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Maternità, parte seconda

Le madri sono i paesi da cui veniamo.
(Il lavoro di una vita, Rachel Cusk)

So per esperienza che spesso una donna è pronta per avere un figlio e altrettanto spesso non è pronta.
(La vita degli animali, Audur Ava Olafsdottir)

Mi è successo qualcosa di forte quando sono diventata mamma (voglio dire, oltre a non dormire  per quattro mesi di fila), qualcosa che mi ha fatto apprezzare mia madre che è morta quando avevo 22 anni, facendomi sentire in connessione con lei.
(Mamma!
, Liz Climo)

“Sei pronta a incontrare l’uomo della tua vita?”. L’estetista me lo ha chiesto così, come se niente fosse, con la cera in mano, mentre cercava di rendermi il più presentabile possibile a dieci giorni dal parto. Perché fra le cose che nessuno ti racconta mai prima delle gravidanze è che in certe parti del tuo corpo alla fine non arrivi più e, anzi, proprio non le vedi più e vai in giro conciata chissà come. E dunque eccoci qui di nuovo, due anni dopo Mia è arrivato Orlando Martin. Nome bizzarro sì, ma è nato in un freddissimo dieci gennaio, così come mio nonno Nello, quasi un secolo fa. Suo padre si chiamava Martino e quel secondo nome chiudeva un cerchio irresistibile.

Foto di Alice Pietrantonio

Foto di Alice Pietrantonio

“Ti senti più completa ora che hai anche il maschio?”, ha rincarato la dose la stessa estetista quando ho rimesso piede sullo stesso lettino, questa volta per tornare presentabile dopo il parto. Di nuovo non ho saputo cosa rispondere e ho vigliaccamente temporeggiato con “non saprei”.
E così, una gravidanza dopo, ho ritrovato lo stesso quantitativo di luoghi comuni e narrazioni sulla maternità lontane anni luce dal mondo reale ed emotivo delle donne. E’ una delle poche cose che non sono cambiate – così come la mancata precedenza negli uffici postali e alla cassa del supermercato, dove l’umanità offre sempre il suo peggio –  fra le due esperienze, su cui provo ancora una volta a dire la mia. Forse il mondo non ne sentirà proprio il bisogno, anche perché di figli se ne fanno sempre meno pare, ma magari il racconto può essere un confronto utile a chi questo percorso lo sta (ri)vivendo. In giro si sentirà ancora ripetere frasi così. Perché il maschio, è sempre e ancora il maschio.

 

E pensare che io, cresciuta a pane e Piccole donne e sorelle Bennet, ero convinta di avere un’altra bimba in rampa di lancio. E un po’ ci speravo proprio, diciamolo. E poi con tutte quelle nausee, per forza, mi dicevano in tanti. Solo i test genetici, arrivati mentre cercavo la connessione internet in un campeggio del Gargano, mi hanno ancorata alla realtà: questa volta aspettavo un maschio. Ma come è possibile, continuavo a ripetere a Patrick, come se l’eventualità fosse così peregrina e non un banale 50 per cento. Ci ho messo nove mesi a capire che la mia aspettativa di avere una seconda figlia femmina era una poi di fatto una proiezione della mia vita – ho una sorella amatissima – e che avrebbe ricomposto il trittico perduto con mia madre, scomparsa così presto. E così, archiviati i nomi femminili che avevo già immaginato e restando indecisa fino alla sala parto su quelli maschili (da lì il doppio nome) nel frattempo è ricominciata l’avventura, che per certi versi si è rivelata più facile, per altri più difficile.
Dei tanti racconti ansiogeni che mi erano stati fatti, mi sento di confermare quelli sulla stanchezza. Mentre aspettavo Mia, per cui avevo smesso di lavorare prima, esistevano momenti di riposo, addirittura di solitudine. Questa volta ho lavorato fino alla fine del settimo mese e quando non ero in redazione, ero costantemente con mia figlia a recuperare tempo perduto. Andrebbe aggiunto che la piccola nel frattempo ha iniziato il nido e con quest’ultimo il sabotaggio del mio tempo libero con febbri e raffreddori continui, ma un tema più universale è sicuramente quello della pandemia. Questa è storia recente di tante: ecografie in solitaria, slalom fra i triage in ospedale, degenze praticamente senza padri. Per non parlare degli annunci della lieta notizia: lo sfilacciamento di tanti rapporti di questi mesi ha fatto sì che io abbia rivelato che ero incinta molto avanti, con ben meno poesia. E ancora. Verso Natale ho dovuto archiviare le attività in luoghi chiusi, con la paura di diventare positiva. Il picco è stato in gennaio, quando io dovevo andare a partorire e non potevo permettermi di avere l’altra bimba contagiata. Se no, poi, a chi la lasciavo quando andavo in ospedale?

 

La nevicata dietro casa prima che nascesse Orlando

La nevicata dietro casa prima che nascesse Orlando

Ecco, onestamente, questo senso pratico continuo ha a volte prevalso sulla gioia di aspettare. Così come l’incastro perfetto lavoro-nido-babysitter-nonni. Se  questa seconda gravidanza l’ho vissuta con meno ansia e paure irrazionali (che poi, irrazionali: quella di far crescere qualcuno dentro di sé non mi pare poi una responsabilità da poco. Avete delle ansie? Amen, non crocifiggetevi), qualcosa si è perso di quel senso di meraviglia che aveva tanto caratterizzato la precedente. Solo la sera, dopo avere messo a letto Mia, mi sedevo sulla poltrona ascoltando calci e piroette, rendendomi di fatto conto che lì dentro c’era davvero un altro bambino che sembrava darsi un gran da fare per farsi notare (il destino dei secondogeniti?), ritrovando quello stato di grazia che ricordavo e che avevo sperato di poter vivere di nuovo. Sono stata molto fortunata, questo è certo. E ho anche capito che con la maternità ti piove addosso spesso un senso di inadeguatezza, ma anche una forza praticamente inesauribile.

Questo è stato il prima.

Poi è arrivato Orlando Martin, dopo l’unica nevicata di questo inverno che a tutti è sembrato lunghissimo. Ed è ricominciato il tempo della cura e della tenerezza.

Orlando in maternità

Orlando in maternità

Il tempo della cura

Ricomincia sempre così, con notti passate a vagare in un reparto inondato di pianti, con luci tremende, popolato da donne stanche, con l’andatura accartocciata per i punti, alla ricerca di una ostetrica. Non ce la farò mai, pensi la prima volta. Nella seconda, per fortuna, lo sai che ce la farai, che in qualche modo provvederai a quella creaturina che sembra di vetro e che ti rimetterai in piedi. E, anche se non te lo raccontano mai ai corsi quanto può essere difficile allattare, sai anche che spesso ti sentirari un’incapace, ma con un po’ di costanza ce la farai. E che se non ce la farai, non succede niente. Che se il legame non si crea all’istante, tipo freccia di Cupido, non c’è nulla di strano. E allora puoi iniziare a goderti lo spettacolo, di questa vita che cresce, che impara continuamente sotto i tuoi occhi. Che cade, si rialza, si entusiasma per tutto, piange per tutto. Che ti fa perdere la pazienza così tanto. Che ti ama così tanto. Mia e Orlando sono il mio più film più bello, la trama del libro che ho sempre voglia di leggere. Regali di Natale da scartare tutti i giorni.

La copertina del libro Mamma! di Liz Climo

La copertina del libro Mamma! di Liz Climo

E’ una fatica pazzesca essere genitori, così come è una gioia pazzesca. La vivo quotidianamente come un previlegio, una fortuna enorme, ma sento crescere anche continue, nuove, paure. Quella che mi succeda qualcosa, che succeda loro qualcosa. O, per sdrammatizzare, come dicono nella serie Love Life: “Ecco, ora puoi ufficialmente rovinare la vita di qualcuno”.  Perdo continuamente pezzi di vecchia me, ma spesso mi sento più me stessa. Quando si ammalano trascorro giornate fatte solo di pannolini-termometro-aerosol-pediatra e guardare una puntata di Downton Abbey è l’aspettativa massima giornaliera. A volte verso le 19 mi trasformo in una creatura urlante, uscita da un film di Muccino. Però sono costantemente innamorata. Essere mamme è, prendendo le parole in prestito da Rachel Cusk, Il lavoro di una vita. Aggiungerei, tanti lavori insieme. Siamo chiamate a essere custodi, giocoliere, piccole chimiche dosando antibiotici, un po’ infermiere e un po’ pedagogiste. Figlie a nostra volta, compagne. Dobbiamo essere concorrenti di Masterchef costantemente al pressure test, donne di casa, equilibriste (in bagni perennemente senza fasciatoio, ve possino), nutrizioniste, cantastorie, tassiste, insegnanti, segretarie con agende stampate in testa. Non ce l’ha fatto fare nessuno, ma credo che facciamo un lavoro importante, che c’entra con la speranza e con il futuro.

Eppure è obbligatorio che facciamo tutto questo per soli tre mesi, dopo di che dovremmo tornare al lavoro vero e proprio non appena abbiamo messo insieme una manciata di ore di sonno, per poi girare mezzo stipendio alla babysitter e morire dentro dal senso di colpa, delegando ad altri persino le prime pappe. E allora bene, benissimo, sdoganare il cognome della madre, declinare ogni parola al femminile, ma l’impressione è che si giri sempre attorno ai temi cruciali. Avrei una lunga lista. Si potrebbe iniziare a ragionare su una maggiore flessibilità oraria al rientro sul proprio posto di lavoro (soprattutto garantire che ci sia ancora). E’ sacrosanto che non siano più le donne a occuparsi in maniera esclusiva dei figli, ma non si può neanche chiedere loro il contrario. L’elasticità degli orari dovrebbe valere anche per i nidi e le scuole per l’infanzia (con quel che costano): l’altro giorno, alla riunione dei genitori del polo, una mamma ha chiesto se il servizio aggiuntivo estivo poteva continuare anche ad agosto. Ad agosto. Mi chiedo chi pensi ancor che ancora le donne abbiano ferie, turni e orari di lavoro come quelli delle nostre madri. La lunga estate di villeggiatura al mare e in Appennino – e in casa mia non eravamo certo dei riccastri – è un mondo incantato che non esiste (quasi) più.
Una paternità obbligatoria di dieci giorni fa ridere. Che ne facciano richiesta meno della metà degli uomini fa piangere. Se proprio non spuntano idee più creative, allora si potrebbero dare due lire in più alle famiglie, visto quanto poi si grida allo scandalo davanti al calo della natalità, anche senza che ce lo dica Elon Musk (come poi faccia a conciliare il tema con la quasi totale marcia indetro sullo smart working sarebbe da approfondire).

Io e Mia

Io e Mia

Due anni fa, poco prima di partorire, scrivevo che alle donne incinte servivano compagni presenti e parenti intelligenti. Ne sono ancora convinta. E aggiungo: servono psicologhe già dall’ospedale. Solo di recente ho scoperto quante donne finiscono in terapia per superare il trauma del primo parto. Ed è vero che allora la mia bisnonna ne aveva fatti 11 di figli e nel frattempo lavorava pure nei campi, ma non credo che gli effetti siano stati sempre eccezionali per la generazione delle nostre nonne e madri. Servono ostetriche a casa, obbligatorie. E tante pacche sulle spalle. E schiene allenate, sul serio. L’altro giorno il pediatra mi ha cazziata perché sono arrivata con dieci minuti di ritardo. Era vero, ma stavo correndo su e giù per la tangenziale dopo essere stata dalla fisioterapista. Volevo rispondere: ci provi lei, con bambini malati che non fanno tre anni in due. E invece mi sono inventata la più classica delle scuse: che ero rimasta a piedi con l’auto.

Siate gentili con le mamme. Fanno tanti lavori tutti i giorni, persino sotto le bombe, come putroppo vediamo da mesi. Non chiedeteci se ci sentiamo complete con figli maschi, femmine o quando i figli non sono proprio arrivati. Perché chi lo sa mai, in fondo, quando si è pronti per questa risposta.

Il nostro primo viaggio in Italia in tre

“Andare in luoghi con odori e sapori diversi dal mio è un tipo di sete che non credo si spegnerà mai, perché è una cosa che ho come sposato nella mia vita (quando non sono al verde). Ma viaggiare solo all’estero è viaggiare a metà. E viceversa. Nell’ultimo anno questa sete di Paesi sempre nuovi si è accompagnata a una nuova esigenza, quella di tornare all’incredibilmente vicino. Al piccolo e piccolissimo“.

Scrivevo così su questi schermi due anni fa, dopo essere tornata dalla Calabria e da un viaggio in Italia che mi aveva fatto penetrare in un Paese più periferico e (ai miei occhi) sconosciuto.

Non sono il tipo che si autocita, ma mi ha colpito ritrovare parole che avrei potuto scrivere proprio in questa strana estate ai tempi della pandemia. In un momento in cui viaggiare è un lusso, il fatto di farlo in Italia era sicuramente la più giusta (con una bimba di sei mesi certamente la più fattibile). Ma questo post che ho ripescato mi ha fatto ripensare al fatto che da un po’ di tempo d’estate ho ricominciato a viaggiare a casa nostra, cercando posti ai margini dell’autostrada, esplorando soprattutto le regioni centrali (con risultati alterni, va detto). E anche quest’anno la nostra discesa lenta verso la Puglia si è rivelata un viaggio pieno, intenso, emozionante.

Alla tenuta San Marcello, prima tappa del nostro viaggio in Italia in tre

Alla Tenuta San Marcello, prima tappa del nostro viaggio in Italia in tre

È stato un viaggio di ritorni e di prime volte. Il nostro primo viaggio in tre, con una piccola passeggera che dettava i ritmi di marcia. In cui non ci siamo fatti mancare nulla, ma abbiamo dovuto rallentare, pianificare e allo stesso tempo improvvisare a seconda di quanto Mia dormiva in auto o meno. La ragazza, sei mesi festeggiati con una gattonata proprio sulla via del ritorno e svezzamento un po’ selvaggio fra orecchiette e un blitz in un ristorante stellato, ha dato una mano adattandosi a tutto. Forse è stata la fortuna del principiante, forse una questione di età, comunque sia siamo tornati tutti interi e posso ora, dopo giorni di lavatrici, raccontare il nostro itinerario di circa due settimane. Abbiamo toccato cinque regioni, fra Marche, Abruzzo, Puglia, Molise e Umbria. Numero di borghi visitati, irraccontabile. Tante le tappe, in discesa e in risalita, per non macinare troppi chilometri in una volta sola.

Da qualche parte nella Valle d’Itria

Abbiamo trovato un’Italia alle prese con una stagione turistica incerta, con le spiagge sempre piene e l’Appennino sempre vuoto (con l’eccezione di Castelluccio di Norcia, preso d’assalto per la fioritura). Un’Italia dove a tavola è sempre festa, col calice sempre pieno. Colorata, ma anche costosa, con strade che possono essere davvero tremende. E, scusate il tema personale, un’Italia senza fasciatoi. Sono un po’ pentita per le maledizioni lanciate tutte le volte mentre facevo le acrobazie in bagno, ma neppure troppo. Ristoratori, ma quanto vi costa metterne uno, dai.

Marche

Se c’è una cosa che ho capito dall’alto dei miei ben sei mesi da mamma-viaggiatrice è che, se si può, è meglio partire comodi. Anche se il lattante è di quelli finti, comunque nessun viaggio in questa fase- dopo che vi sarete portati dietro la casa che tanto andiamo in auto e non si sa mai- sarà davvero riposante. E non so chi ha inventato la storia che il mare è perfetto con i bambini. Sì, quando hanno l’età per giocare con la sabbia e non quando la mangiano. Quindi: partite comodi, senza maratone e marce forzate. Per noi la tappa soft sono state le Marche, fra le dolci colline di Jesi. Per evitare il traffico sull’A14 del sabato mattina, siamo partiti il venerdì sera, arrivando a destinazione per cena. Siamo scesi dall’auto un po’ stravolti, ma la mattina avevamo il primo giorno in tasca.

La tenuta San Marcello

La tenuta San Marcello

Primo tuffo in piscina di Mia

Il luogo in cui abbiamo scientemente deciso di non fare nulla, se non una nuotata in piscina e degustare (ottimi) vini, è stata la Tenuta San Marcello. Non so ancora cosa sia meglio fra la vista su borghi, vigneti di Verdicchio e Lacrima di Morro e campi di girasole e il vino Indisciplinato, un Verdicchio in anfora davvero speciale, accuratamente spiegato da Massimo Palmieri, vignaiolo indipendente Fivi. Per la sommelier che è in me, a bocca asciutta da oltre un anno, è stato un vero momento di gioia, nonostante gli assaggi ancora di contrabbando. Se proprio non potete fare a meno del mare, poi, Senigallia è a pochi chilometri.

L'anfora georgiana piena di Verdicchio

L’anfora georgiana piena di Verdicchio

Fra Marche e Umbria

Ci siamo messi in auto presto con una meta ambiziosa: la piana di Castelluccio, nel pieno della sua fioritura proprio a inizio luglio. Il tragitto, scendendo attraverso le Marche, era di circa 120 chilometri (due ore abbondanti), ma di fatto ci è voluto più tempo. La domenica non perdona e arrivati all’altezza di Visso, fra code e motociclisti, ci siamo arresi all’evidenza: una delle fioriture più belle degli ultimi anni era anche una delle più affollate. E così abbiamo fatto inversione e puntato su Norcia, dove siamo arrivati per pranzo.

Ora, io non so bene cosa pensassi di trovare in questi luoghi devastati dai terremoti del 2016 e 2017, ma l’immagine che ho di Norcia è qualcosa che faccio fatica a digerire. Faccio fatica a pensare alle teste di cinghiale e i salami accanto alla zona rossa, ai turisti e ai ristoranti presi d’assalto in un centro storico impacchettato. Alla cattedrale sventrata, ai container, come se il sisma avesse squarciato questi luoghi solo pochi mesi fa. I paesi come Visso, Arquata del Tronto sono ancora più spettrali, desolati nelle loro case accartocciate su se stesse, con i lavandini penzolanti, ma a Norcia i turisti sono ovunque e fai fatica a spiegarti tutte queste macerie.

