O chi, se gli parli di prugne, pensa subito alla grappa. Potrebbe capitare, nei Balcani Occidentali. Questo secondo post, che segue quello sul mio viaggio da Trieste al Montenegro ‘passando’ per Sarajevo, parlerà, appunto, di piatti. Inutile anticipare che in tre paesi così diversi come la Croazia, il Montenegro e la Bosnia, anche la cucina la dice lunga su quanto influenze, religione e dominazioni abbiano lasciato tracce in questa terra incastonata fra Europa e Asia. Partiamo dalla costa.


Dalmazia.
La storia è nel piatto. Che gran parte dell’attuale Croazia sia stata italiana fino a tempi recenti lo si capisce già dal menù. Una delle specialità di tante località costiere è il risotto, in particolare al nero di seppia o con i gamberetti. Tante le variazioni del pesce, cucinato sia grigliato che fritto. A Dubrovnik ho anche provato delle ottime ostriche (io le ho mangiate al Kamenice in una piazzetta molto scenografica, ottimo il rapporto qualità prezzo in una città piuttosto cara), anche se un indirizzo davvero speciale è di sicuro il Pelegrini di Sibenik.

I formaggi del Pelegrini

I formaggi del Pelegrini

Adagiato sulla scalinata di un palazzo storico, davanti a voi si aprono la stupenda cattedrale e un lembo di mare. Inutile dire che non è l’indirizzo più economico da queste parti (anche se non si superano i 35 euro a testa), ma il servizio è impeccabile e anche il menù è davvero invitante. Per avere un assaggio dei formaggi locali, ottima la selezione fra gli antipasti: da uno bianco, leggerissimo, tipo caglio, a quello misto dell’isola di Pag. All’altezza delle aspettative anche il prosciutto affumicato, prima del piatto forte: la salsiccia di tonno servita su un letto di lenticchie. Stranissima la sensazione in bocca: in tutto e per tutto ci si aspetterebbe suino e invece arriva la magrissima carne di tonno. A Spalato, invece, su tutte le guide si trova il Buffet Fife, indicato come uno dei veraci ristoranti del porto. Sullo stile del locale, nulla da dire: simpatici i tavoli di legno, anche da condividere con altri ospiti, e ottimi i prezzi. Il servizio, come spesso in questi paesi, è un po’ lento, ma a me hanno sbagliato proprio l’ordinazione e il pesce fritto era davvero un po’ troppo unto. Niente male il risotto al nero di seppia.

Pranzo con vista... a Perast

Pranzo con vista… a Perast

Montenegro. Tutt’altra musica nelle cucine montenegrine. In realtà nelle località che si affacciano sulle Bocche di Cattaro, come ovviamente su tutta la costa, il pesce si trova eccome, ma in generale direi che la carne la faccia da padrona.

Segnalo giusto il ristorante dell’Hotel Admiral a Perast, in cui ho assaggiato un polipo grigliato saporito e morbido: si mangia su una terrazza proprio sull’acqua, con la vista sulle belle isolette di San Giorgio e Scalpello. Il servizio è come sempre very slow e non tutto quello segnato in menù difatti è disponibile, ma nel complesso è stata davvero una bella sosta.

Tornando ai piatti nazionali, direi che il ricordo più vivo del paese sia il burek (Börek).

Una sostanziosa specialità di Montenegro e Bosnia

Una sostanziosa specialità di Montenegro e Bosnia

Molti qui lo mangiano a colazione, magari accompagnato da una bevanda a base di una specie di yogurt. Non è per stomaci deboli visto che sto parlando di una specie di pasta sfoglia ripiena di carne (meso) macinata (c’è anche l’alternativa con il formaggio, sir). Tanto gustoso quanto unto. Sicuramente economico, visto che un bel quarto di teglia non costa neanche un euro. In più lo si trova molto facilmente, nei fornai e nelle apposite byrektorë. Nelle trattorie locali sono proposti poi molti piatti di carne, soprattutto la grigliata mista. Io ho provato una sorta di bistecca di suino, farcita di prosciutto (prsut) e formaggio: davvero saporita e consigliata dagli amici locali. Generalmente tutti i tipi di carne che contengono la parola Njeguški hanno questo tipo di ripieno. Finisco con un aneddoto alcolico. Per digerire tutto ciò a Tivat abbiamo chiesto in un locale un ‘liquore tipico’. Immaginate la nostra faccia quando ci hanno portato un (italianissimo) Amaro Montenegro con ghiaccio e limone. Ma, va detto, bevuto qui è un’altra cosa.


