Latest Posts

Bagno Vignoni

Un giorno a Bagno Vignoni

Bagno Vignoni alta

Bagno Vignoni alta

Dopo diverse scorribande, ho finalmente capito qual è il mio angolo preferito di Toscana. Ho avuto la fortuna di visitare parecchie zone, dall’Appennino fra Bologna e Firenze alla Maremma (mi mancano solo Livorno e Pisa, devo rimediare), ma il mio cuore batte per la Val d’Orcia. Fin qui sento di non essere molto originale, mezzo mondo la ama, ma restringerò di più il campo: il posto in cui ho sentito l’urgente voglia di tornare nei giorni scorsi  è il piccolo borgo termale di Bagno Vignoni. Visto che ne avevo già parlato in questo post più di un anno fa, questa volta racconto un itinerario diverso, scelto per far vedere a Patrick (che è stato sette volte in Giappone e mai qui) quello che mi pareva imperdibile per una prima volta. La bellezza da queste parti si paga, ma un paio di giorni permettono di vedere molto senza svenarsi, a patto di non esagerare con il signor Brunello di Montalcino.

Bagno Vignoni

Ci sono stata in primavera, in autunno e in pieno inverno. E tutte e tre le volte ho apprezzato un’atmosfera diversa. L’energia delle prime giornate in maglietta nella fiabesca campagna toscana, o i vapori che si alzavano nel buio dalla vasca romana al centro del piccolo borgo. L’ultima volta a incantarmi sono stati i colori caldi di metà ottobre: l’acqua rifletteva gli edifici che si affacciano sulla corte rivestendoli di una luce dorata. Insomma, questa minuscola località termale circondata da ulivi che si trova poco prima di San Quirico d’Orcia mi regala sempre sensazioni di pace. E il bello è proprio che tutto qui ruota attorno all’acqua, che in pieno centro sgorga a 52 gradi. Incantevole anche la piazzetta su cui si affaccia la Locanda del loggiato, il posto ideale per dormire: la sala comune per prendere un tè e fette di torta davanti al camino vale il viaggio.

La sala della colazione della Locanda del loggiato

La sala della colazione della Locanda del loggiato

Per il resto c’è qualche negozio di prodotti tipici, una libreria, una famosa erboristeria e qualche locale per mangiare. Fra questi, segnalo l’Osteria del leone. La cucina è ottima, ma si paga la posizione isolata nel borgo: 90 euro per due calici di vino, due antipasti, due secondi e senza dolce. Comunque, basta saperlo per decidere se investire 20 euro in un piccione arrosto (davvero delizioso, non mi pento).

Questa mattina il risveglio è da qua #bagnovignoni #valdorcia #toscana #tuscany #igerstoscana

Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

Questa volta, comunque, ho scoperto nuove cose. Come la lapide romana che si trova oggi sotto il loggiato che racconta di dei e ninfe. Mi affascina che dall’antichità questo luogo non abbia cambiato troppo identità. L’altra cosa che ho capito è che il giovedì è il giorno peggiore per trovarsi nei paraggi visto che sono chiuse le vasche termali all’aperto. Sono aperte tutto l’anno, fino alle 17 (nel fine settimana si può andare anche di sera), tranne, appunto, il giovedì. Questo significa che anche altre attività del posto si fermano nello stesso giorno. L’esperienza termale, così, l’abbiamo fatta all’Hotel delle Terme: nei giorni infrasettimanali l’accesso costa 28 euro e rinnovo il mio giudizio positivo: è un luogo curato, ma semplice, per un autentico relax. L’altra scoperta entusiasmante è stata Bagno Vignoni ‘alta’.

Le vasche all'Albergo Le Terme

Le vasche all’Albergo Le Terme

Lasciando il parcheggio gratuito all’ingresso del paese, si imbocca una strada sterrata che gira sopra il borgo. Ci siamo inerpicati alla ricerca di una cantina imbattendoci in distese di viti che disegnavano le colline. Davanti a noi, il cucuzzolo di Rocca d’Orcia, circondata da un’esplosione di toni caldi e rossastri. Ovunque pampini verdi mangiati dal giallo, mentre i cipressi scuri definivano i profili dei campi. Nel sottobosco, invece, le macchie rosa dei ciclamini. E’ in questo paesaggio incantevole e rassicurante che sorgono le case in pietra di Bagno Vignoni alta: come sempre in certi borghi, purtroppo, la sensazione è un po’ di desolazione, fra quegli scuri serrati nel silenzio, ma la pace risuona fra queste case perfette e la graziosa chiesa romanica di San Biagio, che sembrano uscite da un mondo perduto.