È bene saperlo, quando si decide di salire fino a Castelluccio, sbriciolato anch’esso, nel silenzio interrotto dalle ruspe. Anche se non si può essere preparati fino in fondo.

La Cattedrale di Norcia

Lasciata Norcia, siamo andati a trovare il fresco nel nostro agriturismo, alle porte della Valnerina. E’ un luogo semplice e accogliente, praticamente sulla riva del fiume Nera (noto per il rafting), che riconcilia con questa parte di Appennino. I ragazzi delle Due Querce qui hanno avviato un caseificio con prodotti di capra, che si possono assaggiare a colazione (la ricotta è stata approvata anche da Mia). Per quanto riguarda la Valnerina, è uno dei luoghi più selvaggi dell’Umbria. Si parte proprio da Cerreto di Spoleto e si arriva fino alla cascata delle Marmore, fra tornanti, paesini minuscoli e boschi verdissimi. Noi ci siamo limitati a visitare la piccola Sant’Anatolia di Narco, suggestiva e tranquilla nel chiacchiericcio degli anziani all’imbrunire, e a cenare a suon di strangozzi e carne di pecora sotto un cielo stellato.

L'agriturismo-caseificio Le Due Querce

L’agriturismo-caseificio Le Due Querce

Comunque alla fine ci siamo andati davvero a Castelluccio. Siamo arrivati di lunedì mattina, mentre la nebbia di alzava scoprendo i colori pazzeschi di questa piana surreale, incorniciata dai Monti Sibillini. Anche in questo caso la realtà supera l’immaginazione. E soprattutto Instagram. La fioritura è realmente uno spettacolo eccezionale, solo in Giappone avevo assistito a un evento come questo, da assaporare camminando ai margini dei campi di lenticchie. Ebbene sì, sono loro le reali protagoniste della zona, anche se la gente non arriverà mai a capirlo del tutto, nonostante i cartelli. Capisco il desiderio di farsi una foto fra papaveri e un’esplosione di fiori azzurri, bianchi e gialli, ma quei campi rappresentano il lavoro di una comunità e calpestarli è da barbari (e anche lasciare fazzoletti in giro). Detto questo, il luogo, e soprattutto il suo isolamento, sono magnifici e per goderne appieno bisognerebbe camminare in tutta la piana con calma. Noi, non potendo lasciare la bimba sotto il sole (picchia parecchio, siamo a 1.450 metri) e dovendo arrivare fino in… Puglia, vi abbiamo trascorso un paio d’ore. Ma quei colori ci sono rimasti negli occhi a lungo.

La piana di Castelluccio

Il Bosco Italia

Attraverso l’Abruzzo, fino in Puglia

Non in tanti Paesi ti svegli in cima all’Appennino e vedi il tramonto sul mare a Trani, in Puglia. Questa era in assoluto la tappa più lunga (400 chilometri, circa 4 ore e mezza) e l’abbiamo spezzata a Roseto degli Abruzzi. In realtà il progetto originario era di fare pausa a Ortona o Vasto, magari tentando il colpaccio in un trabocco a pranzo, ma fra il dire e il fare c’era di mezzo Mia che, giustamente, sul finire delle Marche ha manifestato i primi segni di sfinimento. Potrei scrivere un libro sulle mie disavventure ogni volta che cerco un ristorante vicino all’autostrada e anche in questo caso il posto che avevo trovato era tanto carino quanto chiuso. Comunque un piatto di spaghetti in uno dei lidi non ce lo ha tolto nessuno, così come il nostro fazzoletto di mare in cui distrarre la bimba per un po’ prima di montare in auto di nuovo.

Arrivare a Trani dall’Appennino è stata un’esperienza da marziani. Ci aspettava una città bianca, marittima, con strade lastricate e macellerie e pescherie piene di gente alle otto di sera. Ci siamo subito lanciati verso porto e cattedrale rincorrendo un sole calante sempre più fucsia e abbiamo afferrato il tramonto giusto in tempo, prima di arrivare sul molo e passeggiare alla ricerca di un ristorante. Amanti dei ricci di mare, non fatevi scappare quelli de La Perla del sud: sorvolate sul nome e non ve ne pentirete. Il mattino successivo siamo tornati a visitare l’interno della cattedrale romanica e la sinagoga. A Trani, infatti, a partire dall’undicesimo secolo si era costituita un’importante comunità ebraica, tanto che si trovavano addirittura quattro sinagoghe. La maggior parte degli ebrei si convertì al cristianesimo, ma ancora oggi si può camminare in una piccola, candida, Giudecca.

Trani al tramonto

La cattedrale di Trani

Confesso che eravamo un po’ indietro rispetto alla mia tabella di marcia. Dovevamo pranzare a Polignano a Mare e invece ci siamo fermati sopra Bari, a Molfetta. È un’altra cittadina marittima, con un centro storico racchiuso da mura su un promontorio, con tanto di cattedrale affacciata sulla spiaggia del porto. E’ un luogo decisamente meno patinato, ma è affascinante la scogliera battuta dal vento, in un frullo di gabbiani che mi hanno fatto vagare con la mente fino ad altre città fortificate visitate in diversi punti del Mediterraneo, da Essaouira in Marocco ad Akko in Israele, da Cipro a Tiro e Sidone in Libano. Mi piace mettere insieme queste immagini delle sponde del nostro mare, come fosse un puzzle, ma la nostra masseria aspettava e ci siamo rimessi in auto per l’ultima ora di viaggio.

Quartiere ebraico, Trani

Molfetta

Orecchiette per Mia

E con moscardini per mamma e papà

La Valle d’Itria: fra gli ulivi della Puglia

Il blu dell’Adriatico è sempre sullo sfondo, ma il colore che resta negli occhi è il verde, argentato al mattino e dorato la sera. E’ il verde degli ulivi, che in Valle d’Itria non fanno parte del paesaggio, ma sono essi stessi paesaggio, con la loro solidità da monoliti, da esseri secolari. Non avevo mai visto una distesa così di alberi, ancorati a una terra rossa da campo da tennis e ritmata da muretti a secco. Uno spettacolo che si ammira nelle tante, stupende, masserie che in questi anni hanno unito all’attività agricola quella alberghiera. Ma tanta cura si paga, soprattutto da quanto queste case bianche con un piede sulla collina e uno sulla costa sono diventate sempre più ambite per i matrimoni. Devo dire che non è stato facile trovarne una disponibile e a un prezzo ragionevole, che avesse anche una piscina e un ristorante, ma alla fine abbiamo avuto anche noi il nostro angolo di paradiso nella Masseria Spetterrata. E’ stata la nostra base per esplorare i dintorni, rifugiandoci qui quando il mare diventava un’esperienza da bolgia dantesca (e nel weekend succede).

Masseria Spetterrata

Masseria Spetterrata

Abbiamo alternato le visite nei dintorni, a volte di giorno e a volte la sera, sempre cercando di non strapazzare la lattante. Ci siamo meravigliati davanti alla grazia incantata e alla vivacità di Locorotondo e nei vicoli di Cisternino, patria delle bombette. La strada che collega le due cittadine nella campagna è di una bellezza fiabesca, fra muretti, vigneti e trulli che sbucano da dietro gli ulivi. Nella mia ignoranza credevo che queste abitazioni tradizionali, pensate per essere smontate e rimontate in fretta, si trovassero solo ad Alberobello, invece sono disseminate in tutta la zona. Un altro luogo delizioso per cena è stata Ceglie Messapica, con un tocco orientale. Sempre a circa mezzora di auto c’è appunto Alberobello, che, alternando angoli kitsch alle distese candide di trulli nel rione Aia Piccola, mi ha trasportato in un’altra dimensione, senza tempo.

La campagna fra Cisternino e Locorotondo

Alberobello, Rione Aia Piccola

Alberobello, Rione Aia Piccola

Ulivi, ulivi e ancora ulivi

Polignano a Mare

Polignano a Mare

Non è scattato il feeling invece con Ostuni, bella nel suo candido arroccamento, ma decisamente troppo invasa da ronzanti Ape Calessino carichi di turisti e di pouf da aperitivo. Ma ci riproverò. All’altezza delle aspettative, invece, Polignano a Mare, con i suoi affacci sul blu, i vicoli curati e certe piazzette che mi hanno ricordato la mia amata Venezia.

Capitolo mare. Dalla nostra posizione era molto più vicino l’Adriatico e ci siamo trovati bene nel piccolo lido Stella, vicino a Ostuni,in cui è stato possibile noleggiare lettini e ombrellone. Ma devo dire che questa costa, dal Capitolo di Monopoli a Torre Canne, fra scogli e spiagge selvagge, non era molto adatta alle nostre esigenze con la piccola. Così un giorno ci siamo avventurati fino al Salento, alla volta di Punta Prosciutto. Ma, anche se durante la settimana, era necessario prenotare prima. Abbiamo ripiegato verso la provincia di Taranto, a Torre dell’Ovo, fra torri normanne e paesi sonnolenti. Devo dire che qui l’acqua e l’organizzazione hanno uno sprint in più e valeva la pena di fare un’ora di macchina per questo tuffo.

Torri di avvistamento sulla costa

Il ritorno attraverso il Molise

Un po’ ci siamo detti: se non ci fermiamo in Molise quest’anno, quando mai lo faremo? Un po’ volevamo evitare il traffico sull’A14 della domenica, un po’ mi erano rimaste in testa immagini di borghi suggestivi raccontati dai tanti travel blogger che hanno collaborato alla guida Destinazione Italia. E così, lasciata la Puglia, ci siamo addentrati in questa piccola regione, ai più sconosciuta. E capisco meglio il perché. Al di là delle battute se il Molise esiste o meno, ci è sembrato che, più che altro, non esistessero gli abitanti. Nei paesi di Bagnoli del Trigno, addossato in modo scenografico alla montagna, e Macchiagodena, con la sua vista mozzafiato sul massiccio del Matese, non abbiamo praticamente incontrato anima viva. Va detto che era domenica e amici che conoscono meglio queste zone ci hanno spiegato come da queste parti sia un giorno in cui è sempre tutto chiuso. Non posso quindi, con una permanenza di 24 ore, generalizzare troppo, ma la sensazione che ho avuto- che poi è una conferma- è che questi luoghi sull’Appennino nel migliore dei casi siano in vendita e nel peggiore stiano scomparendo dal cuore della gente. A Bagnoli del Trigno erano chiusi sia il castello che la suggestiva chiesa di San Silvestro, incastonata nella roccia e gli abitanti della cittadina sono più numerosi a Roma, dove molti si sono trasferiti a fare i taxisti, che qui.

Bagnoli del Trigno

Bagnoli del Trigno

Non sono pentita di essere passata per il Molise, perché la bellezza delle montagne, il verde dei boschi sono suggestivi e selvaggi, come in poche parti d’Italia mi è capitato di vedere. Credo possa essere il paradiso dei camminatori e di un turismo lento e ragionato. Vorrei saperne di più sui tratturi e ritentare di mangiare il pesce a Termoli (ho chiamato un ristorante che mi ha detto che di domenica, in alta stagione, sono sempre chiusi!). Ma forse siamo stati un po’ presuntuosi noi e vale la pena tornare con qualcuno che conosca questi luoghi e ce li racconti.

Macchiagodena

Il santuario di Maria Santissima Addolorata

Il santuario di Maria Santissima Addolorata

L’ultima tappa: di nuovo nelle Marche

Lasciato il santuario di Maria Santissima Addolorata, luogo di pellegrinaggio mariano in posizione pazzesca, è iniziata la vera risalita verso le Marche con destinazione Sirolo, sulla riviera del Conero. Dovevamo impiegare circa tre ore di auto, che sono diventate di più per i vari lavori sull’autostrada: in questo caso Mia ha deciso che dovevamo fermarci all’altezza di Pescara e, come all’andata, abbiamo fatto pausa spaghetti alle vongole, questa volta a Silvi Marina. Era destino che Ortona e Vasto li vedremo la prossima volta.

Uno scorcio di mare al Conero

Uno scorcio di mare al Conero

Il Conero per me non era una prima volta e in generale non lo era questa parte delle Marche. Il mio primo contratto di lavoro a tempo determinato, infatti, fu proprio a Macerata e dalla terrazza della redazione si vedeva questo monte lanciato in mare sempre sullo sfondo. Per me, quindi, si è trattato di un vero ritorno, dopo dieci anni, in luoghi che a suo tempo ho visitato da sola, in quei momenti della vita in cui tutto sta cambiando e hai preso una direzione che ancora non sai dove ti porterà. Hai già lasciato delle cose, ma ancora non te ne sei accorto. Per me quei giorni a Macerata erano stati così, agrodolci, ed è stato emozionante tornare a Recanati, con un marito, una figlia e due cari amici. Ovviamente la destinazione per loro era la casa di Leopardi, che è sempre un luogo un po’ mistico. A parte il dettaglio di Mia allattata in biblioteca- QUELLA biblioteca-, la novità è che ora si possono visitare anche le stanze private del poeta (non il lunedì però ed è bene prenotare).

Ma ero partita dal Conero, suggestivo quanto scomodo se avete dei bambini piccolissimi. In realtà a Numana la spiaggia è ben raggiungibile, mentre a Sirolo va guadagnata a piedi. Noi abbiamo scelto quella di ciottoli di Portonovo, che ho trovato bellissima, immersa nella natura, ma abbiamo dovuto fare a sportellate per due ombrelloni (strappato il prezzo di 20 euro a coppia per la mezza giornata). Venite presto o cercate di prenotare, anche se i numeri dei lidi, la mattina, suonavano sempre a vuoto. Sirolo in sé è molto graziosa, con una terrazza sull’Adriatico meravigliosa al tramonto, ma era presa d’assalto dai vacanzieri, quindi mi è rimasta la voglia di tornare a inizio o fine stagione.

La casa di Silvia a Recanati

Per quanto riguarda l’indigestione di borghi, abbiamo concluso il giro a Urbino (abbiamo pernottato qui l’ultima notte), sempre meravigliosa, per viaggiare un po’ indietro nel tempo. Bello il caffè a Fossombrone, raggiunta per la mia ossessione per gli antichi ponti dell’Appennino e la passeggiata a Offagna, anche se il vero spettacolo è stato inoltrarsi nella Gola del Furlo per sentirsi in uno dei parchi selvaggi dell’ovest degli Stati Uniti. Voglio assolutamente tornare con il kayak o per un giro in bicicletta. Ma la vera sorpresa di queste ultime ore di viaggio è stata sicuramente il pranzo alla Madonnina del Pescatore, ristorante stellato di Moreno Cedroni a Senigallia. Un po’ merito del menù, davvero straordinario, un po’ perché andarci con due bambini di sei e tre mesi è stato un azzardo ripagato. Un po’ perché brindare (anche se poco) e ritrovarci a tavola insieme, dopo mesi di separazione e di paura per il futuro, è stato un piccolo inno alla vita. E questo primo viaggio in tre- diventato poi in sei- non poteva finire meglio di così.

Fossombrone

Nella Gola del Furlo

Info e indirizzi

Tenuta San Marcello. Non è stata una tappa economica, ma rigenerante. Per gli appassionati di vini è davvero un luogo di ispirazione. I proprietari hanno ristrutturato in modo perfetto il casolare preesistente e ci sono varie soluzioni, sia in appartamento che in camera. Tornando ai vini, i vitigni sono due, Lacrima di Morro e Verdicchio, che regalano etichette di grande personalità, senza invecchiamento in legno. L’approccio nel campo sta virando verso un biodinamico, gestito in modo molto consapevole. La visita in cantina, nel vigneto e la degustazione costano 25 euro.

-B&b Tornarè, a Trani. Lo segnalo perché l’ho trovato davvero bellissimo con ottimi prezzi e posizione: all’interno di un palazzo storico, è molto curato e pulitissimo. Le brioches della colazione (si consuma in camera) sono un trionfo di crema e per gli irriducibili di Netflix c’è anche una grande smart tv. Anche il lettino con le sbarre per Mia è andato alla grande.

Masseria Spetterrata. Uno di quei luoghi in cui tornare tutti gli altri e ritrovare qualcuno di famiglia. L’accoglienza di Massimo è calorosa e attenta ed è bello ritrovarsi tutti la mattina a colazione (e che colazione), a bordo piscina. C’è anche un ristorante, che, in quest’anno così particolare stava proprio riaprendo mentre eravamo lì e si può anche acquistare l’olio prodotto nell’agriturismo.

B&b L’Antica Dimora. Siamo a Macchiagodena, all’interno di un palazzetto nobiliare con un bell’affaccio sulla vallata. Stanze dallo stile un po’ barocco, ma ho dormito nel silenzio davvero benissimo e la colazione è sontuosa, con tanto di musica classica. Ottimo prezzo.

Capitolo cibo. Abbiamo spaziato da trattorie sperdute alle due stelle Michelin di Moreno Cedroni, che non ha bisogno di presentazioni (vi rimando al sito, il menù di pesce Mariella è stato straordinario). Dei ristoranti provati ne voglio segnalare alcuni.

L’Arrosteria del vicoletto a Cisternino. Si sceglie la carne in macelleria, che poi viene cotta e servita fra i vicoli bianchissimi. Noi abbiamo assaggiato tre tipi diversi di bombette e le strepitose patate cotte nella cenere.

140 gradi a Locorotondo. Belli i tavoli in strada alle porte del centro storico e gli involtini di diaframma sono stati il piatto migliore mangiato in Puglia. Servizio giovane e preparato, buoni anche i vini. La prossima volta voglio provare anche U’ Curdunn, fra i suggestivi vicoli del centro.