Bosnia.
Anche a Sarajevo il cibo non è per inappetenti. Dai piatti di carne, agli stufati, ai dolci davvero squisiti. Anche perché le influenze qui nel piatto sono davvero tante, in particolare dalla Turchia.

Un piatto di Cevapi

Un piatto di Cevapi

Nel cuore della Bašcaršija, a Sarajevo, non c’è che l’imbarazzo della scelta in quanto a negozi che propongono, a tutte le ore del giorno, i cevapi (qui li chiamano così). Se il tempo lo permette, la cosa migliore è sedersi e provare questi cilindretti di carne serviti dentro a pane turco e cipolla bianca all’aperto. Molto buoni quelli di Zeljo (i locali sono due, vicini uno all’altro): il servizio è rapido e il posto è frequentato tanto dalla gente del posto, che da famiglie straniere. Per chi ha tempo di sedersi a tavola, un paio di indirizzi vi daranno grande soddisfazione a meno di 15 euro a testa, vino compreso.

Pane artigianale morbidissimo

Pane artigianale morbidissimo

Il mio preferito (in cui conviene prenotare, anche perché è piccolo) è il Dveri, molto intimo. Il pane è strepitoso: caldo, bellissimo e morbido, ma  che costa da solo 5 marchi. Ho provato il Dveri Stek, una carne ripiena di prosciutto e formaggio impanata, una sorta di karađorđeva (che però è una ricetta serba): una bomba, servita con verdure al forno. Ottimo anche il vino rosso, al calice e non smetterò mai di sottolineare la convenienza: una buona cena locale di questo tipo costa circa 12 euro a persona. Se siete a zonzo per il centro di Sarajevo, poi, consiglierei una sosta in una pasticceria. Se ne trovano molte e spesso raccontano al meglio degli intrecci culturali fra Europa Austroungarica e Asia. Vengono proposti, quindi, o enormi fette di torta o i classici dolcetti che si trovano anche in Grecia, come la baklava. Sul posto si mangiano gli Hurmastica, intrisi di sciroppo, ma per i miei gusti sono davvero dolcissimi.

Un’altra specialità locale è la trota, che qui si chiama pastrmka: lungo la bella e verdissima strada che collega Sarajevo a Mostar si vedono molti allevamenti. Ottima la ‘variazione di trote’, fra cui la versione kebab, proposta dal ristorante Sadrvan, proprio a Mostar, a pochi metri dal famoso ponte.Trota

Vediamo i vini. Soprattutto l’Erzegovina è famosa per i vini e anche sulla costa dalmata ho sentito dei bianchi interessanti. In generale direi che siano freschi, sapidi e con una buona gradazione alcolica. Quello più interessante l’ho bevuto a Sibenik, sempre dal nostro Pelegrini: è una variante del Marastina, vitigno autoctono, che in questo caso ha riposato sui lieviti. Giallo carico, sentori di lieviti. Davvero interessante e adatto sia ai formaggi che alla salsiccia di tonno. Un buon bianco, anche se dall’alcolicità piuttosto traditrice, l’ho trovato sulle Bocche di Cattaro. Era uno Chardonnay, Plantaze, 2011. Al posto del calice mi hanno servito direttamente la bottiglia da 0,25. Un ultimo accenno ai liquori: quello che va per la maggiore è lo slilovitz, una grappa alle prugne che si fa ricordare. E soprattutto, vi farà digerire qualsiasi cosa.

Sette posti del cuore

Landmannalaugar, Islanda

Landmannalaugar, Islanda

Si avvicinano le vacanze estive e, mentre sto organizzando il mio prossimo viaggio, mi corre il pensiero ai posti già visti negli ultimi anni. La domanda è: qual è quello veramente speciale di questi? Mi viene in mente ‘Alta fedeltà’, il romanzo di Nick Hornby in cui il protagonista continuamente propone al lettore una sua top five, su vari temi. Per quanto riguarda i viaggi, è difficile fermarsi a cinque, per cui, dopo averci pensato un po’ (ma non troppo in realtà), ne elencherò almeno sette. Saranno delle pennellate, alcune tracce di questi posti speciali. Sono i miei luoghi del cuore, in cui la natura mi ha sopreso e tolto il respiro. Oppure città così incredibili da farti sentire come appena scappato di galera. Luoghi in cui ho scoperto mondi diversi, soprattutto dentro di me. Dove mi sono messa alla prova, o semplicemente in cui mi sono divertita. Angoli di mondo speciali in cui non vedo l’ora di tornare e, allo stesso tempo, ho paura di tornare. Perché potrei trovarli diversi dal ricordo che ho.