Autunno in #valdorcia #bagnovignoni #vino #countrysidelife   Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

 

Autunno #tuscany #toscana #valdorcia #bagnovignoni #countrysidelife

Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

Ho introdotto l’argomento vino. Ovviamente è parte importante di questo itinerario, così come lo straordinario olio extravergine di oliva. Un’ottima sintesi si trova nell’azienda Poggio Grande, guidata da Luca Zamperini e famiglia, che ci ha accolto con una interessante degustazione guidata (anche senza prenotazione, ma nel dubbio chiamerei). E da queste parti non è scontato visto che siamo a un passo dai grandi signori del Brunello, abituati ai danarosi gruppi di stranieri. Qui, invece, abbiamo  bevuto la Doc Orcia, che proprio il proprietario ha contribuito a far nascere qualche anno fa insieme con altri produttori. Abbiamo provato un ottimo Sangiovese base, il Piano, e la riserva, il Sesterzo (18 euro). La scelta dell’azienda è di farlo riposare dai 24 ai 30 mesi in legno, lasciando il vino il minimo possibile in acciaio. Abbiamo assaggiato l’annata 2013, davvero buonissimo. Vale anche per il Syrah, che nasce in vigne collocate sopra i 600 metri. I vini poi dipendono dalle vendemmie: se non è soddisfacente per una determinata etichetta, questa non esce e i produttori puntano su altre bottiglie. Infine, l’olio: abbiamo avuto la fortuna di assaggiare quello appena fatto, nel vero senso della parola. Le olive erano state raccolte il pomeriggio prima: tutta la notte è stata fatta la filtrazione (con il cotone) e la mattina stessa era stato imbottigliato. Wow.

A qualcuno piace rosso #valdorcia #sangiovese #toscana #tuscany #poggiogrande

Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

La dentiera di Wellington

Le città della Nuova Zelanda

La Nuova Zelanda è famosa soprattutto per la natura, nessuno ci andrebbe soltanto per le città. Io stessa, appena arrivata a Auckland, ho avuto la sensazione che fosse un po’ priva di forma e di coerenza, anche se poi ora penso che come giudizio sia stato ingeneroso. Dovendo selezionare le tappe di un viaggio fin laggiù è ovvio che consiglierei prima altre mete, ma non si possono tralasciare alcune città per capire meglio quel senso di novità e libertà che si trova in tutto il Paese. Una premessa: le città della Nuova Zelanda non sono grandi. L’unica ad avere dimensioni da metropoli è Auckland, mentre la capitale Wellington, in quanto ad abitanti sembra più una nostra città di provincia. In tutto il resto delle due isole ci sono praticamente solo paesi, alcuni costituiti da una strada con case a lato. Ma questo è poi uno degli aspetti più interessanti.

Auckland

Parto da qui la rassegna delle città della Nuova Zelanda perché ospita l’aeroporto dove normalmente atterrano i voli intercontinentali. E’ l’unica metropoli della Nuova Zelanda: un milione di abitanti, sui quattro totali, vive qui. Il centro non mi ha fatto un’impressione particolare: la piazza principale sembra quella di un centro commerciale e nei paraggi si trovano soprattutto ristoranti e fast food. Le strade in questo punto della città poi sono piuttosto larghe e trafficate. In una di queste, Victoria Street, si sale sulla Sky Tower, cosa che consiglio di fare subito appena arrivati. Una visuale dall’alto è importante perché consente di cogliere la vera essenza di Auckland: quella di essere una città portuale, che si distende fra due due mari (quello di Tasmania e l’oceano Pacifico). E, non a caso, uno dei locali più belli lo abbiamo trovato lungo la marina (lo Snapdragon, ambiente un po’ hipster e ostriche favolose). L’altro elemento che si coglie fra i palazzi che sembrano distribuiti senza un piano troppo coerente, sono i vulcani estinti: oggi sembrano colline che svettano fra le case. Noi siamo saliti fino al Monte Eden, dove si trova uno di questi crateri, ricoperto di quell’erba brillante così ricorrente in Nuova Zelanda. Terzo aspetto, sono proprio le colline, i vari su e giù che ritmano la città. Uno dei quartieri più belli è quello di Parnell, con case basse di legno, che risalgono agli anni Trenta. Oltre alla serie di ristorantini e locali etnici, molto vivaci la sera, si trova anche una delle chicche dal punto di vista architettonico: la chiesa bianca di Saint Mary. L’interno, completamente rivestito in legno scuro, garantisce un salto indietro nel tempo. Con un’altra mezza giornata a disposizione, è davvero bella la gita alla Waiheke Island. E’ un posto unico, perché si trova un clima straordinariamente simile al nostro Mediterraneo e da poco tempo hanno iniziato a coltivare l’olivo. L’isola, una volta amata dagli hippy, è soprattutto famosa per il vino ed esistono tour che accompagnano in alcune aziende per le degustazioni davvero ben fatti. Il must qui è il rosso (taglio bordolese).