–  L’Aratro, ad Alberobello. Un ristorante storico e freschissimo, che ci ha salvati dalla calura per pranzo (ma mangiate dentro il trullo, non in veranda). Da provare gli antipasti, abbondanti e con prodotti del territorio e tante verdure.

Facce eloquenti

Ricci, pescato e fritto, a Numana. Un’esperienza surreale, così come la coda: circa due ore per un trionfo di pesce fritto, scelto e cotto al momento (fra cui tonno, granchi e baccalà). Avevamo rinunciato, poi siamo tornati sui nostri passi e abbiamo fatto bene: il migliore da anni, forse da sempre (e 15 euro a testa comprese le bevande). Speriamo si organizzino meglio perché è strepitoso.

Libri per neo e future mamme

Viaggi, vini e assaggi. Prima la gravidanza, poi il puerperio avevano messo in stand by i principali argomenti di questo blog. Soprattutto il secondo, in particolare dopo avere fatto la figura dell’alcolizzata con il pediatra che mi ha subito messo in riga: l’allattamento non è cosa da sommelier. E anche sul cibo, la lista di quelli off limits è sterminata. Restavano i viaggi, ma -in questi tempi bui- più che i progetti alimentano i ricordi. Anche perché, il dovere rimandare sogni e voli in questo momento di emergenza è diventato l’ultimo dei problemi (ma non per chi lavora nel turismo, tra l’altro).

Non lo nominerò neanche questo odioso virus che ci tiene lontani dai nostri parenti e amici, ci fa diventare sospettosi pure del postino e che lascia addosso tutto il giorno una cappa di inquietudine, ma mi limito a scrivere di quello che è la mia vita adesso: dopo la gravidanza, l’inizio della maternità. Se le prime settimane mi erano sembrate difficili e aspettavo solo vaccini e primaverili passeggiate all’aria aperta, ancora non sapevo che nel giro di poco avrei dovuto bandire- come tutti- pure quelle.

Le giornate al tempo della reclusione (sole permettendo)

Le giornate al tempo della reclusione (sole permettendo)

E così, appena Mia dorme o mentre la allatto, leggo (e recupero The Leftovers, fantastica). Gli argomenti principali che non siano bollettini e notizie, li potete immaginare: bambini e cose di mamme. Per capirci qualcosa, per ispirarsi, per limitare i danni visto che i neonati sono le creature più straordinarie e imperscrutabili con cui abbia mai avuto a che fare. Che poi, ad essere genitori un po’ più hippy, basterebbe forse solo seguire il flusso. Ma sfido poi io a stare tranquilli con una pandemia fuori dalla porta.

E così, anche se di libri di solito scrivo poco, ne ho comunque macinati di più delle serie tv in questo ultimo anno. E se avete bimbi in arrivo o già in giro per casa, vi consiglio alcune letture, fra acquisti effettuati nel cuore della notte per stare sveglia mentre allatto (regge come scusa il clic facile su Amazon?) e i regali di amiche e sorelle illuminate. Almeno un po’ di tempo, se non altro, ora lo avete.

Ma abbiate pazienza, la lucidità, in questo periodo è quella che è.

Ah no, non c’è Fate la nanna. Non l’ho letto, visto che su questo fronte- ora che l’ho scritto sarò presto punita- fin qui andiamo abbastanza bene.

Il linguaggio segreto dei neonati

Il primo consiglio che do ai neogenitori è di calmarsi. Ci vuole tempo per conoscere il proprio bambino. Ci vogliono pazienza e un’atmosfera tranquilla. Ci vogliono forza e resistenza. Ci vogliono rispetto e gentilezza. Ci vogliono responsabilità e disciplina. Ci vogliono attenzione e capacità di osservazione. Ci vogliono tempo e pratica. Occorre sbagliare molto, prima di fare bene. E bisogna ascoltare il proprio intuito.

Un grande classico (Oscar saggi Mondadori, 2001) di Tracy Hogg con Melinda Blau. E, aggiungo io, il trionfo dell’educazione anglosassone. C’è chi lo ama e chi lo odia, io ritengo invece che sia una lettura utile in molte delle sue parti. In sintesi, l’autrice -esperta puericultirce, denominata ‘la donna che sussurrava ai bambini’ – sostiene l’importanza di far sviluppare un’autonomia ai piccoli, puntando sulla tenerezza certo, ma soprattutto sulla costruzione di una routine fin dai primissimi giorni. Il tutto si sintetizza nel metodo Easy, che sta per Eat, activity, sleep e you, cioè il tempo per te. Tutto molto bello, ma sfido io chi, almeno nei primi mesi, è riuscito ad applicare questa sequenza e far addormentare il figlio nel proprio letto da subito, senza cullarlo o allattarlo.

Il metodo Easy

Il metodo Easy

Mi pare francamente un po’ tutto troppo schematico, anche perché ogni bimbo e genitore sono mondi a sé, ma è certo che nel testo, a leggere bene, abbondano le dritte. Come le tabelle per provare a distinguere i tipi di pianto e per interpretare la gestualità dei neonati, o molte informazioni sull’allattamento (se aspettavo quelle del  mio corso pre-parto stavo fresca), su bagnetto e ruttini. Schemi appunto, assieme ai racconti di tante coppie in cui ci si può facilmente immedesimare. L’importante è non frustrarsi troppo se non tutto risulta così… easy.

Silvia Vegetti Finzi

Non è il nome di un singolo volume, ovviamente, ma dell’autrice di numerosi libri dedicati al mondo della gravidanza, dell’infanzia e dell’adolescenza. E’ una docente di psicologia, già incontrata nei miei studi all’università, e francamente amo tutto quello che esce dalla sua penna. Di sicuro il suo approccio – fra competenze psicanalitiche e citazioni letterarie- è quello che trovo più equilibrato in un mondo, quello dell’infanzia, di cui tutti dicono tutto e il contrario di tutto. Se l’ostetrica dice a, il pediatra dice b. Per ogni sostenitore del ‘co-speeping che poverino ha bisogno del contatto’ c’è chi a un giorno di vita ha già depositato l’infante in camera sua lasciandolo strillare per ore ‘così si abitua al duro mondo che lo attende’. In queste pagine, invece, guidati un po’ dal buon vecchio Freud, abita il buon senso. E una sensibilità materna che sa abbracciare le altre donne (e pure i papà). Queste pagine sono carezze.

In breve, per dirla come Achille Lauro: segnatevi ‘sto nome.

1) L’ospite più atteso (Einaudi, 2017)
Questo libro racconta una storia di maternità per il piacere di narrare e la speranza di aiutare le giovani donne a decidere se e quando diventare madri considerando la gravidanza non un pegno da pagare, ma come tappa fondamentale della vita. Poiché condividere i propri ricordi induce gli altri a fare altrettanto, confido che il filo della memoria che prima di interrompersi ha collegato per secoli generazioni di donne, possa continuare a fluire.

Una lettura commovente in gravidanza e forse ancora di più subito dopo. L’autrice, narrando in terza persona, ripercorre la sua prima -era il ’68 con tutto quello che poteva comportare- guidando ogni donna in questo periodo così intenso, in cui tutto cambia, nella psiche molto prima che nel corpo, e che fa riconnettere con il proprio passato -e il proprio materno- proiettando nel futuro. Un racconto delicato, con molti riferimenti psicanalitici, ma sempre accessibili, di come dal bambino della notte- quello che ha abitato da sempre il nostro inconscio- diventi un bambino reale nel giorno in cui nasce. E un invito a “pensare” la gravidanza, non viverla in sordina, dimenticandola subito.

2) A Piccoli passi. La psicologia dei bambini dall’attesa ai cinque anni (Oscar saggi Mondadori, 1994).

Da una settimana a me e mia sorella: la famiglia si allarga (e le occhiaie mie pure)

La famiglia si allarga (e le occhiaie mie pure)

Qualora esistesse, il genitore perfetto sarebbe dannoso perché non permetterebbe mai al figlio di staccarsi da lui. Accontentiamoci dunque, come suggerisce lo psicologo Donald W.Winnicot, genitori “abbastanza buoni”.

Si parte dalla gravidanza, e dalla donna, e si ripercorrono tutti i temi più importanti dell’infanzia, così decisivi nella creazione della nostra personalità. Silvia Vegetti Finzi, con Anna Maria Battiston, lo fa mettendo in luce “la filigrana dell’inconscio”, rispondendo a domande su sensazioni e situazioni ricorrenti. Dal parto, al sonno, dall’allattamento al ritorno al lavoro, questo libro affronta i temi che riguardano in fondo tutta la famiglia e sarebbe un’ottima lettura anche per i papà. Ecco quindi come prepararsi al distacco, come affrontare tic e incubi o l’approccio al vasino. In queste pagine c’è tutto, sempre spiegato con molta dolcezza, per prepararsi a essere genitori. Avviso però: non è un libro facile da trovare. A me l’ha regalato quella santa donna di mia sorella, ma online si dovrebbe ancora trovare qualche copia.

3) La bambina senza stella, Bur 2015

Come i cuccioli degli animali, anche quelli umani possiedono straordinarie capacità di adattamento e in più, grazie a una fervida immaginazione creativa, possono uscire indenni, come l’araba fenice, da brucianti situazioni esistenziali. Questa convinzione non ci autorizza però a buttarli in mare sperando che la cavino da soli. Ognuno ha il diritto di nascere sotto il segno dell’amore e di essere accompagnato, nel cammino verso la maturità, da adulti attenti e comprensivi. Tuttavia senza rischi non si cresce e chi non ha mai affrontato il dolore non ha potuto produrre anticorpi che difendano da sconforto e disperazione.

Anche in questo libro l’autrice narra in terza persona la sua infanzia, segnata dalle vicende della seconda guerra mondiale e da un temporaneo allontanamento dalla madre in seguito alle leggi razziali (il padre della ‘bambina’ protagonista è ebreo, da qui il riferimento alla stella del titolo). Raccontando gli episodi significativi e rimasti impressi nella su memoria, Vegetti Finzi parte dalla sua esperienza particolare per descrivere meccanismi universali con cui i bambini gestiscono emozioni, trovano soluzioni e superano piccoli e grandi traumi.

Preparati!

In quanto uomini, potreste sentirvi in dovere di affrontare il problema e trovare una soluzione. Quando poi constaterete che i vostri sforzi sono stati vani, in preda all’ansia e alla frustrazione, vi sfiorerà l’idea di pubblicare un annuncio ‘Vendesi neonato’ tra le pagine economiche.

Papà Patrick, detto 'ostetrico' per la grande manualità nel cambio di pannolini e apprezzabili dosi di buon senso

Papà Patrick, detto ‘ostetrico’ per la grande manualità nel cambio di pannolini e apprezzabili dosi di buon senso

Il sottotitolo di questo libro dell’americano Gary Greenberg – con le illustrazioni di Jeannie Hayden (Giunti 2o11) – in realtà è Guida pratica per neopapà. Lo inserisco lo stesso perché è ricco di praticissimi consigli che servono assolutamente anche alle neomamme. A meno che non siate ostetriche o abbiate in famiglia generazioni di donne con della manualità, queste dritte dall’abbigliamento al seggiolino, fino a come cullare il bambino sulla lavatrice, servono pure alle madri che hanno bisogno di fare pratica. E poi c’è un aspetto impagabile: si ride molto e si sdrammatizza in un momento stupendo della vita, ma, diciamolo, fa anche un po’ tremare i polsi.

Quello che le mamme non dicono

Prendete due tizi qualsiasi, di sesso opposto, e buttateli in un salotto alle 5 di mattina. Ci siete? Ok. I due sembrano in stato confusionale. Ballano, cantano canzoni con parole inventate, saltellano sul posto, fanno versi strani, imitano animali saltando fuori dai divani, balbettano. A un certo punto lei si toglie il reggiseno. Potreste pensare che, come minimo, hanno tirato una pista da sci. Nulla di più sbagliato. Stanno semplicemente cercando di addormentare un neonato. 

Continuo con il filone del ‘ridiamoci anche un po’ su’, ma tornando a un punto di vista femminile, quello di Chiara Cecilia Santamaria (molte forse conosceranno già il suo blog). Dal Pampero ai Pampers alla ricerca dell’istinto materno recita la copertina (Best Bur, 2010) del libro. Ecco un racconto ironico, disincantato e onesto di una gravidanza non cercata (o almeno non in quel momento della vita della giovane protagonista), ma in cui in tantissime donne possono identificarsi. Perché l’istinto materno non è per forza qualcosa di immediato, è normale non volere rinunciare alla propria identità, alla propria ‘me’ di prima. O almeno non del tutto. Il divertimento fra le pagine, davvero brillanti, è assicurato. E ci si sente tutte meno sole.

Da dove la vita è perfetta

Lei non lo voleva un bambino. Non l’aveva mai voluto. Però quello lì, che ora nuotava sul lato sinistro dello schermo e compiva una capriola, non era affatto un bambino: era suo figlio.

Apro una parentesi, entrando nel mondo della narrativa. Di romanzi ispirati al tema della maternità ce ne sono moltissimi, ma questo di Silvia Avallone (Rizzoli, 2017), che io ho letto a metà gravidanza, mi ha davvero emozionato ed è sicuramente il più bello letto nel 2019. Siamo nella mia città, Bologna, e si alternano- e intrecciano- storie di donne alle prese con la loro maternità: cercata, negata, accettata. Diverse prospettive e diverse fasce di età, diverse condizioni sociali, un affresco sull’adolescenza (ma non solo) che fa un macerare nella nostalgia, una periferia senza redenzione. Non vado tanto oltre, se no spoilero, ma i personaggi trascinano nel loro mondo. Ed è difficile, alla fine, separarsene.

Non stancarti di andare

Attendere: infinito del verbo amare.

C’è anche un graphic novel. Questo di Teresa Radice e Stefano Turconi (Bao Publishing, 2017) è stata una bellissima scoperta, sia per le illustrazioni che per la storia narrata, in cui si intrecciano una gravidanza, una storia d’amore, la scoperta delle proprie radici e il dramma della guerra in Siria (e non solo). Il libro infatti è dedicato a padre Paolo Dall’Oglio, rapito da anni ormai, che ispira uno dei personaggi. E’ fondamentalmente un libro che parla di amore, a tutti i livelli, della solitudine necessaria per la comprensione di sé e dell’accettazione delle diversità degli altri. Un piccolo gioiello.

Bebè a costo zero

Oggi, dopo aver letto alcuni testi illuminanti, dopo essermi documentata un poco di più sulle esigenze del neonato e, soprattutto, dopo essere diventata mamma per tre volte, mi sento di affermare che quello che serve ‘davvero’ a un bambino sono l’abbraccio amorevole e il seno della mamma. E null’altro.

Next to me sì o no? Al momento gradisce molto di più il gatto di Mia

Next to me sì o no? Al momento gradisce molto di più il gatto di Mia

Non si può fare solo della poesia. I neonati sono tanto belli quanto costosi. E allora a riportarci sulla terra è questo libro di Giorgia Cozza (Il Leone Verde, 2016). Il sottotitolo è Guida al consumo critico per accogliere e accudire al meglio il nostro bambino e tra le pagine si affrontano le tappe principali della gravidanza e del post partum esaminando bisogni e necessità di bambini e genitori e i relativi costi. Pannolini, culle, passeggini: un universo sconfinati di oggetti da valutare per bene. Cosa vi serve davvero? Tanti i consigli per non correre a comprare tutto quello che sul momento sembra indispensabile, soprattutto in un momento storico del nostro pianeta in cui bisogna consumare in modo responsabile. L’autrice spiega dunque perché non è necessario correre subito a comprare bilance e tiralatte e mille giochi, riportando esperienze di mamme e pubblicazioni scientifiche.
Tanti i pregi. Però a volte anche un acquisto non fondamentale può avere un suo significato. Ok, è giusto non spendere soldi nei negozi pre-maman per cose che si indosseranno poche settimane, però anche vestirsi con gli abiti del marito mi sembra un po’ eccessivo. Così come bandire ogni prodotto per le ragadi: nel mio caso francamente il solo latte materno non sarebbe di certo bastato (e ne ho avute poche). Insomma, è un bene farsi prestare tutto il prestabile perché parliamo di oggetti che durano poco tempo, ma quando ti trovi in quel ‘poco tempo’ in quel momento è tutta la tua vita e anche quel piccolo oggetto o quel vestito diventeranno un ricordo prezioso.

Babies

In questi giorni che Netflix è a tutti gli effetti un membro della famiglia, mi sento di consigliare anche questa serie-documentario. Bebè: viaggio nel primo anno di vita (2020) è organizzato in sei puntate che affrontano i temi principali sotto la lente di recenti studi scientifici. Affetto, prime pappe, a gattoni, le prime parole, a nanna, i primi passi. Sono gli argomenti trattati in ogni puntata, della durata di circa un’ora.

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Il mio decennio e il mio regalo del 2020

E’ la fine dell’anno, anzi del decennio. Me lo ricordano tutti. Tutti i siti, tutti i giornali, riavvolgendo il nastro con fatti di cronaca e personaggi, classifiche musicali, letterarie, cinematografiche (a proposito: il mio film preferito è stato La La Land, i miei libri preferiti Open e Le otto montagne, la musica invece è un pianto, ridateci il rock). E in queste ultime ore del 2019 – mentre sono bloccata sul divano dalla sciatica – mi sfilano sotto il naso questi dieci anni, con tutto quello di incredibile che è successo.