1) Rifugio di Hrafntinnusker, Islanda.

Landmannalaugar, prima tappa

Landmannalaugar, prima tappa

L’Islanda è il paese dei sogni. Nel senso che potrebbero essere ambientate qui le favole che avete letto da piccoli. La prima sensazione che ho avuto è stata olfattiva: sono atterrata di notte, col buio: dall’aria frizzante sembrava di essere arrivati in montagna, ma l’odore, no. L’odore era quello del mare. Ho scelto questo rifugio, il primo lungo il percorso del Landmannalaugar (per l’itinerario completo rimando a questo post, che rende perfettamente l’idea), perché ha un significato speciale. Per me è stato una piccola conquista: non avevo mai fatto un trekking di quattro giorni, tanto meno in un paese così a nord. I primi 12 chilometri di questo percorso sono meravigliosi: si sfiorano gayser, si cammina in strette strade lambite dal ghiaccio. Sullo sfondo, montagne smussate coloratissime, dal rosa al verde chiaro. Arrivata al rifugio mi sono sentita molto fiera di me, di avere superato un prova. E poi è stato stupendo bersi un the davanti alla terra fumante: guardando la vallata davanti a me sembrava di essere arrivati in un mondo primordiale, in un’epoca remota e leggendaria. Questa è l’immagine che ho più stampata nella testa quando penso all’Islanda: la terra che ribolle e il fumo sull’acqua.

2) Skoura, Marocco

Les jardins de Skoura (Foto dal sito)

Les jardins de Skoura (Foto dal sito)

Il mio primo impatto con il Marocco non è stato felicissimo. Per me era il primo vero viaggio, quello in un altro continente, in un posto che fosse almeno a più di un’ora di volo. Era agosto e abituarmi al caldo, agli odori del suk, alla gente sul mulo in mezzo alla tangenziale, ai venditori di tappeti non è stato immediato. Poi, a Fes, ho capito che stavo sprecando una grande opportunità e che dovevo prendere il ritmo locale, senza paura. E così è stato, ma solo qualche giorno dopo, in quell’angolo di paradiso che è Les jardins de Skoura, mi sono sintonizzata con il Marocco e l’ho amato infinitamente. Skoura è un insieme di casbah in mezzo a un fiume (secco ad agosto) e palmizi. E’ vicino a Ouarzazate, una specie di Hollywood nordafricana, e ci sono passata prima di scendere lungo la valle dello Ziz, per raggiungere il deserto a Zagora. Ci si arriva guidando in territori lunari, dove la natura è assetata: solo vicino ai corsi d’acqua esplode di un verde brillante. Proprio come nel rigoglioso riad, gestito da una signora belga: un posto incantevole, al riparo dal caldo, dove recuperare energie. Ricordo bene, al tramonto, le montagne dell’Atlante tingersi d’azzurro, nel silenzio. Ricordo bene il cielo così pieno di stelle che sembravano cadermi addosso. Per me è un luogo che coincide con la pace.

3) Shirakawa Go, Giappone

Le case tradizionali di Shirakawa Go

Le case tradizionali di Shirakawa Go

Non tutti i posti ‘turistici’ vanno evitati. A volte c’è un motivo se attirano così tante persone e Shirakawa Go ne è una prova. E poi questa minuscola località di montagna, a circa tre ore da Kyoto, ha un posto speciale soprattutto nel cuore dei giapponesi: me l’ha confidato una signora conosciuta nell’onsen del paese. All’arrivo, in autobus, sembra di trovarsi in un villaggio da fiaba: la zona è famosa per le case di legno gassho zukuri (cioè a mani giunte), visitabili come piccoli musei, che in gennaio sono magicamente ricoperte di neve. Se si vuole pernottare, si deve dormire in queste case tradizionali, che spesso sono gestite dagli stessi proprietari da generazioni. Le stanze si aprono sulla sala centrale del focolare (irori): si dorme sul tatami, avvolti in enormi coperte. Ma la cosa più bella è la cena con gli altri ospiti della casa. Mentre gusterete il cibo squisito della casa (carne di Hida, pesce arrostito e verdure di montagna), il proprietario forse vi racconterà della storia del villaggio, minacciato dagli incendi e dall’abbandono. Il sakè non filtrato bevuto attorno al focolare chiacchierando con una famiglia giapponese dell’Hokkaido è forse la più bella immagine di questo viaggio.