Fra le città della Nuova Zelanda, Auckland è la più grande

Fra le città della Nuova Zelanda, Auckland è la più grande

Cantina Peackok a Whaeneke Island

Cantina Peacock Sky a Whaeneke Island

Whaeke Island

Whaeke Island

French toast, una delle colazioni tipiche

French toast, una delle colazioni tipiche

Wellington

E’ la capitale del Paese e, rispetto a Auckland, ha l’aria più compatta. Ripeto: in nessuna di queste città si passeggia per un bel centro storico e gli sparuti palazzi d’epoca (che qui è poi un fine Ottocento) sono un po’ inghiottiti dai grattacieli. Ma è lo stesso, perché a Wellington bisogna cercare altro. Ad esempio i bar, i musei, e il porto. Partiamo da quest’ultimo. La città è affettuosamente soprannominata dai neozelandesi windy welly e da quello che ho capito da queste parti certi giorni soffia una specie di bora. Noi siamo stati fortunati perché Wellington ci ha regalato una di quelle giornate terse di inizio primavera, ideali per passeggiare sul lungomare. Il porto è ‘antico’ e vi si trova anche la più vecchia gru ancora in attività. Ma la cosa più bella è guardare le persone del posto (che passano di qui anche per accorciare il tragitto, più lungo se si attraversa il centro). La mattina la gente che va al lavoro cammina di fretta, mentre in pausa pranzo è incredibile in quanti vengano qui per correre. Belle le sculture letterarie, che formano un vero e proprio itinerario per la città e anche alcuni locali, fra cui lo stiloso Fish Shack. Sempre sul mare c’è il Te Papa, il museo più famoso del Paese. E giustamente direi, visto che è come un libro aperto sulla storia neozelandese e sulle tradizioni maori. I reperti non sono molti, ma è un luogo ben rappresentato dal nome, che significa scrigno del tesoro. Articolato su cinque piani, all’interno c’è di tutto: dalla casa che simula una scossa di terremoto, al calamaro gigante, fino al Trattato di Waitangi, che ha segnato l’inizio della sovranità (ancora controversa) inglese. Consiglio la visita delle 10.30 con una guida locale (la nostra aveva il padre maori): fornisce alcuni strumenti di lettura del museo, da rivedere poi con calma da soli.  Terzo consiglio: salire sulla cremagliera rossa che porta ai giardini botanici e tornare a piedi in città, passando per un cimitero monumentale insolitamente attraversato da una tangenziale. Imperdibile anche la visita al centro di produzione Weta, dove in paio d’ore si arriva a capire che razza di lavoro meticoloso ci sia dietro ai kolossal come ‘Il Signore degli anelli’.

Il cable car di Wellington

Il cable car a dentiera di Wellington

Porto di Wellington

Porto di Wellington

Porto di Wellington

Porto di Wellington

I bagni pubblici, con la solita dose di ironia neozelandese

I bagni pubblici, con la solita dose di ironia neozelandese

Christchurch

Che cosa pensereste se la vostra città avesse una voragine nel centro storico? Se le case fossero o abbattute, o in ricostruzione o inagibili? Se quello che è il cuore pulsante della città fosse un cantiere? Così ci è apparsa la seconda città più grande della Nuova Zelanda, profondamente segnata dai due terremoti che l’hanno colpita fra il 2010 e il 2011. E così, quella che doveva essere un punto di riferimento per gli studenti universitari, oggi si sta rialzando, e con grande vitalità. Anche se, devo dirlo,  il clima sembra essere più capriccioso che mai e vedere quelle case puntellate e la cattedrale squarciata fa impressione.  A proposito, la nuova cattedrale provvisoria, interamente realizzata in plastica e cartone è commovente, soprattutto se avrete la fortuna di trovarvici durante una cerimonia e di sperimentare la calorosa spiegazione dei volontari. Questa chiesa è un vero simbolo di speranza. L’altra cosa emozionante di Christchurch, nata per essere più somigliante possibile alla madre patria, è che è un affaccio sul futuro. Permette di capire come una città verrebbe costruita ora, da capo, negli anni Duemila. E quindi si può disegnare un luogo con materiali nuovi, con una maggiore attenzione all’ambiente. Ad esempio il nuovo Mall è una serie di container colorati. Ma, se pur provvisorio, spero che resterà così perché questi  negozi piccoli e bassi sono davvero vivibili ora. Molte case di legno, per fortuna, hanno resistito alle scosse. Fra queste c’è la bella guest house che ci ha ospitati e un ristorante ricco di personalità: l’Harlequin Public House.