Sono arrivati i ‘trenta’, se ne è andato un anno di dottorato passato a leggere cartelle cliniche di isteriche e pellagrosi. Ci sono stati i primi contratti di praticantato in redazione, fino a quello a tempo indeterminato e oggi nel portafogli ho il tesserino da giornalista professionista. Ho vissuto qualche mese a Macerata, ho lavorato fra Imola e Bologna, sono diventata sommelier Ais. Ho viaggiato ogni volta che ho potuto e ho scoperto che i confini abitano solo nella nostra mente; ho aperto un blog – un po’ scalcagnato, ma resiste – per raccontare quei pezzi di mondo e quanto mi diverto a degustare e visitare cantine. Ho contribuito a scrivere una piccola guida sul Giappone, il Paese che, assieme alla Grecia, ho visitato di più. Ho traslocato due volte, ho acceso un mutuo per comprare una casa, abbiamo venduto quella di famiglia (il gatto invece è sempre quello). Ho lasciato l’amato quartiere Saragozza e sono andata a vivere fuori Bologna (!), inseguendo il verde e una casa di campagna perduta. Alcuni amici li ho persi di vista, ne sono arrivati di nuovi. Sono diventata zia e madrina. Mi sono sposata e ora aspetto una bambina.

Tredici settimane ad Amorgos

Tredici settimane ad Amorgos

Eccola la fine del mio decennio, un lungo percorso che mi ha portato fino a qui, a diventare mamma. Ci ho messo un po’ a imboccare questa strada, dopo che la mia, di mamma, l’ho persa nella decade precedente e prima dovevo ritrovare un po’ la figlia. E ora tutto cambierà un’altra volta con l’arrivo di Mia, attesa a brevissimo. E’ vero che questo è un blog di viaggi e assaggi, ma faccio fatica  a immaginare un viaggio più incredibile di questo. E poi mi sono accorta di essere incinta durante una vacanza, appena atterrata a Cipro.

Non so dire esattamente quando si diventa madri. Non è solo quando vedi la seconda lineetta comparire sul test di gravidanza. Nel mio caso dentro una finestrella a forma di cuoricino. Inizia prima, da qualche parte dentro la testa, dentro la pancia, quando comincia a strisciare un pensiero: in due è bellissimo, ma manca qualcosa. I figli degli altri fanno ancora abbastanza terrore (anzi in realtà spaventano i genitori forse), ma inizi a intravedere il tuo, quello che la psicologa Silvia Vegetti Finzi chiama ‘il bambino della notte’. E’ un bambino immaginato, dai contorni sfuocati, a lungo sedimentato, che ti porti dietro da sempre nei tuoi pensieri, fino a quando inizi ad essere curiosa di conoscerlo. All’improvviso cominci a vedere intorno a te solo gente incinta, a programmare ai viaggi con il calendario sotto mano. Ma è inutile, perché tanto, se succede, succede in modo imprevedibile.

La sorpresa a Cipro

A me è successo a Cipro, in un bel viaggio con le amiche. Quei giorni di ritardo, la sensazione di avere fatto una serie infinita di addominali (impossibile eh?), la pancia un po’ gonfia. Ma i ciprioti ci vanno giù pesanti con le porzioni a tavola, quindi chissà… Dopo una settimana a cullare quel pensiero, appena scesa dall’aereo sono andata in una farmacia sulla via Emilia per comprare il test. Era il 15 maggio. Di quella giornata, iniziata all’alba a Larnaka, ricordo che pioveva a dirotto, un’esplosione di felicità, un sonno incredibile e il primo festeggiamento analcolico al ristorante cinese.

A Cipro, cinque settimane

A Cipro, cinque settimane

Non so bene quando si diventa madri. Ma di certo tutto cambia quando vedi quel puntino per la prima volta, una specie di pupazzetto di neve, che galleggia nella sua stanza scura, da qualche parte dentro di te. La prima ecografia è qualcosa di miracoloso e poco importa se il resto della giornata lo passi con la testa infilata nel water, ovunque tu sia: è tutto vero, quel bambino esiste, non si tratta solo di valori delle beta ed esami del sangue. E’ un privilegio, l’avventura è iniziata. E’ iniziata l’attesa, che il corpo cambi, che la pancia cresca, che i test diagnostici vadano bene, di sentire i primi movimenti. E’ iniziata la felicità, ma anche una paura pazzesca.

Io me la porto sempre dietro, quella paura sottile che qualcosa vada storto. Lo spirito di tragedia, ci scherziamo su con Patrick prima di ogni viaggio: non sia mai che sono felice fino in fondo. Che poi gli dei puniscono, come ci insegnavano al liceo nelle lezioni di greco. L’attesa si è portata dietro anche questo, la nausea è passata, sono sorte altre difficoltà, ma mai tante quanto le emozioni. Io ho smesso di lavorare un po’ prima rispetto a quello che avevo previsto ed è stato strano ritrovarsi il tempo fra le mani, per prendermi cura di me. Anzi di noi. Frequenti corsi popolati solo da donne, si aprono squarci su altre vite. Dopo un decennio passato fuori casa, di cene alle 11 di sera, di giorni festivi lavorati, a tratti torna l’inquietudine della noia, quella che ti assaliva nelle lunghe vacanze estive quando eri alle medie, e ti ritrovi al cinema alle quattro del pomeriggio con i pensionati. E’ un tempo di nuova solitudine la (prima) gravidanza, ma anche di grandi e preziosi affetti.

Il mondo diviso a metà

Il mondo si divide a metà. Da una parte le amiche che ci sono già passate e quelle che stanno vivendo il tuo stesso percorso e le tue ansie, ma anche altre sono comunque presenti, con discrezione, anche senza dover parlare per forza di morfologica e acido folico. Spesso è bastato un passaggio in auto, una telefonata, un ‘come stai’, un invito a prendere un caffè, la premura dei colleghi. C’è anche chi mi ha sognata, intuendo in questo mondo parallelo la mia gravidanza. Spesso si è composta una circolarità di affetti tutta femminile. Mia sorella, ad esempio, lo ha saputo prima di me che da Cipro saremmo tornati in due.

Compagne di viaggio

Altre persone invece evaporano, spariscono. Alcune provano evidentemente un piacere sottile nel raccontarti ogni tipo di tragedia su travagli e bambini piccoli. Racconti che vomiti tre volte al giorno? Quelle persone – giusto per tranquillizzarti- ti assicurano  che hanno avuto la nausea fino al parto e magari pure dopo. Altre ti toccano la pancia ogni due per tre, senza chiederlo, ma nel frattempo si sono già scatenati quelli che devono commentare tutto. La domanda più gettonata è “quanto chili hai preso”. Come se normalmente uno andasse in giro a chiedere alla gente come è andato l’ultimo incontro ravvicinato con la bilancia. Comunque, per la cronaca: ne ho presi dieci, al netto del Natale però.

Val di Fassa

Poi c’è tutto il gruppo di chi ti vede pallida – sai com’è, l’emoglobina è in caduta libera- o di chi pensa che tu abbia la pancia piccola: visto che non ti sei ancora inquartata (sai com’è, con le temperature agostane in uno degli anni più caldi di sempre magari non ti sei proprio sfondata di cibo), ti devono trovare un problema. E giù nuove ansie. Non manca mai poi chi ti ricorda di dormire e fare cose per te ora perché poi, è certo, non succederà mai più. Il sottogruppo della serie ‘La tua vita è finita’ è rappresentato da chi ti ammonisce sulle difficoltà che incontrerai nel continuare a viaggiare.  Vedrai, dopo. E da qualche parte, dentro di te, si risveglia lo spirito da Erode (io per non saper né leggere né scrivere ho comprato l’unico passeggino che entra in una cappelliera d’aereo).

Quando poi arriva il fatidico momento – quello in cui scopri che la bimba è ancora podalica in una settimana in cui dovrebbe avere fatto un tuffo di testa già da un bel pezzo- ecco che entra in scena chi ti liquida con un “beh, ma meglio che fai il cesareo”. E giù una bella colata di asfalto su immaginario, aspettative e sensazioni maturate in otto mesi. Che poi alla fine della fiera possa essere anche vero non è il punto della questione, ma diciamo che essere tagliata e ricucita come il lupo di Cappuccetto rosso non è che sia poi tutto questo pensiero allettante. Ma intanto c’è già chi ti guarda come una sventurata davanti a questo parto ulteriormente medicalizzato e invoca moxa e agopuntura. E allora corri a fare sedute, incastri nuovi appuntamenti, spendi altri soldi, perché se no, a non provarci neppure, ti senti in colpa. E già ti senti quella strana, quella che magari ha qualche problema con la figlia che fa già di testa sua.

Casa Lswrence, val di Comino. Secondo trimestre

Casa Lawrence, val di Comino. Secondo trimestre

Ma una delle lezioni più belle della gravidanza è questa: non puoi controllare tutto, non pianifichi più tutto. Puoi tenere testa al toxoplasma mettendo al bando cibi deliziosi- hai mangiato in villaggi tribali in India, nella giungla laotiana, hai sempre avuto gatti, ma niente, sarai per nove mesi ‘toxorecettiva’ – ti riempi casa di Amuchina, fai prelievi tutte le settimane, una mattina ti bevi pure una bottiglietta di glucosio perché hai superato i 35 anni e non si sa mai, il diabete. Però arrivi dove arrivi e ti devi solo affidare alla vita che batte dentro di te. La piccola non si gira? Forse doveva andare così per un motivo e amen.

Di questi mesi ricorderò anche tutte le persone in fila al supermercato, in posta, al patronato, sull’autobus che non ci hanno pensato neppure un secondo a farmi passare avanti. I veneziani e i turisti sul vaporetto in questo invece sono stati eccezionali. Ricorderò la rabbia e la frustrazione al telefono con l’Inps e la dottoressa che rogna perché chiedo un certificato in un consultorio in via Toscana invece che a San Lazzaro. Credo di averle sottratto forse tre minuti. Donne tremende, ma anche adorabili, come la fruttivendola che mi ha sempre portato la cassetta di verdure in macchina. La ginecologa, un angelo (di nome e di fatto). L’insegnante di yoga, dolcissima.

A Venezia, sesto mese

Un viaggio dentro di sé e nel mondo

Sono nove mesi incredibili quelli della gravidanza. Un viaggio dentro se stessi e anche un po’ nel mondo. Mi piace pensare di avere già portato Mia in Liguria, dalla stupenda Silvia e ad Amorgos, la mia isola greca del cuore dove io e il suo papà abbiamo deciso di sposarci. Siamo tornati con i nostri amici-famiglia Paola e Gianni, nella stessa taverna a mangiare la stessa moussaka nello stesso giorno, il 14 luglio. E’ stata con noi a Venezia, a vedere film mediamente orrendi (ma il festival del Cinema in effetti temo che sarà davvero da congelare per un po’), fra i borghi del Lazio e in montagna, nella magia autunnale della Val di Fassa. E’ stato un anno di ritorni e viaggi pensati diversamente, ma ci sono stati e va bene così.

C’è bisogno di delicatezza in questi nove mesi, di non essere rinchiuse in stereotipi e banalità. E vi prego, non usate la parola panza: è orribile. Anche se diventare la casa di qualcuno per quasi un anno sarà stata la cosa più bella, importante e creativa che mai potrò fare, non c’è niente di radioso nel sentirsi la gastroenterite in corpo per settimane ed essere possedute dalla sciatica. Alcune mamme mi hanno detto che la gravidanza è stata orribile, che non vedevano l’ora che finisse, perché devi stare attenta a tutto quello che fai e mangi. Per me è stato un dono, ma non siamo tutte uguali, non tutti i giorni sono uguali.

C’è chi visita tutti i punti nascita controllando dove sono collocati i bocchettoni dell’ossigeno e chi vuole partorire in acqua e portarsi a casa il bimbo attaccato alla placenta. C’è chi si ritrova a casa subito e chi lavora fino all’ultimo secondo, perché preferisce così o perché non ha alternative. O il contratto giusto. C’è bisogno di uomini presenti e parenti di buon senso (anche l’ordine degli addendi invertito va bene). C’è bisogno di empatia, di giorni in cui non succede nulla, per ascoltare quei piccoli movimenti, per stare in contatto, per elaborare che si è in due, che una fase è passata per sempre.

Eccola qui, la fine del mio decennio, lo chiudo con gratitudine. Ecco l’inizio di una nuova vita. Andiamo a vedere com’è.

Cosa vedere ad Hakone

Una montagna-simbolo, una antica strada su cui è ancora possibile camminare all’ombra di altissimi cedri come i viaggiatori di tempi passati, un volo sulla bocca di un vulcano, un onsen bollente. E la lista potrebbe continuare. C’è un luogo in Giappone in cui sembra che si siano concentrate tutte le cose che amo di questo Paese, dai paesaggi estremi, al ramen fumante, ai santuari nella natura: Hakone. L’ho visitata solo nel mio quinto viaggio e mi sono davvero chiesta perché ho aspettato tanto. Ora, scrivere di Giappone con Patrick in giro per casa è sempre un azzardo, ma questa località turistica- soprattutto d’estate lo è molto-, vale il tentativo. Così come una tappa qui  sul confine del Kanto, a meno di cento chilometri di distanza da Tokyo, ma in un’atmosfera lontanissima dalla tentacolare capitale.

Il lago di Hakone

Ecco qualche motivo per cui vale la pena di inserire questa tappa in un viaggio.

1- La vista (si spera) del monte Fuji

E’ la star di ogni viaggio in Giappone. Si cerca di cogliere il profilo della montagna sacra mentre si è lanciati a tutta velocità sullo shinkansen fra Tokyo e Kyoto. Una volta, tornando dal Kyushu, una hostess ci ha indicato la cima tronca imbiancata: sto parlando del monte Fuji e Hakone, località spalmata sul lago Ashi, è uno dei luoghi in cui si viene ad avvistarlo. E spesso (a meno che non ci sia la foschia estiva), ci si riesce, vista la posizione privilegiata.

Molti degli hotel qui hanno un osservatorio speciale, una specie di cubo sul tetto, da cui contemplare il vulcano. Noi, ad esempio, ci siamo riusciti bene dall’osservatorio dell’Hotel De Yama e, come sempre in Giappone, la contemplazione della natura regala emozioni profonde. Detto questo, le nuvole possono giocare presto brutti scherzi e nel giro di qualche minuto capita che l’incanto sia finito: da un momento all’altro il Fuji, sempre come le star, si nasconde. Ed è qui che si passa al piano B, l’onsen.

Il Fuji da Moto-Hakone

2) Gli Onsen

Come ho detto altre volte, per me valgono il viaggio in Giappone, soprattutto se – come nel nostro caso lo scorso marzo- fa ancora molto freddo. Hakone si trova in una zona geotermale, quindi sono davvero tante le strutture cui rivolgersi. Per provare l’esperienza di un onsen privato, la tappa d’obbligo è ad Hakone Yuryo, stabilimento termale raggiungibile con una navetta gratuita dalla stazione. Il complesso è davvero bello, con un ottimo ristorante tra l’altro, e gli onsen privati, con vasca all’esterno in mezzo alla natura sono fra i più belli che ho provato (e la temperatura dell’acqua non è infernale).

Il nostro onsen privato

Il nostro onsen privato

Gli onsen si trovano spesso all’interno anche degli alberghi- come l’Hotel De Yama già citato (ma i tatuaggi qui sono vietati eh) o in tanti punti dell’area: noi ne abbiamo provato uno spartano, ma verace, poco fuori dalla funivia (sì, c’è un vasto collegamento, sotto spiego perché), alla stazione di Sounzan. Da Yamadaya siamo riusciti a entrare un’ora senza prenotare, ma l’acqua era davvero bollente!

3) La bocca del vulcano

Gli appassionati di vulcani ad Hakone troveranno il loro angolo di paradiso, anche se l’immagine è più che altro… infernale. Tutta la zona è molto attiva dal punto di vista geotermale ed è possibile sorvolare Owakudani (la grande valle ribollente) da una panoramica funivia, che parte dalla località di Togendai. Come dicevo, l’area di Hakone è molto vasta e noi siamo arrivati fin qui navigando sul lago Ashi a bordo di una nave pirata! Siamo pur sempre in Giappone e non mi stupisco più di niente.

La funivia

In funivia, verso il cratere

Ma eravamo rimasti al vulcano. Quando i vapori e i gas sprigionati dalla pancia della terra hanno valori sotto controllo, si può arrivare fino in cima e sorvolare tutto il cratere, con i suoi colori giallo-verdastri e un’atmosfera da Il Signore degli Anelli. Presente quando escono i guerrieri hurak-hai dal sottosuolo? Ecco, l’idea (un po’ meno spaventosa, tranquilli) è quella. Un altro must del posto è l’assaggio delle uova nere (il colore è dato dall’acqua termale), che qui pare allunghino la vita: si mangiano dal sacchetto manco fossero popcorn. Se non ne avete ancora abbastanza, fate come noi: fermatevi a mangiare pure il ramen, ovviamente con i tagliolini neri.

4) L’antica Tokaido

Non è facile trovare testimonianze antiche in Giappone, figuriamoci le strade. Ma, anche se non sarà spettacolare come il tratto di Nakasendo fra Magomè e Tsumago, anche ad Hakone si può percorrere un tratto dell’antica Tokaido, una delle strade che collegavano Tokyo e Kyoto durante il periodo Edo. E’ bello immaginarsi i viandanti, con i loro cappelli a cono, che viaggiavano all’ombra di questi alberi secolari e per un po’ lo si fa ancora oggi fino al check point, completamente ricostruito nel 2007. La visita al museo è interessante, per le ricostruzioni della dura vita al tempo: mettersi in viaggio non era di certo troppo facile.

Il check point

Il check point

5) Il sacro nella natura

Nonostante i negozietti e l’atmosfera turistica, anche ad Hakone basta poco per ritrovarsi in un bosco a contatto con con lo spirito, anzi gli spiriti scintoisti – i kamii– del luogo. Una bella tappa è il santuario di Hakone, nascosto fra gli alberi, con le sue lanterne. In realtà la sua presenza è annunciata da un romantico torii rosso sul lago, che prelude allo spazio sacro. Noi lo abbiamo trovato in restauro, circondato da impalcature, pazienza!