4) Parco Kruger, Sud Africa

Kruger National Park

Kruger National Park

E’ stato il coronamento del mio viaggio in Sud Africa, dopo i chilometri sulla Garden Route, parchi, villaggi Zulu e il poverissimo stato dello Swaziland: ma niente di quanto visto prima poteva toccare tanta meraviglia. La cosa più incredibile è sentirsi gli intrusi: sono gli animali, di una potenza primordiale, i protagonisti, non l’uomo. Nella riserva privata (consiglio questa) la giornata tipo ti fa riequilibrare con i ritmi della natura: si parte per il safari alle cinque e si torna in tarda mattinata. Segue un brunch, una sosta in tenda o nella hall del campo e poi si riaparte sulla jeep in cerca di altri animali. Essendo andata ad agosto, quando là è inverno, la natura era spoglia ed era difficile scorgere soprattutto i felini: il ricordo più vivo è quello degli elefanti, animali enormi che si spostano senza fare alcun rumore. E poi le notti: la cena attorno al fuoco nel bush, sotto la luce di altre stelle e sorseggiando l’ottimo vino sudafricano. Una sera i ranger si sono alzati in piedi e, con le loro voci profonde, hanno intonato l’inno di questo paese lacerato così a lungo. Quelle voci, che cantano nelle diverse lingue nazionali della terra di Mandela, risuonano ancora come fosse ieri.

5) Göreme, Turchia

I Camini delle fate

I Camini delle fate

Mongolfiere contro il sole fluttuano silenziose nell’aria. Il tufo ha disegnato torri di roccia e gole, castelli fantastici, che qui chiamano camini delle fate. Le grotte custodiscono segreti: pitture rupestri dai colori brillanti in antri scavati per sfuggire alle persecuzioni. A volte nascondono vere e proprie città sotterranee, in cui si scende, strisciando in labirintici cunicoli. Arrivare in Cappadocia sembra di approdare sulla luna o in uno di quei pianeti immaginati da Saint-Exupéry. La regione è composta da alcuni villaggi e si può visitare in un paio di giorni: il modo migliore, se non si è soli, è nolleggiare una jeep, possibilmente con la guida locale che vi porterà nelle gole più ardite. Io ho fatto base a Göreme, dove sono arrivata in aereo da Istanbul: forse si è già venduta un po’ troppo al turismo, ma mantiene ancora il suo fascino per il Museo all’aperto fatto di tante piccole chiese scavate nella roccia. Basta scegliere uno degli alberghi scavati nel tufo e da qui ci si può poi spostare. Ancora una volta un’immagine però mi sintetizza questi luoghi: dal grande terrazzo dell’albergo, la vista sulla vallata. E un suono, i muezzin che si richiamano, da ogni minareto e da ogni paese, per la preghiera serale. Una rinascita dello spirito.

6) Vernazza, Liguria
A volte non importa andare molto lontano: la bellezza è spesso a portata di mano. Almeno per me che parto da Bologna, le Cinque Terre sono un gioiello conquistabile in un paio d’ore. La prima cosa che mi piace è che si lascia l’auto e ci si sposta a piedi o in treno, che collega continuamente Rio Maggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monte Rosso: paesi aggrappati alle scogliere o che, in alternativa, si offrono al mare con le loro spiaggette.

Vernazza visto dalla strada che porta all'Eremo sul mare

Vernazza visto dalla strada che porta all’Eremo sul mare

Fra queste ho amato molto Vernazza, soprattutto per la ‘base’ che avevo scelto, l’Eremo sul mare. Il nome la dice lunga: dal paese ci si inerpica sul sentiero Cai che collega i vari paesi. Si sale fra fichi d’india, fiori, mentre l’azzurro si spalanca sotto di voi: meglio munirsi di bagaglio leggero per giungere fino a questa guesthouse (giusto un paio di camere) che si affaccia sul centro. I gentili proprietari vi accoglieranno con una fantastica spremuta di arancia e limone: qui si viene per leggere, riposarsi, contemplare il mare fino al tramonto. Di sera, si risale con la pila lungo il sentiero: dopo un po’ vi accorgerete che non serve più. Basta la luce delle stelle.