La cattedrale temporanea in plastica e carta

La cattedrale temporanea in plastica e carta

La cattredrale oggi

La cattredrale oggi

Queenstown

E’ un mix fra una città asiatica per backpackers e Cortina. Ma non vuole essere un giudizio negativo, perché Queenstown, adagiata sul lago e circondata da cime innevate, è davvero frizzante. Però paga la sua notorietà cedendo parecchio al turismo. Se da una parte si trova un po’ di tutto, come alloggi, ristoranti e attività, dall’altro è l’unico posto in Nuova Zelanda dove ho trovato una boutique di Luis Vitton. Nel senso: per un attimo è sparita quella sensazione di trovarsi in capo al mondo e sono stata contenta di non avere pernottato qui. Qualche ora nel posto probabilmente più famoso dell’Isola del sud a me è bastata. Però penso che per sciare sia davvero stupendo, su quei monti Remarkables che svettano davanti al paese. Così come, nella città che dà i natali al bunjee jumping, ci si può avvitare in acqua dentro la sagoma di uno squalo, o lanciarsi sull’acqua con delle jet boat. Giusto per citare alcune delle attività adrenaliniche proposte dagli uffici turistici. E poi c’è un’altra cosa: i dintorni di Queenstown, in compenso, sono bellissimi. In questo  punto dell’Otago centrale si può fare un giro in bici fino alle cantine della Gibbston Valley o un salto nel tempo a Arrowtown, minuscolo paese che sembra rimasto fermo ai tempi della corsa all’oro.

Bungy jumping con vista

Bungy jumping con vista

Queenstown

Queenstown

 

Fra Blenheim e Kaikoura

Emozioni di settembre: Nuova Zelanda, l’itinerario

In questi giorni mi stanno chiedendo tutti com’è la Nuova Zelanda. Cosa mi è piaciuto di più, quanto tempo serve per girare il paese, com’è la gente. E il Signore degli Anelli? Domande difficilissime, perché questo viaggio è stato troppo speciale, lungo e lontano per rispondere su due piedi. Più volte, in quei giorni laggiù, dall’altra parte del mondo, ho pensato ai mille spunti per il blog, alle mille cose non ancora lette e da scrivere, ma iniziare è complicato. E’ complicato riordinare i pensieri, che per quasi tre settimane, sono andati e venuti, come le maree che tutti i giorni ridisegnavano la costa. Del resto la Nuova Zelanda aveva il carico da novanta del viaggio di nozze, che ci ha racchiusi un po’ come in una bolla. Siamo partiti con emozioni fortissime, avvolti dal calore degli amici, e quelle emozioni sono cresciute di continuo, in un Paese che non mette alla prova come altri, ma che stupisce ogni giorno per il senso di possibilità che si respira.

La prima risposta  provvisoria a tutte quelle domande forse è questa: la Nuova Zelanda è un Paese ancora da scrivere. L’idea della novità racchiusa nel suo nome è anche il tratto più forte della sua personalità. Per ora l’unico modo per rompere il ghiaccio e far sì che il racconto prenda pian piano la sua strada, è iniziare con l’itinerario. Anzi, no, con una selezione di cose. Quando viaggio con l’amata Routard (non in questo caso, purtroppo) mi piace leggere, prima e dopo, la lista dei posti scelti dall’autore. Ecco, questa volta lo faccio io con la mia Nuova Zelanda.

Isola del Nord

  • Matamata- Hobbiton
    La prima lezione della Nuova Zelanda è quella di coltivare la fantasia. I pensieri prendono vita. E’ stato così anche per Peter Jackson, regista del Signore degli Anelli che, mentre leggeva Tolkien in treno, guardando fuori dal finestrino, si rese conto di una cosa: quei luoghi descritti nel libro erano proprio lì fuori, sotto i suoi occhi. E dopo un bel po’ di anni sappiamo tutti come è andata a finire. Tutto questo per dire che Hobbiton, il set cinematografico in cui è ambientata la placida Contea, è davvero un luogo da fiaba. Mostra il volto rassicurante della natura neozelandese: dolci e verdi colline, agnelli belanti, alberi contorti, gli orti con gli spaventapasseri. Del resto, la visita si snoda proprio dentro una fattoria tuttora in attività.  Che amiate il libro o meno, passeggiare fra le colorate casette hobbit che sbucano sotto un manto d’erba accende l’immaginazione e permette di cogliere il lato fiabesco di un Paese che è rimasto disabitato fino a meno di mille anni fa e mostra ancora un lato primordiale. E, per noi che veniamo dalla vecchia Europa, non è un dettaglio da poco. 
Nuova Zelanda a settembre: nei pressi di Hobbiton