L'ingresso nell'Hakone Shrine

L’ingresso nel santuario di Hakone

Hakone: come arrivare e spostarsi

Hakone è facilmente raggiungibile in treno da Tokyo con la linea Odakyu. Dalla stazione di Shinjuku si può prendere il treno diretto che impiega 85 minuti, oppure si cambia a Odawara e a quel punto il viaggio dura circa 2 ore. Il consiglio è di acquistare l’Hakone Free Pass, valido due o tre giorni. Quello più usato, da due giorni, costa 5700 yen con andata e ritorno da Shinjuku e 4600 yen da Odawara. Con il pass si può accedere ai diversi mezzi di trasporto locali, dalla nave pirata per navigare sul lago, alla ropeway.

In ogni caso è molto importante verificare sul posto se la funivia è attiva: tutto dipende dai gas che si sprigionano nell’area e le condizioni possono cambiare anche durante la stessa giornata.

Un altro servizio molto utile che si può richiedere sul posto è il servizio di trasferimento bagagli, da considerare se si ha poco tempo a disposizione, perché consente di trovare le valigie direttamente in albergo. Arrivando ad Hakone Yumoto entro le 12.30, ad esempio, i bagagli saranno trasferiti per 800 yen a pezzo. Tutte le località principali dell’area di Hakone, poi, sono collegate con un sistema di bus indicati da diversi colori (le mappe si trovano un po’ dappertutto).

Il treno per Odawara

Nel post ho indicato i motivi principali per visitare Hakone in base alla mia esperienza di una giornata, ma ovviamente le cose da fare e vedere sono molte di più. Giusto per fare qualche esempio: l’Hakone Museum of Art, a Gora, immerso in un suggestivo giardino, o il Gora Park, un altro giardino, ma questa volta in stile occidentale.

Una settimana a Cipro

E’ un viaggio di maggio, è vero, ma questa estate mi è decisamente scappata di mano (e leggendo si capisce anche perché). Così, dopo essermi imbattuta nella prima foglia gialla in giardino, ho pensato che fosse meglio darsi una mossa e scrivere qualcosa della mia settimana a Cipro, che una puntatina autunnale se la merita. Anche perché nel pieno dell’estate credo che raggiunga livelli di calore inimmaginabili. Ok, sto esagerando, però Nicosia ad agosto è realmente una delle città più calde d’Europa, quindi perché non  ripiegare su settembre/ottobre?

Lo dico subito: chi ha già visitato, e amato, la Turchia e la Grecia, troverà tanto di entrambi questi due mondi, ma forse non abbastanza di nessuno dei due. L’identità un po’ sfugge, soprattutto sulla costa, dove – al netto di un mare stupendo e del tsatziki in ogni menù come nelle tipiche taverne greche- alcune località sono soprattutto una distesa di alberghi, pub e musica sparata in spiaggia. Si sta benissimo, ma potremmo essere in qualunque punto del Mediterraneo.

Antica Kourion

D’altra parte, proprio la mescolanza continua rende interessante il viaggio, che è davvero molto denso, tanto che ogni giorno ci si stupisce nel vedere cose così diverse, soprattutto dal punto di vista culturale. A partire dai siti archeologici romani, non sempre in buone condizioni, ma unici, al mondo ovattato dei monti Troodos, che custodiscono chiesette bizantine, le vere gemme dell’isola. Poi, certo, c’è il mare. Che, se devo essere sincera, non è il primo motivo per cui verrei fin qui, anche se sulla bellezza dell’acqua non si discute.

Infine, per me resterà sempre un viaggio unico e non solo per la straordinaria compagnia (il team rodato del viaggio in Giordania), ma perché sono partita da sola e… sono tornata in due. Già, quella sensazione di avere un ferro da stiro nello stomaco che avevo dopo la prima cena a Larnaka non era dovuta (solo) ai quantitativi spropositati di cibo o alla stanchezza del viaggio, ma al fatto che ero incinta. Il sospetto che si è insinuato giorno dopo giorno mentre giravamo per l’isola in lungo e in largo ha poi trovato conferma una volta tornata in Italia, quindi… di certo Cipro per me avrà sempre un significato speciale (e, future mamme, posso assicurare questo è un viaggio alla portata di tutti!). E’ come se quest’isola mi abbia fatto un regalo e siamo entrate in sintonia benissimo.

Ma, dopo il momento coming out, vediamo un po’ cosa si fa a Cipro.

Cipro: Grecia, Turchia o cosa?

Buona domanda, perché perfino un’amante dei posti di confine come me, raramente ha mai visto un luogo – per lo meno nel nostro Mediterraneo- così ricco di incroci. Circa due terzi dell’isola rientrano nella Repubblica di Cipro (membro dell’UE, vi abita la comunità greco-cipriota), mentre la parte restante è la Repubblica Turca di Cipro del Nord (comunità turco-cipriota). Il Paese è ancora diviso in due e la capitale Nicosia (o Lefkosia a seconda del lato in cui vi trovate) è l’ultima in Europa ad essere ancora tagliata a metà da un muro lungo la linea verde (green line), tracciata nel 1964 con l’acuirsi dei conflitti. Per andare da una parte dall’altra si oltrepassa ancora una dogana, con tanto di documento da esibire.

Un tratto di muro a Nicosia

Un tratto di muro a Nicosia

Ma i confini sfumano continuamente durante il viaggio. Nelle chiese gotiche diventate moschee, nel cibo dai sapori così simili, sul fondo della tazza del caffè. Di qua è caffè cipriota, un chilometro più in là è caffè turco. E se sbagli alzano ben più di un sopracciglio, seppur con gentilezza.

Ma per forza. Quello che al visitatore sembra un aspetto curioso, questo passare di qua e di là da un muro, è lo strascico di anni di guerra, scontri, dolorose separazioni familiari, case lasciate dall’altra parte. Ci sono persone che dal 1974, anno dell’occupazione militare turca, non hanno più oltrepassato i varchi, aperti per la prima volta nel 2003. E intanto – in quella che è la terza isola per dimensioni nel Mediterraneo – la quadra non si trova mai per superare una separazione che si traduce anche in differenze evidenti nei due lati del Paese: basta fare un giro nei vicoli della capitale per notare come cambiano le condizioni di vita. La Repubblica Turca di Cipro, inoltre, è un vero paradosso, perché non è riconosciuta dalla Comunità internazionale se non dalla Turchia, di cui però sembra solo un’appendice.

Per non dilungarmi troppo, se volete capire qualcosa di più di cosa implica questa separazione continua nella vita quotidiana, consiglio questo film: Torna a casa Jimi: dieci cose da non fare quando perdi un cane a Cipro di Marios Piperides.

Organizzazione del viaggio a Cipro

Siamo partite nella prima metà di maggio. I voli da Bologna non sono ancora così frequenti e per raggiungere Larnaka, a sud-est, abbiamo dovuto fare scalo ad Atene, con orari scomodissimi: siamo arrivate di sera e ripartite all’alba, con la compagnia Aegean. Da altre città come Milano, comunque, dovrebbe esserci il diretto per Pafos, a ovest. Appena sbarcate abbiamo ritirato in aeroporto l’auto a noleggio, il mezzo migliore per spostarsi sull’isola (66 euro a testa con assicurazione totale).

La formazione al completo

Con due avvertenze: la prima è che si guida (dannazione, pure qui) a destra e la seconda è che non si è coperti da assicurazione quando si entra nella parte turca (vista a tutti gli effetti come territorio occupato e, come dicevo, non riconosciuta a livello internazionale). Come fare dunque? Prima strada, se si viaggia per più giorni nel nord: al confine si acquista direttamente un’ulteriore assicurazione. Seconda strada, che consiglio a chi fa solo la classica giornata a Famagosta e Salamina come noi: noleggiare un taxi con autista. In quattro devo dire che è abbastanza conveniente (4o euro a testa circa). Ci siamo accordate direttamente a Protaras dove soggiornavamo, ma magari chiedete prima che auto sarà, visto che ci siamo trovate a spostarci in una sobria… limousine!

L’itinerario di una settimana

Abbiamo cercato di unire la parte archeologica sulla costa sud a un paio di giorni di relax al mare, passando per due delle tappe secondo me imperdibili del viaggio: la capitale Nicosia e i monti Troodos. Ne è uscito un buon mix, sacrificando però la parte turca a nord (per includere anche quella vanno messi in conto dieci giorni).

Giorno 1- Larnaka

Come dicevo, siamo arrivate la sera, giusto in tempo per familiarizzare con la malefica guida al contrario (sempre sante le due di noi che si sono immolate) e perderci sette volte nel minuscolo centro della città: va detto che il nostro appartamento era dentro il complesso di edifici più assurdo da immaginare. Palazzoni, buio e scale cieche, per quanto a un passo dalla Marina, ma abbiamo poi capito che in questa città è normale (dentro comunque era bellissimo, lo consiglio). Abbiamo chiuso in bellezza con la cena in una dimora storica stupenda rischiando la lavanda gastrica viste le quantità di meze e camminato fino alla suggestiva chiesa di San Lazzaro.  Il lungomare di Larnaka è un p0′ il classico posto di villeggiatura che a noi fa tanto ‘inglesi in vacanza’, con una fila di alberghi, ristoranti e pub, ma le viuzze del centro, all’ombra di campanili  e minareti, valgono davvero una sosta.

La chiesa di San Lazzaro a Larnaka, Cipro

La chiesa di San Lazzaro a Larnaka

La marina di Larnaka

La marina di Larnaka

Il ristorante To Arxontikon

Il ristorante To Arxontikon

Giorno 2- Da Larnaka a Pafos

Questa è stata un po’ la giornata-Indiana Jones, dedicata all’archeologia. Abbiamo puntato l’auto verso ovest lungo la costa: strada bella, ma occhio al pedale. Nel giro di un’ora, infatti, avevamo rimediato una multa per eccesso di velocità. Veramente di poco, in realtà, tanto che era dispiaciuto pure il poliziotto. Comunque siamo arrivate fino all‘Antica Kourion, sito con testimonianze romane e un bel teatro sul mare. E’ davvero suggestivo, fra quello che resta di colonne, case e mosaici, ma soprattutto per la distesa azzurra che si spalanca al di sotto.

L'antica Kourion

L’antica Kourion

Dopo una pausa alla famosa spiaggia di Afrodite (Petra Tou Romiou)- questa è l’isola in cui è nata vi ricordate? – siamo arrivate a Pafos. Si tratta di un’altra località turistica invasa dagli alberghi e resort, ma il Parco Archeologico di Nea Pafos merita la visita, soprattutto per i mosaici. Lo stesso vale per le Tombe dei Ress, sito Unesco poco distante. In realtà i re non c’entrano molto e si visitano tombe ipogee di epoca ellenistica e romana molto suggestive, per quanto non proprio in ottime condizioni. Ma il sito colorato dai fiori selvatici, che fioriscono proprio a maggio, è stato uno dei ricordi più belli del nostro viaggio. A detta di tutte.

La spiaggia di Afrodite

I siti fioriti a maggio

Le tombe dei re a Pafos

Le tombe dei re a Pafos

Giorno 3- Monti Troodos

Molti non li includono in un viaggio di una settimana a Cipro, ma mi sembrano fondamentali per cogliere meglio l’essenza dell’isola. Queste località di montagna (d’inverno sul monte Olimpo si scia), infatti, sono punteggiate di moltissime chiesette bizantine, di cui una decina dichiarate Patrimonio Unesco. Bisogna di armarsi di un po’ di pazienza per trovarle, fra boschi e tornanti, ma custodiscono affreschi, dall’XI al XVI secolo, davvero emozionanti.

I monti Troodos

A volte sono chiuse, ma quasi sempre è indicato sulla porta il numero di telefono di un custode che arriverà ad aprirvi. In un mondo diviso fra minareti e chiese ortodosse, queste antiche chiese- un po’ così come i siti archeologici sul mare- sembrano il filo che tiene assieme tutto, una trama comune in questa strana Europa tagliata a metà.

La chiesa di Moutulla

Aggiungo un dettaglio, questa è la zona di Cipro nota per la preduzione di vino, particolarmente antica (è iniziata 6mila anni fa). Sono molte le cantine che si possono visitare in zona, ma – alla luce anche della mia momentanea astinenza da alcol – ho rimandato questo aspetto alla prossima volta.

Giorno 4- Nicosia

Scendendo dai monti, che lentamente lasciano il posto a distese agricole, si arriva a Nicosia, città un po’ sgaruppata, ma piacevole, con i suoi vicoli e le piazzette animate. Noi abbiamo alloggiato nel centro storico dal lato ‘greco’, punto perfetto per iniziare l’esplorazione a piedi. In fondo alla strada principale dello shopping si trova uno dei border (sempre aperti, noi siamo entrate da Ledra Street) e si inizia a vedere la buffer zone, una terra di mezzo, fra case disabitate.

Il centro di Nicosia

Il centro di Nicosia

La parte turca di Nicosia

Una strada di Lefkosia

Una strada di Lefkosia

Il muro a volte si vede bene, a volte si perde fra i palazzi, altre volte si vedono solo cancelli chiusi o bidoni allineati. Nella maggior parte dei casi non abbiamo visto tanti militari nei check point, ma è comunque meglio non esagerare con le scuriosate. Suggestivo l’ingresso nella parte turca, visto che si è subito accolti dal classico bazar. Da non perdere poi sono la Moschea di Selimiye- che se non fosse per i due minareti aggiunti, ricorda ancora chiaramente una chiesa gotica – che il caravanserraglio Buyuk Han, in cui sostare per un caffè.

Giorno 5: Protaras e la costa est

E’ uno dei punti più adatti alla vita da spiaggia in un tratto di costa che, va detto, stupisce per la trasparenza dell’acqua. E il gelo, ma a maggio ce lo aspettavamo, per quanto russi e inglesi fossero già perfettamente a loro agio. Dopo le emozioni dei giorni precedenti, qui si apprezza il relax e la comodità della villeggiatura, tipo la mia Riviera romagnola, scegliendo una delle tante sistemazioni fra le distese di villette, appartamenti e alberghi mastodontici. E ristoranti di ogni tipo, dal pub inglese a forma di sfinge, all’immancabile ristorante italiano. Noi abbiamo trovato il nostro angolo di pesce (e quiete) in un locale su una spiaggetta, il Kalamies (e ottima carta dei vini, prendete nota).

La spiaggia di Protaras

In una settimana a Cipro non perderei Protaras

In una settimana a Cipro non perderei Protaras

Giorno 6: Famagosta e Antica Salamina

Siamo tornate dunque a Cipro Nord in taxi, che poi come dicevo si è rivelato una limousine, giusto per non dare nell’occhio fra le strette strade di Famagosta (Gazimağusa), città fortificata che ci ha conquistate. Per le sue piazze piene di rondini, per i ruderi delle antiche chiese, l’atmosfera decadente e il ritmo lento. E ovviamente per l’ex cattedrale gotica di San Nicola, anche in questo caso trasformata nella moschea Lala Mustafa Paşa Cami.

Il vasto sito archeologico dell’Antica Salamina, invece, è un po’ più deludente: la posizione sul mare e in mezzo alla natura è sempre suggestiva, ed è molto bello anche il teatro, ma tutta l’area è lasciata un po’ allo stato brado e i cartelli andrebbero rivisti. Peccato. La ‘gita’ comprendeva anche la visita alla chiesa dell’Aposto Barnaba, sperduta nella campagna e risparmiata dalle autorità turche e trasformata in museo.

Famagosta

Famagosta

Antica Salamina

Antica Salamina

Giorno 7- Agia Napa

Abbiamo concluso il viaggio in una delle località più famose sulla costa sud, Agia Napa, sulla strada prima di tornare verso Larnaka per l’ultima notte. Valgono le stesse impressioni di Protaras, ma qui la distesa di alberghi è ancor superiore: arrivate presto perché gli ombrelloni negli stabilimenti finiscono in fretta e già a maggio era dura stare sotto il sole. Noi abbiamo scelto la spiaggia di Nissi: sabbia bianca, acqua cristallina e musica ovunque. In questa terra di miti, vedere un gruppo di turisti belli sbronzi a bordo di un unicorno gigante faceva un certo effetto. Ma anche qusto è Cipro, e l’utimo tuffo prima di tornare nel maggio terribile che ci aspettava in Italia ce lo siamo goduto tutto.

Agia Napa

Qualche indirizzo/info utile (random)

Qualcuno l’ho già inserito nel testo, altri li aggiungo qui. Sul capitolo cibo, ricordatevi sempre che le porzioni a Cipro sono enormi. Spesso i camerieri ci hanno avvertito del fatto che “per essere donne” quel cibo era troppo. Ora, noi avevamo una certa reputazione da mantenere e piuttosto che dare loro ragione saremmo morte a tavola, ma in effetti il concetto di antipasti è davvero sterminato. Noi abbiamo mangiato solo nella parte greca, dove tornano i piatti più cari: moussaka, insalata greca, formaggio alla piastra (divino l’alloumi), souvlaki e salse di accompagnamento. Sulla costa, invece, si trova anche tanto pesce, con ricette un po’ più forse legate al turismo inglese (ad esempio le salse o burro all’aglio).

Per assaggiare una cucina tradizionale buonissima, a Larnaka consiglio To Arxontikon, in una bellissima dimora storica sul Lungomare. Per una location più informale, ottima anche la cucina casalinga di Stou Rousia, in un vivace vicolo del centro storico.

Sui Monti Troodos, invece, abbiamo davvero amato l’Ambelikos Agrohotel, a Potamitissa. E’ un po’ imbucato, ma si viene ripagati dal bel patio in cui bere il vino della casa, dalle stanze tradizionali (era la casa di famiglia del proprietario), con camini e arredi storici, dalla compagnia del ruscello sottostante e soprattutto da una favolosa moussaka appena fatta. La più buona del viaggio.

Infine, nelle località di mare, rinunciate subito a cercare quelle pensioncine greche dai colori pastello cui siamo tanto abituati. La scelta qui è quasi solo fra resort, alberghi o appartamenti, a volte anche molto pacchiani costosi (a differenza del resto della vita sull’isola): a Protatas ci siamo trovate bene nel piccolo appartamento Fig Tree Giannis: carino e in ottima posizione vicino alla spiaggia.