7) Central Park, New York

I grattacieli di New York visti dell'alto

I grattacieli di New York visti dell’alto

Attraversare Manatthan in bicicletta si può: io l’ho fatto e sono ancora viva per raccontalo. E’ stato l’ultimo giorno, indimenticabile, del mio viaggio a New York. La Grande mela è stata davvero una sopresa; come forse si sarà capito, è la natura che di solito mi commuove e si fissa nella mia memoria, molto più delle città. Ma New York è diversa, sono troppe le possibilità che offre per non volerle acchiappare tutte. Sono troppi gli echi di film, romanzi per non sentire qualcosa di famigliare, nonostante le dimensioni di strade e quartieri. Ho respirato ovunque un grande senso di libertà e gentilezza. Meravigliosa la musica dal vivo, accattivante Chelsea con le sue gallerie d’arte, commoventi i musei, divertente Broadway, tutte cose abbracciate in uno sguardo dalla cima sull’Empire State Building. Ma la cosa più esaltante è stata noleggiare la bici a Central Park e arrivare, pedalando per tutto il Village, fino a Brooklin. Ho costeggiato i grattacieli, stretta fra la città e il mare, sostato in un bar belga nell’East Village, fino al tramonto dall’altra parte del fiume. Tutta Manatthan in una mano.

Viaggio nei Balcani, capitolo 1

Dubrovnik

Dubrovnik

Attraversare i Balcani occidentali è un viaggio nel viaggio. Il paesaggio si trasforma, fuori dal finestrino, mentre si scende attraverso la Slovenia e la Croazia, ci si spinge fino al Montenegro per risalire in Bosnia Erzegovina, sempre più a Est. Cambiano i colori, dalle pietre abbaglianti delle case di Dubrovnik, al grigio dei palazzi della Novo Sarajevo. Cambiano i volti, dai fisici atleti dei croati, alle donne velate della Bascarsija. Cambiano i campanili, che lasciano il passo ai minareti. Cambiano i sapori, dai risotti di mare della costa, ai piatti virili di carne del Montenegro. Visitare i paesi della ex Jugoslavia, cuciti tra loro come una trapunta colorata, meriterebbe mesi di viaggio e anni di comprensione, ma anche una sola settimana passata a macinare chilometri è così ricca da sentirsi sazi.

Ma il percorso che propongo qui è comunque un assaggio di questa terra di confine tra Asia e Europa, in cui troppo spesso si è accesa la miccia innescata da rancori antichi, conflitti religiosi, istinti primordiali. Ma anche una terra divisa fra montagne severe, verde scintillante (piove parecchio in effetti) e mare di un azzurro intenso. Come l’ho scelto. Dovevo raggiungere il Montenegro e il resto dell’itinerario l’ho costruito attorno alla tappa di Tivat. Una prima osservazione: viaggiare in auto si può e anche solo con la buona vecchia cartina stradale. Le strade sono nuove in Croazia (alcune autostrade sono in via di completamento), anche se in Bosnia vi aspetteranno valichi e gole profonde. Attenzione ai documenti della macchina, in particolare carta verde e certificato di proprietà: si attraversano dogane continuamente – e come poteva essere diversamente in questo tetris di stati – e soprattutto l’ingresso nella Repubblica Srpska è decisamente… rigoroso. Comodo anche il traghetto: quello da Spalato ad Ancona parte tutte le sere intorno alle 20 (attenzione, la Blue line non accetta carte di credito a bordo, ho rischiato di non mangiare, ma le cuccette sono confortevoli). Ecco le tappe.

Lo stupendo giardino nel convento dei cappuccini a Sibenik

Lo stupendo giardino nel convento dei cappuccini a Sibenik

Trieste. Nel mio immaginario, un viaggio nei Balcani non poteva non partire da questa nostrana porta verso Est. E’ stato un blitz veloce, durato una mattina, in cui ho potuto notare palazzi storici e siti archeologici accostati a brutte costruzioni moderne, ma vale la pena anche solo per sedersi in uno dei magnifici caffé storici del centro. La piazza, spalancata sul mare, è una piccola anteprima dell’architettura austroungarica che si vedrà nel resto del viaggio. Se capitate una domenica, assistete a un rito ortodosso nella chiesa di San Spiridione; sono entrata, in quanto turista, solo alla fine, ma è davvero interessante. In più, per la prima volta sentire parlare serbo attorno a voi.