Nuova Zelanda a settembre: nei pressi di Hobbiton

Hobbiton in Nuova Zelanda

Hobbiton in Nuova Zelanda, il set cinematografico

Case Hobbit a Hobbiton in Nuova Zelanda

Case Hobbit a Hobbiton in Nuova Zelanda

  • Rotorua
    Acqua che bolle, gayser, odore di zolfo. A proposito di terra giovane, ecco una delle zone dove l’attività geotermica è più dinamica. Dalla strada si vedono colonne di vapore che si innalzano in lontananza, nella vegetazione. A Rotorua c’è un po’ di tutto. Ci sono percorsi (sempre a pagamento, ma molto ben fatti) per vedere pozze e rocce colorate (il più affascinante è fuori dal paese, il Wai-O-Tapu). L’acqua termale è protagonista anche nella guduriosa Polynesian Spa, con vasche all’aperto affacciate sul lago. C’è pure una vasta scelta di attività che la guida definisce eufemisticamente ‘ad alto tasso adrenalinico’ tanto cari ai neozelandesi, fra cui la possibilità di venire sparati da una sorta di fionda. Ma, soprattutto, c’è il contatto diretto con la cultura Maori, popolo che ci mette sempre una punta di romanticismo riempendo questi luoghi di leggende. Dico così perché si può partecipare a serate organizzate in un villaggio, con tanto di cena tradizionale e spettacolo. E’ una ‘turistata’? Certo. Ma quante volte vi capiterà, diversamente, di essere invitati da una comunità? Come avvicinamento al mondo Maori, non è male, anche perché chi ci lavora ci mette davvero molta passione.
Te Puia, Rotorua, Nuova Zelanda

Te Puia, Rotorua

Wai-O-Tapu Thermal Wonderland

Wai-O-Tapu Thermal Wonderland

Itinerario in Nuova Zelanda: la strada fra Blenheim e Kaikoura

Itinerario in Nuova Zelanda: la strada fra Blenheim e Kaikoura

  • Napier 
    Nessuna città, in Nuova Zelanda, è indimenticabile. Ma Napier ha una storia a sé, che per certi versi racconta un altro aspetto del Paese: che i terremoti da queste parti possono fare davvero sul serio. Nel 1931 questa cittadina sul è stata devastata da violente scosse, ma la gente non si è persa d’animo. Il piccolo centro è stato ricostruito in fretta con lo stile del tempo e oggi Napier è un punto di riferimento per gli amanti dell’Art Déco. Per altro, curiosando fra gli edifici con una guida del posto (visite come queste ci sono tutti i giorni), si scoprono anche originali commistioni con i motivi maori. Insomma, merita una visita, anche per il clima soleggiato, un paio di ristoranti indiani e per sentirsi per l’ennesima volta dentro un film dormendo in tradizionali guesthouse (la nostra era incantevole, Cobden Garden Homestay). E poi i vini. La zona circostante, da Havelock North alla Hawke’s Bay, è un trionfo enogastronomico. La Lonely Planet ha sintetizzato tutto alla perfezione spiegando che a Napier tutti sono ossessionati da arte, cibo e vino. In questo gruppo ci sono notoriamente pure io.
Un edificio in centro a Napier

Un edificio in centro a Napier

Nelle vie di Napier

Nelle vie di Napier

Isola del Sud

  • Abel Tasman National Park
    E’ una delle Great Walk neozelandesi. Tradotto: uno dei percorsi escursionistici più amati del Paese. Sono 54 chilometri di sentiero fra foresta e un tranquillo Mar di Tasmania, che si mangia diverse volte al giorno un po’ della sabbia dorata. Noi l’abbiamo scelto perché si può fare tutto l’anno, ci sono rifugi lungo il percorso sempre aperti (ma riscaldati solo da una stufa a legna) e perché è piuttosto facile (e se lo dico io è proprio così). Ma non per questo è meno affascinante: camminare fra bosco e spiaggia è una cura per l’anima, coccolata da quell’azzurro brillante. Mi piacerebbe davvero rifarlo d’estate per fare un tuffo a ogni tappa. E poi è bello lo spirito di fondo: quando non si vuole più camminare, si aspetta una barca e si torna alla base. Se no si cammina, ci si adegua all’andamento delle maree, si cucina nel proprio fornelletto e alle 18 è già tempo di candele e un libro prima di andare a letto nella camerata del rifugio. Essenzialità, fare attenzioni ai propri passi più che i pensieri: il bello di andare a piedi. Ecco il percorso dettagliato.
Nuova Zelanda a settembre: l'Abel Tasman