 

Viaggio in Cina: Shanghai e dintorni senza visto

 

Assieme alla mia rubrica post nemici del ‘seo‘ e dei motori di ricerca – in cui racconto trasognati itineari in Italia- ce ne vorrebbe una ‘post su viaggi organizzati all’ultimo in un Paese completamente diverso da quello previsto’. Che è poi quest’ultimo caso: se l’anno scorso volevamo andare in Cina e ci siamo trovati in California, per marzo avevamo puntato le Hawaii e invece siamo finiti in Cina. Per chi non si fermerà qui nella lettura pensando che siamo solo degli squinternati (e poi, ovvio, non è che stiamo parlando di scegliere fra, chessò, Ozzano e San Lazzaro, giusto per citare i primi due posti vicini a casa che mi vengono in mente), provo a raccontare il nostro itinerario di 5 giorni fra Shanghai e ‘dintorni’, anche senza visto, ma con il permesso temporaneo di 144 ore che si può fare direttamente all’aeroporto se si è in transito verso un altro Paese. Che nel nostro caso, manco a dirlo, era il Giappone.

I44 ore di Cina anche senza visto

Ovviamente, prenotando all’ultimo (dieci giorni prima circa), eravamo molto stretti con i tempi del visto, documento da fare in Italia obbligatoriamente prima di ogni viaggio in Cina. E così abbiamo prenotato un aereo per il Giappone, con tappa intermedia a Shanghai e scalo su Pechino al ritorno (a proposito, un volo di questo tipo, comprato con questi tempi, a marzo, è costato 600 euro con Air China). In questo modo, una volta arrivati a Shanghai, abbiamo chiesto un ‘visto temporaneo’ che cambia da regione a regione.

Mi spiego meglio: nel nostro caso, il documento permetteva di visitare Shanghai e altre zone limitrofe, come le province Zhejiang e Jiangsu, dove si trovano Hangzhou e Suzhou. In altre parole, non avremmo potuto, ad esempio, visitare nell’arco di questo viaggio anche una città dello Yunnan o, per dire, la Grande Muraglia. Inoltre, questo visto cambia come caratteristiche da zona a zona. A Chengdu, ad esempio, si può stare 144 ore, ma senza uscire dalla città. Insomma, va verificato per ogni destinazione, ad esempio su questo sito.

Shanghai - giardino del mandarino Yu

Shanghai – giardino del mandarino Yu

Già, ma come si fa? Nel caso di Shanghai, appena sbarcati siamo andati verso lo sportello particolare della Immigration – il numero 1, ma non è detto che sia sempre quello-, dedicato a questo tipo di visto, che è gratuito. In precedenza avevamo già lasciato le impronte digitali alle macchinette automatiche e quando siamo arrivati allo sportello, il poliziotto ci lasciato un foglietto da portare sempre con noi nel passaporto, che va riconsegnato al momento della partenza.

L’itinerario

Ecco qui il nostro itinerario per queste 144 ore di Cina. Gli amanti e conoscitori del Paese si contorceranno sulla sedia a vedere quanto poco tempo abbiamo dedicato a certi posti, ma abbiamo deciso comunque di avere un assaggio di più città e tornando indietro farei la stessa cosa. Anche perché gli spostamenti in treno sono davvero molto veloci e consentono di coprire in pochissimo grandi distanze. Poi, ovvio, Shanghai meritava come minimo un paio di giorni in più. Che dire, speriamo di tornare a completare il quadro.

  • Shanghai
  • Suzhou- Tongli
  • Tongli- Hangzhou
  • Hangzhou e ritorno la sera a Shanghai
  • Shanghai e volo serale per Osaka

Shanghai

Siamo arrivati all’alba e quindi siamo riusciti a prendere il primo treno a levitazione magnetica (Maglev) che dall’areoporto di Pudong porta fino a Longyang Lu (2 biglietti 80 yuan). Da questa stazione abbiamo poi preso una metropolitana fino alla Concessione Francese, dove si trovava il nostro albergo. Devo dire che fin qui l’impatto è stato soft: il treno che tocca i 430 chilometri orari è già un viaggio nel viaggio (si percorrono 40 chilometri in 7 minuti) e la metro, rispetto anche solo a quella di Tokyo per dire) è molto chiara, considerando che le 16 linee servono una città da 25 milioni di abitanti: i biglietti (economici) si comprano in macchinette automatiche con spiegazione in inglese (almeno qui, non sarà altrettanto facile nelle stazioni ferroviarie).

Il giardino Yu

La zona della Concessione francese è particolarmente bella, alberata, con case dagli stili un po’ disparati, ma dallo stampo europeo: non a caso in questa parte della città vivono molti stranieri e si trovano tanti ristoranti e locali carini. In generale, consiglio di dormire qui, tra l’altro ci sono diverse fermate della metro, ma non bisogna pensare che sia così facile arrivare a piedi dappertutto: come in tutta la città, le distanze sono enormi e tutto è davvero fuori scala per i nostri parametri. Fra le cose da vedere in questa zona, in particolare a Xintiandi e Tianzifang, ci sono sicuramente le abitazioni tradizionali shikumen, oggetto negli anni di un’operazione di restauro. Purtroppo sotto la pioggia battente che non ci ha dato tregua, la nostra non è stata proprio una passeggiata piacevole, soprattutto quando, con le gambe fiaccate dal jet lag, abbiamo penato per farci caricare da un taxi – una costante un po’ ovunque questa.

L’altro motivo davvero valido per visitare la Concessione Francese è il piccolo museo Propaganda Poster Art Center. Gratuito, si trova nel piano interrato di un palazzone e ripercorre tra pubblicità e immagini del tempo la propaganda comunista fino a tempi  molto recenti. Davvero una rarità da non perdere (non si possono fare foto, ma acquistare copie delle stampe).

Come già detto, a Shanghai siamo stati sicuramente poco e alcune delle attrazioni principali sono state funestate dal maltempo – ad esempio non siamo praticamente riusciti a vedere oltre la nebbia Pudong, la parte avveniristica della città al di là del fiume, dove le baracche dei pescatori nel giro degli ultimi anni hanno lasciato il posto a grattacieli scintillanti -, ma vorrei comunque citare tre cose che mi sono piaciute moltissimo.

Pudong (o almeno quello che emergeva dalla nebbia)

Il giardino Yu. Se il bazar attorno vi lascerà un po’ interdetti (è veramente kitsch), concedetevi comunque un po’ di straordinari bao. Sono ravioli ripieni di carne di maiale e cotti al vapore, preparati in vetrina proprio come fanno a Bologna con le sfogline: sono economici e buonissimi. Scusate la divagazione sul cibo (che comunque giustifica un viaggio fin qui), torno al giardino tradizionale, davvero stupendo. Un po’ perché è una pausa di quiete (ma arrivateci presto) dal delirio della città e poi perché all’improvviso ci si trova in un mondo fatto di grazia, alberi fioriti, draghi che spuntano dai muri, laghetti… insomma un idillio di geometrie da non perdere.

L’altra è il museo di Shanghai, in piazza del Popolo. L’abbiamo scelto, confesso, per ripararci dall’acqua, ma abbiamo fatto bingo. Visto che è gratuito, può essere sufficiente visitare il piano terra, per fare un viaggio millenario nelle diverse epoche e regioni della Cina attraverso sculture straordinarie. Davvero emozionante.

Museo di Shanghai

La terza dritta vale per il Bund. Sicuramente è suggestivo esplorare le differenze fra gli storici edifici lungo il fiume scorrendo le facciate, ma non perdetevi la visita anche all’interno di due mitici hotel, il Peace e il Waldorf Astoria: entrare nelle hall è come tornare indietro alla Shanghai degli anni Trenta.

La cucina dello Yunnan al ristorante Lost Heaven

La cucina dello Yunnan al ristorante Lost Heaven

Shanghai-Sozhou

Il secondo giorno di buon’ora siamo andati nella deliziosa cittadina fluviale di Tongli passando per Sozhou, famosa per i suoi giardini sparsi in un nucleo storico scandito da canali. Da Shanghai si raggiunge in poco più di un’ora di treno proiettile: una sorta di Shinkansen, ma molto più conveniente (circa 9 euro a tratta). La sfida, come sempre, è salirci su quel treno: a partire da riuscire a saltare su un taxi, spiegare – nessun tassista e dico nessuno parla inglese o è interessato a parlarlo – in che stazione della città si vuole andare e comprare un biglietto.

Nella Shanghai Station è inutile tentare di andare alle macchinette – a meno che non capiate il cinese, ovvio-. Il biglietto si compra allo sportello e per stranieri ce n’è uno solo: guardate bene sul vetro, c’è una scritta piccola, ma c’è (è la stessa fila per donne incinte e portatori di handicap, vabbè): dovrete esibire il passaporto e, come sempre, attraversare svariati metal detector con le valigie. In compenso, la stazione è molto bella e, come dimensioni, sembra un nostro aeroporto.

Arrivati a Sozhou la nuova avventura è stata trovare il deposito bagagli: nella solita fiera dell’incomunicabilità, abbiamo capito che si trova solo dal lato nord della stazione (in fondo a destra del tunnel sotterraneo). Da qui si prendono anche i taxi in transito per arrivare fino alle porte del centro storico: proprio all’inizio dell’area pedonale si trova anche il museo di Suzhou, progettato da I.M.Pei. E’ interessante soprattutto per l’architettura, ma è gratis, quindi perché non farci un giro. I giardini da visitare sono molti, sicuramente bello è quello dell’Umile Amministratore, ma ammetto che vale il viaggio la tappa in un ristorante storico Yaba Shengjian per i loro xiang long bao, ravioli fritti ripieni di carne e brodo. Il mio piatto preferito di tutto il viaggio, per pochissimi euro (tipo 10 euro in due).

Tornati alla stazione, abbiamo ripreso un taxi per arrivare a Tongli: doveva essere un viaggio di mezzora, ma il tempo è raddoppiato per dei lavori stradali e il traffico (la corsa è lievitata fino a 170 yuan, ma stiamo parlando di 22 euro in due, quindi non mi lamenterei) . Quando siamo arrivati alle porte del centro storico di questo delizioso villaggio si stava già facendo sera e, attraversando il primo ponte di pietra, siamo entrati in un’altra dimensione.

Sono infiniti i motivi per cui ho amato questo luogo, che secondo me si apprezza appieno solo fermandosi a dormire: per le case basse di pietra su una trama di canali, perché tutto all’improvviso torna piccolo e a portata di piedi. Per le lanterne che brillano sull’acqua, i vivaci ristorantini sul fiume. Per la casa tradizionale che ci ha accolti, con persone all’improvviso gentili, per la cena straordinaria nel ristorante di un vecchietto che ci spiegava i piatti traducendoli sul telefono, per i giardini meravigliosi. I negozietti e il giro in barca sul canale, scivolando sull’acqua, sfiorando i ponti con la testa come in quegli angoli più defilati della laguna veneta.

La storia si tocca, si sente, e in un Paese con città gigantesche davvero fa una bella differenza. Ma senza un’atmosfera troppo patinata: la vita scorre nella sua quotidianità, con tanto di dettagli pulp. Come la gallina sgozzata direttamente sul canale la mattina, giusto per non sentirsi troppo turisti.

Tongli-Hanghzou

Da Tongli siamo ripartiti il pomeriggio successivo con un autobus diretto a Hanghzou, città famosa per il lago occidentale nella regione dello Zhejiang, una di quelle previste dal visto temporaneo.  Il biglietto – 56 yuan – ci è stato gentilmente prenotato sul sito dal personale della nostra guesthouse, quindi per una volta è stato più facile orientarsi una volta arrivati in autostazione (leggermente fuori dal centro storico, ma raggiungibile in una mezz’ora massimo a piedi).

Il viaggio è durato circa due ore, tempo in cui fuori dal finestrino continuavano a scorrere immagini di una campagna un po’ depressa ed enormi palazzoni in schiera.

Devo dire che, con il sole velato che sprigionava una luce fredda e grigiastra, mi sono sentita più volte all’interno di Blade Runner 2049. In questa atmosfera un po’ surreale siamo arrivati all’autostazione di questa città enorme (7 milioni di abitanti), raggiunta dopo venti minuti buoni di taxi fino alla città vecchia, lasciandosi alle spalle uno skyline di edifici mastodontici, dall’aria minacciosa. Un clima che cambia completamente nelle varie parti della città, sia in quella pedonale, in cui si trovava il nostro ostello (molto carino, lascio il link perché lo consiglio proprio), che quelle sul lago.

In generale, la prima mi sembra la zona più comoda in cui pernottare, anche se quelle sponde che sembrano tanto vicine sulla mappa in realtà, per essere raggiunte, richiedono ancora una volta un taxi o quanto meno una bici (noleggiabile facilmente). Visto che si stava facendo buio, abbiamo deciso di rompere il ghiaccio con la città nei due modi che preferisco: dall’alto del vicino City God Pavillon (stupendo quando è illuminato) e mangiando.

Il modo più semplice si è rivelato in uno dei centri commerciali sul lungo fiume: lo so, venendo dall’Italia sembra un’eresia, ma qui come in Giappone in questi mall si trovano spesso ottimi ristoranti e non è da buttare via neppure il fatto di avere un menù in inglese, vi assicuro. Comunque sia il Green Tea è stato un’ottima scelta (ci sono altri punti in città), con una buona cucina del territorio presentata benissimo (160 yuan in due).

Green Tea

Il giorno successivo ci siamo dedicati alla parte che ci stava più a cuore, quella delle piantagioni di tè di Longjing: è una varietà molto pregiata, e costosa, che viene coltivata sulle colline sopra la città, vicino all’omonimo villaggio. E’ una visita straordinaria, perché in pochi chilometri ci si trova all’improvviso un’atmosfera rurale, con quell’immersione in un mondo fatto di tonalità verdi che così tanto amo dell’Asia.

Longjing

Noi siamo arrivati in taxi fino al nuovo Museo nazionale del tè, in posizione davvero suggestiva sulla collina, per quanto meno organizzato per le visite (quasi tutti si fermano al museo originale qualche centinaia di metri più in basso). A meno che non siate dei patiti di tè, le informazioni di quello superiore possono bastare, assaggi compresi e, in pochi minuti a piedi, si può arrivare al villaggio di Lonjing con la sua atmosfera tranquilla. A quel punto non vi resta non vi resta che immergervi nelle piantagioni, seguendo alcuni sentieri indicati da cartelli.
Se a tavola siete abbastanza spericolati, fermatevi a pranzo in questo angolo di quiete. Noi siamo stati ‘catturati’ da un’anziana signora che ci ha fondamentalmente dato da mangiare nel giardino di casa: il menù era scritto solo in cinese, ovvio, ma il pesce estratto dentro la sua cesta dal torrente non richiedeva troppe cerimonie. Col riso e uova strapazzate ordinate alla cieca ci è andata bene.

E il lago? Ci siamo andati dopo pranzo, raggiungendolo direttamente in bus da Lonjing: solo uno scende dalla collina, non potete sbagliare e porta alla riva occidentale. Noi abbiamo attraversato l’isola Gushan e il terrapieno che ricongiunge all’altra sponda. La camminata è piacevole, in una selva umana di gente, selfie stick, barche e aquiloni: se temete la folla, non venite qui!
Appendice finale: siamo tornati a Shanghai in treno, ma non fate come noi l’errore di non prenotarlo prima, soprattutto se è un venerdì sera. Siamo riusciti a prendere l’ultimo per il rotto della cuffia in una stazione straripante di persone dai mille tratti somatici: gente con gli zaini, famiglie cariche di sacche che sembravano dirette in ogni angole sperduto dell’Asia. Forse lo erano.

Il Beit Beirut

Sembra Beirut: viaggio nella capitale del Libano

Sembra Beirut. Perché è Beirut. La città che scivola nella notte sotto i nostri occhi durante il tragitto dall’aeroporto si presenta con le sagome scure degli edifici che sembrano cadere a pezzi e le impalcature dei cantieri. Ma è solo una parte, perché dall’altro lato del finestrino si spalanca uno skyline di grattacieli illuminati e le luci danzano, come in tante grandi metropoli. Siamo in cinque, più l’autista, in un taxi che dovrebbe contenere solo la metà di noi, ci hanno appena fregato sul prezzo- è evidente-, e dopo una prima sequenza di minareti e campanili, a metà strada c’è già il primo posto di blocco militare. Poco importa che davanti siamo sedute in due, una sull’altra: il tassista si preoccupa solo di mettersi la cintura. Ma i militari non ci fanno caso, si prosegue.
E’ un giovedì sera a Beirut, e questo è solo l’antipasto.

Con i miei compagni di viaggio a Downtown

Con i miei compagni di viaggio a Downtown

Una guida alla città

La scelta di partire per un fine settimana nella capitale del Libano è stata istintiva, quasi quanto quella di comprare quei cinque biglietti aerei a prezzi convenienti (un po’ meno gli orari notturni, i collegamenti non sono eccezionali). Il resto però era solo una composizione di immagini da Internet, Instagram e sito della Farnesina per capire che momento stesse vivendo questo piccolo stato, incapsulato fra il Mediterraneo e vicini decisamente ingombranti -Israele sotto e la Siria ai lati.

Di guide aggiornate neanche l’ombra, almeno in italiano (la Lonely Planet è in lavorazione e abbiamo comprato poi una guida americana, piuttosto ben fatta, la Bradt). Informazioni poche, dunque, inversamente proporzionali allo sgomento di parenti e amici a casa. In questi casi tutti si improvvisano esperti di politica estera e Medio Oriente. Sempre per partire tranquilli, insomma.