Sibenik. Una perla di questo tratto di Dalmazia. Un piccolo centro storico in cui si rincorrono vicoli, piazzette, chiese nascoste e uno stupendo giardino fiorito in un convento di Cappuccini. Anche se il vero pezzo forte, in questa piccola cittadina sul mare che un tempo si chiamava Sibenco, è la Cattedrale.

Gli uomini di Sibenik del Quattrocento

Gli uomini di Sibenik del Quattrocento

Costruita a più riprese in epoca rinascimentale, è nota soprattutto per la corona, all’esterno dell’abside, di volti umani: fermatevi a guardare ogni singolo viso, vi troverete a dialogare con uomini realmente esistiti ai tempi dello scultore, Giorgio Orsini. Un vero salto nel tempo. A Sibenik conviene assolutamente pernottare: per ammirare al meglio la Cattedrale e nel frattempo assaggiare l’ottima cucina dalmata, non c’è niente di meglio del ristorante, arrampicato su una scalinata, Pelegrini (Ne parlerò in un prossimo post dedicato al cibo locale).

Split. Se i Balcani sono più viaggi insieme, Spalato racchiude più città in una. Inutile raccontare (bella l’introduzione della guida Routard della Croazia) come ci si senta su un set cinematografico: bisogna provare. Anche in questo caso un giorno pieno consente di vedere piuttosto bene il cuore della città, il palazzo di Diocleziano. Costruito dall’ultimo imperatore romano, custodisce palazzi, chiese e monumenti che si sono stratificati dall’antichità all’Ottocento. Affianco a una chiesa romanica troverete una casa del periodo napoleonico; in una piazzetta che ricorda Venezia, scoprirete abitazioni rinascimentali. Ma la vera bellezza di Spalato è questa rilassata convivenza di epoche e genti diverse, nonché la dimostrazione che i centri storici vanno vissuti, riempiti di attività, perché la storia si rinnovi. Molte delle nostre città italiane, a volte degli autentici gioielli, restano inesorabilmente deserti o non sufficientemente valorizzati, inchiodati dai vincoli della Sovrintendenza di turno. Nel nostro paese, molti patrimoni unici sono rovinati non certo dal fiorire di attività turistiche, quanto dall’incuria e dai pochi investimenti nel settore culturale e artistico.

Il Luxor di Spalato

Il Luxor di Spalato

E invece Split, con i suoi ristorantini turistici, i bar nelle piazze con i tavolini, con le sue colonne romane dentro le banche, trabocca di vita. Due consigli rapidi: non è la soluzione per dormire più economica (circa 90 euro a camera con vista mare), ma è fantastica la posizione del B&b Hotel Kastel, proprio a fianco del palazzo. Infine, da non perdere un bicchiere della staffa nel Peristilio, seduti sui gradini davanti al Luxor. La musica dal vivo scalda ancora di più la stupenda piazza illuminata dalla luna.

Kotor. Il Montenegro è un paese di contrasti: quanto la natura è potente e meravigliosa, più il recente turismo sta alterando alcuni tratti della bella costa intorno a Budva. Da quanto ho capito, l’isoletta-gioiello Sveti Stefan, è stato addirittura venduta ai russi. Però vale la pena di andare alla scoperta di questo piccolo paese, indipendente solo dal 2006, particolarmente apprezzato dagli amanti di sport invernali. Ma io mi sentirei di consigliarlo soprattutto a chi ama la barca, che sia a vela o yacht, perché ci sono sempre più possibilità offerte ai turisti di fare tour, anche di più giorni, fino alla Croazia e anche più giù, in Albania. A questo proposito segnalo un’attività in fase di avviamento(http://www.myitaca.me/): sono giovani molto in gamba che penso andranno lontano. La mia base in Montenegro è stata Tivat, che si sta sviluppando attorno al turismo nautico.