La barca lascia gli escursionisti sulla spiaggia dell’Abel Tasman

Abel Tasman, pranzo sul sentiero

Abel Tasman, pranzo sul sentiero

  • West Coast
    La mia parte preferita, la Nuova Zelanda che è entrata nel cuore, la natura che scruta e interroga nel profondo. Ho trovato lungo questa costa tortuosa l’essenza del Paese, il suo spirito di frontiera, di fine del mondo. Il tratto che ho in mente è molto vario, parte da Murchison, cittadina visitata in una sonnolenta domenica, con qualche edificio storico e delle strepitose pie di agnello. E poi il passaggio vicino alla Ghost Road: oggi si inoltra nel bosco in bici, un tempo portava alle case dei cercatori d’oro. I paesi sono minuscoli e la strada che sale e scende regala scorci che obbligano a soste continue fuori dall’auto. Il mare torna protagonista a Punakaiki, dove le onde si infrangono contro i Pancake Rocks con una furia mai vista, mentre, scendendo, si arriva a ghiacciai (Franz Joseph e Fox) talmente vicini al mare da regalare uno dei climi più umidi della terra. E così, si arriva alla bocca del ghiacciaio attraversando una foresta pluviale. Quindi è questo il segreto della Nuova Zelanda: è l’incredibile vicinanza e sequenza di ambienti e paesaggi così vari che rende questa natura così speciale. E’ il fascino dell’incongruo, presente l’isola di Lost?
La spiaggia lunare di Westport , Nuova Zelanda

La spiaggia lunare di Westport , Nuova Zelanda

Pancake Rocks

Pancake Rocks

Fox Glacier

Fox Glacier

  • East Coast
    Tutt’altra musica sul Pacifico. Anche qui ho trovato strade srotolate fra montagna e oceano urlante, ma l’impressione è che questo tratto di costa sveli un lato più rilassato, divertente, da surfisti.  La grande attrattiva viene proprio dal mare, visto che a Kaikoura salpano le barche per andare ad avvistare le balene (viste, ma). Il sapore dell’oceano lo si ritrova nelle buonissime aragosta che si possono mangiare (litigando un po’ con i gabbiani) sulla panoramica strada che porta a Blenheim, cuore della regione vinicola di Marlborough, punteggiata di aziende giovani, ma che la sanno già lunga.
Aragoste cotte e mangiate lungo la strada

Aragoste cotte e mangiate lungo la strada

Aragosta e cozze con vista oceano

Aragosta e cozze con vista oceano

 

Un viaggio che si chiama matrimonio

Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole (Baudelaire)

Ci sono tanti viaggi. Quelli in cui si riempe lo zaino di cose che peseranno sulle spalle e quelli studiati prima sulle guide mentre è la testa a riempirsi di immagini e di aspettative. E poi ci sono viaggi che in realtà sono parti stesse della vita. Non ci accorgiamo delle fermate, ma riusciamo a vederle solo dopo che la strada è segnata, dopo che abbiamo percorso parte di quel tragitto imboccato in modi un po’ misteriosi. Ed è questo il viaggio che sto facendo adesso. Ultimamente sono riuscita a scrivere poco sul blog, ho avuto meno tempo di raccontare luoghi già visti, esperienze già fatte, perché mi sono sentita risucchiata dal presente. E da un futuro molto vicino.

Il fatto è che mi sposo. Mi sposo fra meno di un mese e in questo momento l’idea del viaggio è forte come non mai. Non solo perché questo periodo di preparazione sarà coronato da un viaggio lungo come non ci capitava da molto tempo (un mese, cioè un miraggio), ma perché l’attesa stessa che contraddistingue questa estate sospesa porta con sé bagagli carichi di ricordi, persone, cambiamenti. E, contattando persone per la cerimonia e vedendone altre in occasioni più o meno deliranti come i due (!) addii al nubilato, l’idea di avere fatto un cammino con ognuna di loro è fortissima. Alcune non le vedo più, o le sento meno di quanto vorrei, ma provo nei loro confronti profonda gratitudine per avere fatto un pezzo di strada con me. Sono nel mio cuore, come mia mamma, che ho dovuto salutare troppo presto. Altre saranno con me quel giorno e so che grazie a loro viaggio da anni in prima classe. Altre sono appena entrate nella mia vita, come una stupenda nipotina nata pochi giorni fa.

amiche

amiche

E’ un periodo di bilanci e pensando alle cose fatte fino a qui, non credevo fossero così tante e di certo mi apparivano più confuse. E, invece, anche quando non ci sembra che sia così, siamo in un continuo movimento. A volte l’interno e l’esterno non sono in sincronia e ci dobbiamo lavorare per trovarla, quella armonia. Il matrimonio in sé per me rappresenta ora due immagini diverse: un porto in cui rifugiarsi, non più soli, quando si alza il vento, ma allo stesso tempo il fatto stesso salpare insieme, in mare aperto, verso nuove mete. Oppure sorvolandole, come suggerisce la mongolfiera in mezzo alle nuvole che abbiamo scelto come ‘logo’ per tutta la nostra festa.