Achrafieh

E così provo a raccontare le mie impressioni dopo un fine settimana in Libano, su cosa effettivamente abbiamo trovato sulla sponda più esterna del nostro mare comune. Una piccola guida, insomma, per organizzarsi in un posto che è tutto il contrario di tutto, in cui si passa da loft e locali eleganti, ai profughi siriani ai lati delle strade e agli edifici deturpati dagli spari. Una città che da Parigi orientale è diventata il simbolo di ogni casa sgraziata, rovinata, in cui convivono cristiani maroniti, ortodossi, sciiti, sunniti, drusi (sono dei musulmani mooolto particolari), ebrei (pochi), giusto per citarne alcuni.

La moschea Mohammed-al-amin

La moschea Mohammed-al-amin

Cosa vedere in un giorno

Beirut è una città che ne ha passate di tutti i colori e se da un lato non si è tolta di dosso questo passato tormentato, dall’altro esplode di vita, soprattutto di sera. Le zone principali, in cui è possibile camminare a piedi in tranquillità, sono quelle di Hamra, zona a maggioranza musulmana, Downtown e Achrafieh, a predominanza cristiana. E’ la zona in cui si trovano anche alcuni edifici storici, risalenti al periodo del mandato francese, durato fino al 1943, quando il Libano ottenne l’indipendenza. Solo un accenno a quello per cui questa città è diventata un simbolo di distruzione: la guerra civile, durata dal 1975 al 1990, che ha provocato un vero e proprio esodo di libanesi dal Paese. La città era divisa in quegli anni da una green line, che separava la parte musulmana e cristiana. I segni del conflitto – che non è purtroppo stato l’ultimo, se consideriamo anche quello fra Hezbollah e Israele a partire dal 2006 – si vedono ancora in alcuni edifici, come il Beit Beirut, da cui abbiamo iniziato la nostra visita.

Uno degli edifici di Achrafieh

Uno degli edifici di Achrafieh

Prima visita, primo buco nell’acqua: il palazzo giallo restaurato, ma che ancora racconta il recente passato attraverso i buchi sulle pareti e che ospita un centro di documentazione sulla guerra civile, è chiuso per un evento privato. Guardando recensioni, in realtà gli orari di apertura sono piuttosto ‘creativi’ e non sempre si riesce a entrare. Ripieghiamo su una camminata ad Achrafieh, fra ristorantini, negozi hipster e case sventrate, fino a quando non avvistiamo il Dome City Center (o The Egg). E’ un altro edificio-simbolo a portare i segni della guerra e che forse impressiona più di tutti. Espressione dell’architettura mordernista degli anni Sessanta, doveva essere un centro commerciale, ma oggi assomiglia più a uno scheletro abbandonato. Ma anche questa è solo una parte della storia, perché la sera dopo lo ritroviamo illuminato di viola, trasformato nella sede di un evento glamour (sempre a invito, ancora).

The Dome

Subito dopo si apre Downtown, in cui, a pochi metri di distanza, si trovano la moschea Mohamad Al Amin, dalla stupenda cupola blu, e la cattedrale maronita (che purtroppo troviamo chiusa, pure questa). Un bellissimo contrasto, che aumenta subito dietro, fra i resti di una basilica romana e la cattedrale greco-ortodossa di San Giorgio: merita una visita, per la bella iconostasi e soprattutto per il museo sotterraneo, che racconta le stratificazioni della città. E considerando romani, bizantini, mamelucchi e arabi, direi che di strati ce ne sono. Si passa così alla famosa place d’Etoile, in cui svetta un Rolex gigante, e al Parlamento, in un’area della città chiusa al traffico, centrale quanto piuttosto deserta, fra pochi clienti nei caffè all’aperto. Il souk è un’altra sorpresa, perché non c’è nulla di esotico in queste gallerie commerciali, con negozi occidentali e spesso costosi. E’ una parte interessante, che racconta delle trasformazioni recenti della città- pianificate dalla società Solidare-, ma che non emoziona molto.

A questo punto si può però raggiungere la Corniche, il percorso pedonale e ciclabile che costeggia il mare, fra traffico impazzito – il rumore del clacson sarà la vostra compagnia costante, rassegnatevi -, spiagge che non chiamerei proprio spiagge, ma più scogli- gente con la propria sedia a fumare la shisha, coppie e famiglie, e grandi alberghi e appartamenti sempre piuttosto vuoti e concessionarie di auto di lusso. La sensazione che condividiamo fra noi è di una città pronta ad accogliere turisti, visitatori, ma che ancora non ci sono. O non li vediamo noi, difficile dirlo in pochi giorni. Ma quello che incontriamo è soprattutto un gran numero di auto e un edificio davvero pazzesco: la casa del rancore. E’ un condominio piatto che un vicino ha costruito per bloccare la visuale all’altro. Meglio non far incavolare i vicini, insomma.

La passeggiata sulla corniche si conclude ai Pigeons Rocks, due enormi faraglioni nel mare, che si possono anche visitare da sotto con la barca. Noi ce li godiamo al tramonto, nell’ora in cui il sole incendia l’acqua, bevendoci un caffè libanese dai bar panoramici. Il giro in Hamra Street, dove si trovano l’Università americana libanese e una serie di negozi di tutti i tipi, si esaurisce presto: il traffico è assordante ed è tempo di tornare a casa.

La sera a Beirut

E’ il momento della giornata in cui Beirut indossa il suo vestito più inaspettato, divertente, soprattutto nel fine settimana, con giovani dentro e fuori da locali stilosi, costosi, fra coctkail e musica. Può sembrare superficiale, ma non lo è (o almeno non del tutto), perché si sente la vita che pulsa in questa città rinata mille volte. Posti di polizia, filo spinato e macerie all’improvviso sono lontani anni luce. Basta percorrere Gourad Street e Armenian Street e le strade dal sapore bohemienne di Gemmayze e Mar Mickail, per rendersene conto, passeggiando fino al bellissimo museo Sursok, museo di Arte Contemporanea che brilla nella notte, da raggiungere magari dalla scalinata di San Nicolas, famosa per la street art. Poi non resta che scegliere il ristorante preferito.  La cucina libanese, così difficile da trovare in Italia, è strepitosa.

Il museo Sursok

Dove mangiare e bere

Come dicevo sopra, l’esperienza culinaria vale da sola un viaggio a Beirut. Abbiamo mangiato bene sempre, in ristoranti con stili diversi, ma fondamentalmente concentrati nella zona di Gourad e Armenian Street. I piatti, va detto, sono sempre variazioni sul tema, con mezze che tendono a ripetersi, con alcuni must come l’hummus di ceci; il mutabal di melanzane (molto simile al ‘cugino’ babaganoush), spesso servito con chicchi di melograno; Tabbouleh, con prezzemolo e pomodorini; Fattoush, insalata con pane croccante e (il mio preferito) Fatteh, con yogurt, noccioline, melanzane e pane croccante. Un insieme di sapori che spaziano dal Medio Oriente alla Grecia, con molte verdure e legumi.

Hummus e mutabal

Come carne, si mangia soprattutto agnello, in versioni che ho trovato strepitose (ne racconto qualcuna qui sotto). I dolci sono spesso preparati con lo yogurt o formaggio di capra, aromatizzati con miele, pistacchi e un’acqua di arancia da noi soprannominata amichevolmente ‘Vidal’: intensa, ok, ma io l’ho trovata buonissima. Con la stessa essenza si prepara anche un caffè bianco, che altro poi non è che acqua calda aromatizzata, ottima per digerire i quintali di legumi appena ingeriti. Ecco qualche indirizzo.

  1. Marrouche, sulla Corniche. Ideale per una pausa pranzo in una bella giornata, visto che dal primo piano si gode di una bella vista sul mare. Ottimo l’hummus, ma va assolutamente assaggiato l’Arayess Kebab : una specie di piadina croccante ripiena di agnello, con una spolverata di pistacchi sopra. Il mio piatto preferito in assoluto.
  2. The Chef. Un posto storico, in posizione eccezionale per chi è reduce dall’aperitivo in Armenia Street, frequentato dagli stessi libanesi per la cucina casalinga e autentica. E’ spartano, ma pulito, con un servizio impeccabile e un menù che cambia continuamente. Buonissime le melanzane (sul menù si chiamavano moussaka, ma in realtà erano tipo stufate col pomodoro), la cicoria con cipolla croccante e un pesce in salsa di sesamo. Grande rapporto qualità-prezzo.
  3. Enab. Alla fine di Armenian Street è il classico posto trovato per caso, che ti sorprende per l’arredamento caldo (carta da parati colorata, poltrone a fiori, colori pastello). Buonissime tutte le mezze ordinate, comprese le salsicce libanesi, leggermente piccanti e con un po’ di cannella e il formaggio di capra, sia fresco che grigliato. Con vino, birra e shisha finale, abbiamo speso, 220 lire libanesi.
  4. Liza. Un ristorante bellissimo, fra i più famosi in città, che abbiamo potuto prenotare solo la domenica sera perché il weekend era sempre pieno. Si trova in una casa storica vicino al Sursok Museum, con stanze dalle luci soffuse e giochi di specchi. Un vero viaggio nell’atmosfera mediorientale. Abbiamo ordinato la degustazione di mezze, tutte di livello superiore a quelle mangiate nei giorni precedenti, con anche felafel, piccole sfiah, panini ripieni di carne e agnello davvero straordinari e un riso con agnello e frutta secca davvero buonissimo. Il servizio, invece, è migliorabile, visto il livello del locale, che offre anche una bella carta dei vini, molti libanesi. Il prezzo lievita parecchio (circa 60 euro a testa), ma sarebbe corretto se poi non fosse raddoppiato per tre bicchieri di Cognac che (l’abbiamo scoperto al momento del conto) costavano 60 euro l’uno. Noi non avevamo chiesto i prezzi, loro non hanno pensato di dirceli: insomma, è finito con una ‘pelata’, ma anche una risata. Comunque resta un luogo speciale.
  5. Eat Sunshine. Un ultimo consiglio per la colazione. E’ uno di quei posti hipster che mi piacciono tanto, in cui trovare sia piatti orientali che le classiche uova o pancakes con frutta fresca. Caro, ma bello e buono. Ci sta.
  6. Capitolo locali. Come dicevo prima, in Armenian Street non c’è che l’imbarazzo della scelta: sono davvero tanti quelli belli, anche fighetti, con cocktail (non sono un esperta nel campo) ricercati. Ne segnalo comunque due. Il primo è Anise; piccolo, atmosfera bohemienne, molto frequentato. L’altro è, sempre per restare in tema, The Bohemian: simpatico, giovane, atmosfera frizzante nel weekend. I prezzi dei cocktail sono paragonabili a quelli italiani.
Uno dei locali di Armenian Street

Uno dei locali di Armenian Street

Dove dormire a Beirut

Per un piccolo gruppo come il nostro è stato perfetto puntare su un appartamento condiviso. Su Airbnb abbiamo trovato il bellissimo Stylish New Loft Duplex ai margini del quartiere Achrafieh. Abbiamo speso circa 40 euro a testa a notte e per i prezzi generalmente alti di Beirut è un’ottima soluzione. La zona è in trasformazione, sono molti i cantieri nei dintorni, e non è proprio il posto in cui fare un giro a piedi (ci sono solo palazzi, ad eccezione di un mercato a soli 400 metri, per chi vuole un’esperienza very local), ma la casa di Tania è davvero bella, fra arredamento curato, domotica e, diciamolo pure, tre bagni. C’è il garage, ma io personalmente non guiderei a Beirut neanche sotto tortura, quindi consiglio di utilizzare Uber: comodissimo ed economico (soprattutto se diviso in cinque come noi). Serve internet per usarlo: potete procurarvi una sim libanese o, come noi, sfruttare le reti wifi dei locali, diffusissime)
In alternativa, se si è da soli o in coppia, penso che l’ideale sia trovare una sistemazione fra Gemmayze e Gourad Street, in modo da spostarsi a piedi la sera senza problemi ed essere già nella zona più ricca di locali e ristoranti.

Info: noi abbiamo trovato una situazione molto tranquilla, ma consiglio comunque di consultare il sito della Farnesina prima di partire, perché sono indicati i quartieri della città in cui è meglio non andare a zonzo. Ecco qui: http://www.viaggiaresicuri.it/paesi/dettaglio/libano.html

I vini di Lanzarote

L’isola di Lanzarote

Anche dall’aereo si vedono i coni dei vulcani alzarsi dalla terra scura e grappoli di case bianche arrampicate sui fianchi di crateri che, ormai, non fanno più paura. Di solito non scrivo in volo, ma questa volta ho voluto fissare subito alcune immagini e sensazioni che Lanzarote mi ha lasciato, facendomi sentire per cinque giorni fuori dal mondo. E un po’, alle Canarie, si è fuori dal mondo, nel cuore dell’oceano Altlantico. Uno dei motivi per cui questa destinazione ha iniziato a farsi strada nella mia mente è stato il vino, poi l’anima vulcanica, infine la speranza del caldo mentre nella mia Emilia è scesa una coperta di freddo e umido. Il collegamento low cost con Bologna ha chiuso il cerchio. Immaginavo che Lanzarote mi potesse piacere, amo le isole un po’ sperdute, ma la realtà ha superato le aspettative.

Parco del Timanfaya

Parco del Timanfaya

Il motivo principale – oltre il sole che mi ha fatto respirare un po’ d’estate – credo sia lo spirito di frontiera, che spesso ricerco quando viaggio. Amo i luoghi ai margini, dove i tratti si confondono. Mi aspettavo una Spagna insulare, un mondo completamente occidentale. Aspetti che indubbiamente ci sono, ma la verità è che ho trovato una terra africana e colori accesi che non vedevo dai tempi della Namibia e del Marocco, giusto al di là del braccio di oceano. Terra nera, montagne rossastre, rare spiagge di sabbia bianca. Assenza di alberi, ad accezione di cactus e palme, vegetazione rada da bush, case basse, bianche. E’ la natura selvaggia e sempre estrema dell’isola, con i suoi mari di lava solidificata, come se la terra fosse diventata una dura scorza del colore del cioccolato. E africani sono i cieli stellati, i tramonti infuocati, il coriandolo nella salsa che accompagna le patate arrugadas (arrostite con la buccia), come si mangiano qui.

I vini di Lanzarote

Ma veniamo ai vini. Quelli che si bevono a Lanzarote forse non saranno tutti indimenticabili, ma mai, finora, ho visto un sistema di coltivazione spettacolare come questo. La storia della coltivazione dell’uva qui, del resto, è incredibile. Nelle vicine isole Canarie, in particolare a Tenerife, il vino si faceva già dal Cinquecento. Era un vino con aggiunta di alcol, un po’ liquoroso dunque, che veniva esportato fino all’America e che piaceva molto agli Europei, in particolare agli inglesi: persino Shakespeare lo cita. A Lanzarote, invece, il vino si consumava, ma per i contadini era difficile ricavare qualcosa dal terreno arido.

La Geria

Poi, fra il 1730 e il 1736 tutto cambia. Il vulcano Timanfaya erutta devastando parte dell’isola, seppellendo villaggi, spargendo ovunque ciottoli e cenere. Parte della popolazione lascia l’isola, ma quello che per anni deve essere sembrata l’apocalisse, lascia un’eredità. Il nuovo strato di lapilli vulcanici- chiamati picon– rende possibile l’allevamento della vite: trattiene l’umidità che di notte arriva dall’oceano e la fa penetrare fino alle radici delle piante, che possono trattenerla per mesi. E’ così, dunque, che inizia la viticultura, con la nascita della prima cantina, El Grifo, nella seconda metà del Settecento. Per ottenere vini di qualità superiore bisogna aspettare l’Ottocento, quando viene introdotta la Malvasia vulcanica (prima veniva coltivato solo il Palomino). Il paesaggio selvaggio trasformato dalla furia del vulcano viene modellato dall’uomo in modo unico: le viti si trovano all’interno di buchi, dalla forma di imbuti, o spaccature nella distesa di lava – il suolo si trova alcuni metri sotto – e sono protette da muretti a secco circolari o semicircolari (oggi anche rettangolari), che fungono da barriera per gli Alisei, pur facendo passare l’umidità. La Geria, una sorta di strada del vino nel cuore dell’isola e zona vocata alla produzione, è un’emozione per gli occhi: valli e colline sembrano alveari o cerchi disegnati da una mano aliena sulla terra nera.

La Geria

I vitigni di Lanzarote

Sono pochissimi i vitigni coltivati in questo ambiente arido. Quello principale è la Malvasia vulcanica- varietà che si trova solo qui ed è la più antica al mondo-, da cui si ottengono bianchi secchi profumati e minerali, e un vino semidolce. Molto importante è anche il Moscato d’Alessandria (lo stesso di Pantelleria), da cui viene prodotto un vino dolce che ricorda il passito. Seguono la Listan Blanca (o Palomino) e Negra: da quest’ultima si ottengono rosati e vini rossi destinati a essere bevuti giovani, con il loro corredo di frutti rossi, ma con poco corpo. A meno che non venga aggiunto un po’ di Syrah. Un altro vitigno rimasto qui e salvato- come gli altri, grazie al terreno vulcanico- dalla Fillossera, si chiama curiosamente Diego.

Sono 18 le cantine presenti sull’isola che fanno parte della denominazione di Lanzarote (14 ne La Geria), per una produzione di circa un milione e mezzo di bottiglie, ma vanno aggiunte altre piccole realtà al di fuori della DO. Solo alcune sono effettivamente pronte ad accogliere i visitatori tutti i giorni dell’anno (e a volte sono infatti prese d’assalto dai pullman di turisti), magari con tanto di ristorante abbinato; altre stanno iniziando ora questa piccola rivoluzione e vanno avvisate prima di presentarsi all’ultimo per un visita. In molti ristoranti ed enoteche dell’isola, però, fortunatamente si possono assaggiare diverse etichette locali e farsi un’idea piuttosto completa delle tipologie presenti.