Le suggestive isolette nelle Bocche di Cattaro

Le suggestive isolette nelle Bocche di Cattaro

Il paese è molto comodo per visitare le Bocche di Cattaro: un’insenatura in cui l’Adriatico si è fatto strada per lunghi chilometri, tanto che molti lo considerano un fiordo. Due i punti da non perdere. Il primo è Perast: citando la Lonely Planet ‘Balcani occidentali’, è come un frammento di Venezia che ha galleggiato fino a qui. Vale una sosta per imbarcarsi per le isolette che custodiscono chiesette e cipressi e per un pranzo sul mare. E poi Cattarocittadina che veglia sulla gola, che purtroppo ho visto sotto una pioggia battente, ma che ha una sua bellezza nostalgica, mai ruffiana. Attenzione al tragitto: se venite da Tivat, prendete la strada nuova, verso l’areoporto. Quella lungomare, per quanto affascinante, è davvero troppo stretta e pericolosa.

Sarajevo. E’ come una bella donna dallo sguardo triste. Non ha perso il suo fascino, anzi, ma le cicatrici sono fresche. Viene da chiedersi: chissà come era prima di queste ferite. L’impatto con Sarajevo, per chi come me, veniva dal Montenegro dopo sei ore di auto in strade di montagna, può atterrire.

Sarajevo vista dalle colline

Sarajevo vista dalle colline

Arrivare dall’areoporto e attraversare la lunga via dei cecchini, mentre sotto gli occhi scorrono palazzi bombardati e i segni delle granate, può togliere il fiato. Quando era bambina la Jugoslavia, nel mio immaginario fatto di frammenti televisivi e chiacchiere dei ‘grandi’, era il paese della guerra. Dove andavano quegli aerei che sfrecciavano sulle nostre teste in spiaggia a Riccione. Questa guerra della porta accanto qui si vede in ogni palazzo, la si immagina, la si sente, nonostante i tantissimi giovani che vivono qui e la vita notturna che esplode nei locali. La riflessione di ognuno di noi sui sanguinosi fatti degli anni Novanta è un’esperienza molto intima, ma l’ideale, per capirci qualcosa di più, è fare un giro al Museo del tunnel e fra i palazzi deturpati della Novo Sarajevo con una guida locale. Il nostro ottimo B&b (Pansion Vijecnica) ci ha presentato Ervin, che parla bene italiano e si destreggia abilmente fra le strettissime vie che si arrampicano sulle colline.

Un negozio artigianale di Sarajevo

Un negozio artigianale di Sarajevo

Dall’alto la città mostra il suo volto più struggente: tetti rossi, lapidi bianche (sono centinaia e centinaia i cimiteri cittadini), i minareti. Ripensandoci, il modo migliore per iniziare un tour cittadino sarebbe da qui. Ma Sarajevo è anche una città in cui riscoprire la lentezza, nel cuore del centro pedonale, che sembra un quartiere di Istanbul. Gironzolate, e trattate sul prezzo, fra i negozi di artigianato in rame, sorseggiate un caffè bosniaco da al Cafè Divan. Esplorate le moschee e la bella sinagoga, fate un giro nel bazar, sedetevi a mangiare, come tutti fanno qui, i gustosi cevapi. Il ricordo che vi resterà di più? La straordinaria gentilezza degli abitanti che incontrerete.

Dubrovnik. E’ la riprova che a volte un posto è così famoso perché è davvero straordinario. Dubrovnik è così. La sua luce risalta ancora di più dopo il cielo cupo della Bosnia (passate per Mostar, vale assolutamente una sosta). Sembra di camminare nella ‘città ideale’ dell’Anonimo fiorentino: il tempo qui si è fermato al Rinascimento, con i palazzi brillanti, i lastricati, le piazzette, ognuna con una musica diversa. Ma quella di Dubrovnik è una bellezza fiera, non banale, di cui essere un po’ invidiosi. Perché questa città ha conosciuto l’umiliazione dei bombardamenti, il terrore dell’assedio, ma dopo neanche vent’anni è più bella che mai, protetta dai suoi bastioni, avvolta dal mare.

I bastioni di Dubrovnik

I bastioni di Dubrovnik

Dormiteci. Iniziate a girarla verso il tramonto, quando i pulmann di turisti se ne saranno andati. E poi, dopo avere cenato in uno dei tantissimi ristorantini, tornate la mattina dopo. Due esperienze imperdibili: il giro a piedi sulle mura (dura almeno un’ora, non accettano gli euro) fra gli squarci d’azzurro e il convento di San Francesco, con un bel chiostro e un’antica farmacia. Un consiglio: pernottate in un posto che sovrasti il paese: sarà più facile trovare parcheggio ed eviterete di fare centinaia di gradini carichi di bagagli.