A Cuba

Forse è vero che la vita è quella cosa che capita mentre si stanno facendo altri progetti. Ne avevo altri quando ho incontrato Patrick, era diverso il binario. Da subito c’è stato un viaggio. Le sue foto che mi hanno ispirata, fatto venire voglia di partire. Poi le impressioni su un altro viaggio, uno scambio sul Portogallo. E poi c’è stato un suo viaggio in Giappone, perché per capire bisogna aspettare. C’è stata la neve sul mare. E poi c’è stato quel volo per New York, il primo, in una città che per me ha il sapore della libertà. Con lui c’è stata una scoperta, fondamentale; che i viaggi non sono solo in avanti, verso luoghi sconosciuti, ma vanno anche all’indietro, in luoghi già visti, da riassaporare insieme. Si viaggia anche tornando ed è bello farlo in due. Ci siamo innamorati della Grecia, abbiamo ballato a Cuba, siamo stati in silenzio a Gerusalemme e a Sarajevo, abbiamo mangiato, tanto, e bevuto, bene, fra Italia, Giappone, Francia, Spagna. Siamo stati alle Olimpiadi, a Londra, decidendolo il giorno prima. La vita è diventato un lento navigare sul fiume, in Laos.

A Bangkok

A Bangkok

A Hiroshima

A Hiroshima

Neo sommelier

Neo sommelier

E ora c’è il prossimo viaggio, in un altro mondo. La Nuova Zelanda, la terra all’ingiù, così lontana che rimane dalla parte opposta del mondo. L’abbiamo scelta perché unisce la potenza della natura alla particolarità della gente, in un incrocio fra Gran Bretagna e cultura del Pacifico. Poche città, ma con personalità, e tante pecore. E poi c’è il mio amato vino, gireremo per aziende vinicole a caccia di Sauvignon Blanc. E cammineremo, in un trekking nell’Isola del Sud, lungo la costa. Rispetto alla ‘vicina’ Australia, gli italiani sono molto più rari e cercheremo qualche storia interessante da raccontare. E poi, già che ci siamo, faremo un blitz alle Fiji, per vedere se il paradiso è così come lo raccontano. In mano avremo solo i biglietti aerei, il resto lo dobbiamo scrivere noi. Insieme.

Spiaggia di Mondello, Sicilia

Spiaggia di Mondello, Sicilia

Amorgos

Cinque isole della Grecia

Naxos

Naxos

Questo post nasce da un paio di fatti che mi sono capitati negli ultimi giorni. Il primo è stato un video, commovente, regalatomi dalle amiche con foto improbabili  uscite da vecchi album: fra le altre, sono spuntate immagini cartacee di Corfù, di tende e traghetti presi nella notte. E poi due chiacchiere con don Domenico, parroco della chiesa dietro casa. Raccontando del suo annuale viaggio in Grecia, ha detto che ognuno di noi ha il suo paese d’elezione, una seconda patria. E, manco a dirlo, la sua è proprio questa terra di miti ed eroi. Ormai avevamo preso una brutta piega, mettendoci a rievocare in ordine sparso versioni di greco, Saffo e lacrime a Micene (capita ai malcapitati studenti del liceo classico). Anche per me questo Paese è speciale, con il suo relax accogliente, il suo azzurro, la magia sprigionata delle poche rovine rimaste. L’ho snobbata per anni pensando che tanto era dietro l’angolo e avrei avuto tanto tempo per andarci, un giorno. E invece i propri ‘luoghi’ bisogna inseguirli sempre, il prima possibile, per riequilibrare le nostre vite passate a rincorrere il tempo. “La Grecia? Quattro sassi”, diceva quando ero piccola un collega di mio padre.

Per me non è così e soprattutto le isole sono posti in cui vorrei tornare tutti gli anni. Anche perché serve tempo per vederle tutte: tanti frammenti in quel mare stupendo che è l’Egeo. Nel caso in cui qualcuno sia indeciso su quali vistare, ecco qui le mie. Non sono tante, ma tutte con una personalità molto diversa. Metto le mani avanti: alcune le ho viste una decina di anni fa, ma credo che lo spirito dei luoghi ci metta un po’ a cambiare (fortunatamente è un po’ cambiata la qualità delle foto, invece).

Paxos, fuga

Paxos, qualche anno fa

Paxos, qualche anno fa

Parto da questa isola delle Ionie perché è stata la prima che ho visto. Sono arrivata in traghetto dall’Italia: cinque amiche e un appartamento per due giorni. L’isola è davvero minuscola (non c’era neppure l’acqua, la portavano, ricordo, dalla terraferma) e ancora più piccola è l’isoletta che le sta davanti (anti-Paxos), che si raggiunge con un breve tragitto in barca. Un giorno abbiamo noleggiato l’auto e praticamente l’abbiamo girata tutta in poche ore. Mi è piaciuto il senso di isolamento, la tranquillità di Gaios, il villaggio di pescatori principale, il bel mare azzurro. Scendendo lungo un sentiero fra gli ulivi abbiamo scovato una incantevole caletta: questo è il modo di vivere il mare qui. Ecco quindi un piccolo rifugio per sentirsi fuori dal mondo: alla Grecia riesce alla perfezione questo ruolo di porto che mette al riparo dai pensieri pesanti e rumorosi.
Come arrivare: dal porto di Igoumenitsa (avevamo viaggiato tutta la notte prima da Ancona) si prende un traghetto. Il viaggio dura circa un’ora e mezzo.