La vendemmia

Un accenno alla vendemmia, che qui inizia prima di ogni altro Paese in Europa. La prima uva essere raccolta, sempre a mano, è la Malvasia vulcanica, già a luglio. Seguono, fino a settembre, le altre tipologie: l’ultimo a essere raccolto è ovviamente il Moscato, destinato al vino dolce, e che quindi si lascia maturare di più. Ultima nota di colore. La vicinanza con l’Africa si sente parecchio anche quando si parla di vino: fino a qualche decennio fa, infatti, per la raccolta delle uve si usavano i dromedari, che portavano sulla simpatica gobba le cassette ricolme di grappoli.

Le cantine

El Grifo

Questa cantina è la più antica di Lanzarote (1775) e, di quelle la cui storia è arrivata fino a oggi, anche delle Isole Canarie. Anche per questo merita una visita, per avere una panoramica generale e visitare la bella residenza della famiglia titolare, che comprende anche una ricca libreria. Io ho approfittato di una visita guidata da 90 minuti (tutti i giorni alle 15), comprensiva di spiegazioni in cantina, passeggiata nel vigneto, museo del vino e degustazione di due vini. Una curiosità: il nome deriva da un villaggio sepolto dalla lava ai tempi delle eruzioni del Timanfaya, poi l’artista e architetto più importante dell’isola, César Manrique, ha creato l’attuale logo del Grifone.

A El Grifo – che produce una linea anche per la grande distribuzione e, in generale, 500mila bottiglie – si ha la possibilità di assaggiare alcune tipologie, sempre a base di Malvasia, meno diffuse. Come il metodo classico, un Brut che riposa due anni sui lieviti, molto delicato, e una Malvasia sui lies, dell’annata precedente (di solito questi non sono vini longevi, in un anno e mezzo circa perdono la loro freschezza): al naso si riconosce il sentore dei lieviti lasciato dal batonnage. Per chi vuole un rosso con più corpo, in azienda è prodotto anche un Syrah.
Info: ci sono varie tipologie di visite, per durata ed eventuale accompagnamento di cibo, che si possono prenotare sul sito. La cantina è comunque aperta tutti i giorni per passaggi estemporanei.

El Rubicon

Si trova all’estremo opposto della strada che taglia La Geria, davanti a un’altra azienda molto nota e organizzata per le visite, La Geria, appunto. Anche in questo caso ci troviamo all’interno di una bella residenza tradizionale ristrutturata, che ospita anche un ristorante, ed è possibile visitare in autonomia un piccolo museo del vino.

Si possono prenotare visite, ma si può assaggiare anche da soli vari calici (un euro a bicchiere; 3,50 euro due assaggi con formaggio). E’ una soluzione che, almeno nella nostra esperienza, non ha compreso alcuna spiegazione sui vini, solo il servizio: li abbiamo degustati fuori, sui tavolini affacciati sulla strada (il lato migliore è destinato al ristorante), dove svetta il vulcano e il tramonto cala sulle distese di lava. Delle varie tipologie ho preferito la Malvasia vulcanica, Amalia, con un bel naso floreale e fruttato, ma molto noto, e pluripremiato, è il Moscato d’Alessandria.

Bodega Vulcano

E’ un’azienda giovane, nata nel 2009, ed è l’unica a trovarsi in un contesto cittadino. Siamo a Tìas, in una sala degustazione – la cantina vera e propria è proprio al piano di sotto- molto moderna, che mi ha ricordato, per quanto in piccola, quelle della California. L’accoglienza è garantita tutti i giorni e con 5 euro si possono degustare 3 vini, con un piccolo accompagnamento di cibo. Il personale è molto gentile, ma anche in questo caso non ci sono state offerte particolari spiegazioni sui vini. Ho apprezzato particolarmente il rosato- forse quello che mi ha convinto di più nei miei assaggi sull’isola -, dallo stupendo rosa brillante e piacevoli sentori di fragola. Fresco e vibrante.

Equilibrato fra morbidezza e mineralità anche il Semidulce (90% malvasia e 10% Moscato). Tutti i vini erano dell’annata 2017.

Bodega Vega de Yuco

Questa azienda merita un passaggio anche solo per la vista: si trova in posizione più sopraelevata, e panoramica, rispetto alla strada principale che attraversa La Geria e gli occhi si perdono sulla terra scura e traforata dalle vigne. Confesso che non abbiamo potuto assaggiare i vini sul posto perché colpevolmente non abbiamo avvisato prima di arrivare, ma spero che chi legge non faccia il mio stesso errore e telefoni! L’azienda infatti al momento è aperta solo fino alle 15 dal lunedì al venerdì e non ha personale sempre dedicato all’accoglienza. Comunque sia, la Malvasia vulcanica base è la mia preferita di quelle assaggiate sull’isola (curiosa la bottiglia blu), con una nota spiccatamente minerale: nel bicchiere si sente particolarmente il suolo vulcanico, con una maggiore persistenza. Anche il tinto, con il Syrah.

Queste sono le cantine che abbiamo visitato in modo più approfondito, ma per quelli che sono stati altri assaggi fatti durante la permanenza consiglio di contattare anche la Bodega Los Bermejos (bio). Un luogo ottimo per degustare (con ottime tapas di accompagnamento), sempre restando nella zona della Geria, è la bodega El Chupadero, sempre con una bellissima vista sulle alture mozzate del Timanfaya. Interessante anche la selezione alla Cantina Teguise, nell’antica capitale dell’isola e, perché no, il vino della casa del Teleclub di Haria. Questo centro sociale merita una visita a prescindere, per vedere la gente del posto che si trova a guardare la tv e giovare a carte, per la cucina tradizionale saporita, ma i vini sono stati una sorpresa. Piacevole la Malvasia e davvero sorprendente il Moscato in accompagnamento al dolce tradizionale. Delizioso.

Info. Ci sono diverse possibilità di fare degustazioni organizzate sull’isola. Ad esempio Wine Tours Lanzarote (winetourslanzarote.com) che offre varie combinazioni, a diversi prezzi, con visite in inglese.
Se poi volete saperne di più di vino di Lanzarote (ma non solo), un sito da tenere d’occhio è sicuramente Il Nomade diVino.
Per tante altre informazioni sull’isola, invece, vi rimando anche al blog di Irene.

Tre giorni a Valencia

C’è chi mi ha detto vai che è tanto carina e chi invece mi ha detto che rispetto ad altre città spagnole gioca in un altro campionato. Io so solo che a me Valencia è piaciuta moltissimo.

Forse anche per le aspettative che erano alte, ma non stratosferiche. Forse per la compagnia dell’adorabile Paola e i buffi incontri che abbiamo fatto. E forse perché dopo un po’ di mesi che non salgo su un aereo, poi quando comincio a disegnarmi una nuova meta in testa e quella meta inizia a farsi sentire sotto la pelle, come un solletico, allora poi mi godo questi viaggetti fuori stagione come un grande regalo. E Valencia, in tre giorni, ci ha accolte col suo sorriso migliore: col sole e di domenica. Si è fatta conoscere facilmente, come un compagno di classe estroverso. Non sarà Parigi, non sarà New York, ma mica lo pretende. E, semplicemente, si sta bene.

Valencia, la domenica in piazza

Valencia, la domenica in piazza

Il nostro itinerario di tre giorni (anche un po’ meno)

Non so perché dall’Italia abbiamo la convinzione che in Spagna faccia sempre caldo. Beh, insomma, novembre è novembre in tutto il Mediterraneo ed è inutile dire che un po’ di pioggia ce la siamo presa. E così abbiamo un po’ improvvisato i giri (anche) in base al meteo: nel momento più inclemente, ad esempio, ce ne siamo andate all’acquario. Ma Valencia permette questa improvvisazione, visto che il centro storico è abbastanza compatto e si gira bene a piedi. Scoprendo la cosa più bella: che quella che scorre sotto gli occhi non è una sola città, ma tante, con spaccati e anime completamente diversi.

Città vecchia

Città vecchia

Primo giorno: la città vecchia di Valencia

Siamo arrivate alla domenica mattina presto, con la città che si stava ancora stiracchiando sotto un sole stupendo. Dopo avere provato subito una specialità locale come l’horchata (bevanda dolcissima fatta con le chufas, tipo piccoli tuberi), la prima tappa è stata la Cattedrale. All’interno c’era la messa in corso e quindi non abbiamo visitato proprio tutta la chiesa, ma siamo riuscite a entrare (gratuitamente) nella Capilla del Santo Càliz. Ora, che quel calice sotto vetro sia davvero il mitico Graal non saprei dirlo (io rimango alla versione di Indiana Jones della coppa di legno), ma vale la pena di entrare anche solo per la bellissima sala, affrescata e dall’atmosfera raccolta.

Si può salire sul campanile o proseguire in Plaza de la Virgen, che mi è sembrata un po’ il cuore della Ciutat Vella nord. Forse perché pulsava eccome di vita, fra balli tradizionali e gente seduta sui tavolini al sole. Bella la fontana che rappresenta il fiume Turia placidamente sdraiato, bella la Basilica dedicata alla patrona, con la sua forma circolare.

La fontana che rappresenta il fiume Turia, a Valencia

La fontana che rappresenta il fiume Turia, a Valencia

Il dettaglio della domenica, in questo punto della città, non è da poco, perché si può accedere gratuitamente a musei e monumenti. Come l’Almudìn, il granaio quattrocentesco della città, o La Almoina, con gli scavi archeologici. Il percorso sotterraneo è interessante, da veri Alberto Angela a spasso nel tempo dai romani al periodo islamico, ma l’aspetto più suggestivo è sicuramente il fatto di camminare al di sotto di una vasca piena d’acqua che riflette la luce in modo magico. Sempre gratuita, sconfinando nel Barrio del Carmen, è la salita sulle Torres de Serranos. Un’altra testimonianza antica (XIV sec) della città e un’occasione imperdibile di abbracciare la città dall’alto, dai tetti dei palazzi del centro, al lungo parco nato dove un giorno scorreva il fiume (ma questo ve lo racconto sotto).

Torres de Serranos

Torres de Serranos

Ovviamente non potevano mancare tappe mangerecce, giusto per entrare nello spirito della tapa (motivo che da solo, per me, vale un viaggio in Spagna). Una sosta simpatica, per quanto non troppo economica, è stata quella da Casa Victoria, famosa per il vermouth. Un luogo decisamente vintage, minuscolo e frequentato da umarells locali. Due crostini (con pomodoro e acciuga e col formaggio, buonissimo) e due birre sono costati 12 euro. A Bologna ci prendevi solo la birra, dopo tutto. Pit stop successivo: Empanadas Caseras. Ampia scelta, ottimi prezzi e ricette originali: ha trionfato quella con formaggio di capra e zucca.

Abbiamo proseguito il giro fino all’adorabile piazzetta di Santa Catalina, fra negozietti e gente a spasso per il centro, per poi passare nella parte sud della Ciutat Vella. Lo spirito cambia parecchio, perché si lasciano i vicoli e  piazzette per immergersi in un mondo modernista e liberty. Le strade si allargano, aumentano i negozi, ma anche splendidi edifici che all’improvviso proiettano in città come Parigi o certi angoli vicini a Central Park. Siamo nella zona della Plaza del Ayuntamiento, dove si trova il municipio, anche se la vera chicca della zona è la Estaciòn del Norte. Per gli appassionati di ferrovie è davvero un gioiello modernista, fra decorazioni sui toni del verde, vetrate colorate e  interni in legno. Un vero salto agli inizi del Novecento.

Città vecchia

Città vecchia

Secondo giorno: la città della scienza

Come dicevo, il cielo dall’inizio non è stato dei migliori. Ripartendo sempre dalla città vecchia, abbiamo subito rotto il ghiaccio nella storica Horchateria de Santa Catalina, fra ceramiche, tostada e churros appena fatti, prima di raggiungere la maestosa Lonja (dopo un passaggio per la curiosa plaza Redonda). E’ un edificio patrimonio Unesco, in stile gotico, dove si sente l’influenza araba. Era destinata agli scambi commerciali fra produttori di seta e altri mercanti ed è una vera meraviglia affacciata su un giardino pieno di aranci. Anche la La Lonja sarebbe gratuita di domenica, ma noi non eravamo arrivate in tempo (dannati orari invernali, la chiusura era anticipata alle 14) e così l’abbiamo tenuta per il giorno dop. Proprio davanti, è un incanto il Mercado Central, per un altro salto all’inizio del Novecento. Stupenda la cupola, così come la merce in vendita: noi alla cifra di ben 3.50 euro a testa abbiamo fatto scorta di panini, empanadas e frutta fresca (e anche un cono di chorizo da passeggio, confesso) da portarci direttamente alla Ciudad de las Artes y las Ciencias.

 

Il mercato centrale di Valencia

Il mercato centrale di Valencia

Valencia, la Città della scienza

Valencia, la Città della scienza

Tre giorni a Valencia, la Città della scienza

Tre giorni a Valencia, la Città della scienza

Progettata dall’architetto Santiago Calatrava, siamo nella parte più avveniristica di Valencia e forse in quella che colpisce di più. Un po’ per la bella passeggiata nel parco sorto sul letto del fiume Turia, deviato nel secolo scorso visto che aveva periodicamente la pessima idea di inondare parte del centro storico. In questa striscia verde è bello girare in bicicletta mentre i valenciani corrono, si allenano o portano a spasso il cane (magari in altre città avessero trovato soluzioni urbanistiche così felici).

Dopo aver oltrepassato anche un enorme Gulliver sdraiato, suggestivo gioco per i bambini (ma non solo direi), si arriva al complesso di musei, un ritorno al futuro in mezzo alla città. Le linee bianche, curve, fra edifici che sembrano ora occhi socchiusi, ora navicelle spaziali, sono davvero un ricordo che resta a lungo. Si possono combinare i biglietti per vari musei: noi abbiamo scelto l’Oceanogràfic, l’acquario più grande d’Europa, e il Museo de la Ciencias Prìncipe Felipe (complessivamente 31 euro).

Il secondo, per quanto interessante, mi è parso un po’ dispersivo e forse più adatto alle scolaresche o comunque visite guidate, l’acquario invece merita ogni euro. Visitandolo un lunedì di novembre sicuramente siamo state graziate delle code (e resse), tranne qualche sportellata per vedere i beluga. E’ ovvio che stiamo sempre parlando di animali che non vivono in libertà, ma alcune sezioni sono davvero magiche. Come gli spazi delle meduse, delle foche curiose e degli enormi trichechi. Belli i tunnel, in cui quell’ombra che passa all’improvviso sulla testa è quella di uno squalo. Il tempo ci è davvero volato e siamo uscite dopo circa cinque ore! Aggiungo solo che l’area non è completamente finita ancora, per quanto i costi sostenuti dalla città siano già stati enormi (e in passato non sono mancate le polemiche).

Apro una parentesi serale. Anche per una questione di comodità, abbiamo esplorato a piedi il Barrio del Carmen, che unisce un’anima quasi parigina per il tipo di case e localini e una po’ più dark, fra murales e muri sventrati. Un bel mix, sottofondo di tapas e vino.

Terzo giorno: la città di mare

Come dicevo, per la terza mezza giornata ci siamo affidate all’improvvisazione. La giornata era di nuovo bella e, noleggiate le bici, ce ne siamo andate verso il mare, riattraversando il Turia e sfruttando le numerose piste ciclabili (anche perché dove non ci sono mi pare che guidino come dei matti, e insultano pure). Questa parte della città, un po’ decentrata, deve avere cambiato un po’ pelle dopo la America’s Cup del 2007 e anche in questo caso offre almeno due anime. Da un lato c’è El Cabanyal, il distretto con le abitazioni dei pescatori, più basse e colorate, affacciate su placide stradine.

El Cabanyal, Valencia

El Cabanyal, Valencia

Dall’altro c’è il lungomare vero e proprio, fra palme e larghissime spiagge di sabbia. Ovviamente in novembre erano piuttosto deserte, ma l’atmosfera era da luogo di vacanza da pensionati e l’ho trovato molto rilassante (lo so, resto sempre umarells dentro). Da queste parti ovviamente si viene anche a mangiare la paella. Il riso del resto è una star locale, visto che si coltiva nella vicinissima e lagunare Albufera. Noi abbiamo scelto il ristorante super tradizionale e vintage La Pepica: piatti buonissimi, personale non troppo cordiale (38 euro in due, ma senza vino/birra).

Il Lungomare di Valencia

Il Lungomare di Valencia

La spiaggia a novembre

La spiaggia a novembre

Se il tempo non ci avesse graziate, invece, avremmo puntato sul Museo de Bellas Artes (a ingresso libero per giunta), che custodisce tesori di Sorolla, Goya, Velàzquez e altri maestri spagnoli.

Tre giorni a Valencia: informazioni pratiche

Un altro dei motivi che mi rendono Valencia così simpatica è la comodità dei mezzi. Dalla fermata Colòn, ad esempio, quindi proprio al limitare della Città Vecchia, si arriva all’aeroporto in circa mezzora di metro. Una soluzione anche economica, tra l’altro, visto che il biglietto costa fra i 4 e i 5 euro. Il noleggio della bicicletta, per mezza giornata, oscilla tra i 5 e gli 8 euro circa. Noi l’abbiamo presa direttamente all’ostello Buho House, su cui vorrei spendere due parole.

Ci siamo trovate davvero benissimo, per posizione (a pochi minuti a piedi dalla Cattedrale), stile delle stanze, tutte molto curate, e pulizia. La doppia, tutta in legno, con due letti e bagno privato, costava 44 euro a notte (abbiamo prenotato con Booking). Belli anche gli spazi in comune. Se poi potete spenderci anche dieci euro in più, carinissimo anche il B&b Ottoh Charm, proprio nell’edificio a fianco.

Piccola segnalazione per le tapas, che in generale, mi sono piaciute un po’ di meno (almeno come varietà) rispetto alle ‘sorelle’ andaluse. Però la Taberna El Olivo, in una piccola piazza del Barrio del Carmen mi è piaciuta (bottiglia di vino e quattro tipi di tapas al costo di 50 euro complessivi). Per la colazione, invece, ci siamo trovate bene nella catena Granier (buono il caffè, sofficiose le brioches).