Corfù, amicizia

Pineta e mare a Corfù

Pineta e mare a Corfù

Sono passati dieci anni, ma il ricordo più netto è l’assalto dei proprietari di case appena messo piede giù dal traghetto. Il secondo è che Corfù, rispetto a Paxos, sembrava enorme. E in effetti questa isola è molto grande e me la ricordo  divisa a metà: il sud era praticamente in ostaggio di inglesi in vacanza, fra pub, musica a tutto volume e ragazzini ubriachi e guardie mediche. Per una sera ci divertimmo molto, ma direi che alla lunga è meglio girare alla larga. Corfù non è la classica isola greca idilliaca con casette bianche, ma offre la possibilità di fare parecchi giri (consiglio il noleggio dell’auto viste le dimensioni) e provare tantissime spiagge diverse. La città di Corfù ha una marcata impronta veneziana, me la ricordo vivace, piena di vicoli e negozietti. Noi abbiamo fatto base al campeggio Dionysus, carino e pulito e piuttosto vicino alla città principale. Un buon punto in cui fare amicizie, begli incontri e tante chiacchiere fra amiche. Qualche posto che consiglierei: la spiaggia di ciottoli, dall’acqua freddissima, di Paleokastritsa; il paesino di Kassiopi, per mangiare sul mare, la spiaggia argillosa di Sidari con il canale dell’amore. E poi una gita al monte Pantokrator, per visitare monasteri e fermarsi nelle taverne a mangiare il pesantissimo sofrito. E poi una tappa d’obbligo alla villa dei Durrel: se non avete ancora letto il romanzo ‘La mia famiglia e altri animali’, beh, dovete recuperare subito.
E’ un’isola verde, vasta. Meno affascinante di altre, ma ha il grande vantaggio di essere divertente, con una buona vita notturna e, per chi preferisce spostarsi in traghetto, molto vicina all’Italia.
Come arrivare: sempre dal porto di Igoumenitsa. In alternativa si può anche prendere l’aereo (vola pure la Ryan Air).

Naxos, ritorno

La 'Portara' (Foto di Patrick Colgan)

La ‘Portara’ (Foto di Patrick Colgan, 2013)

Il mio ritorno in Grecia inizia con la scoperta delle Cicladi, l’arcipelago più vicino all’idea che più comunemente abbiamo delle isole: paesaggio estivo brullo, case bianche colorate delle bouganville e mare di un blu intenso. Naxos la scegliemmo perché aveva tanti ingredienti: dimensioni medie, per potere girare bene tutta l’isola in cinque/sei giorni, una buona cucina, alcune valli verdi adatte alla coltivazione della vite, villaggi immacolati dove resistono le tradizioni legate alla musica dionisiaca. E, appunto, una buona dose di mitologia legata a Teseo e Arianna (quelli del minotauro per intendersi); alcuni resti archeologici rafforzano questo aspetto, prima su tutti la ‘Portara’. Questa apertura sul mare, l’unica cosa che resta del tempio di Apollo, è l’immagine più suggestiva, soprattutto al tramonto, quando la gente si raduna sulla scogliera per vedere il disco solare tuffarsi in mare dietro il marmo. E poi ci sono i kuroi, due giovani di pietra addormentati da secoli nella boscaglia. Insomma, Naxos è un’isola che ben conosce il turismo – come dimostra l’affollato passeggio sul lungo mare di Chora la sera-, ma che lo sa gestire. Più adatto forse alle famiglie o alle coppie più che ai giovani in cerca di divertimento (per quello si può scendere alla fermata prima, Paros), offre comunque alcuni locali molto carini. Il nostro preferito era il Kitron, dove propongono il liquore tradizionale anche in versione cocktail.

Isole della Grecia: Koronida, Naxos

Koronida, Naxos (Persorsi, 2013)

 

Naxos (Foto di Patrick Colgan)

Naxos (Foto di Patrick Colgan)

Qualche suggerimento: sono suggestivi i due paesini dell’interno Koronos Koronida: macchie bianche in un susseguirsi di stradine e vicoli. Vale il viaggio una pausa da Matina Stavros per una moussaka da gustare sotto il pergolato. E poi le miniere, abbandonate, di smeriglio: i vecchi binari regalano scene da far west. E poi le chiese: ce n’è una per ogni giorno dell’anno: sorgono ovunque, su ogni altura o vallata come puntini da unire di un grande disegno.
Come ci si arriva: dal Pireo di Atene. Il traghetto lento impiega circa 6 ore, ma il viaggio si accorcia molto (ma costa circa il doppio) sulla nave veloce. Lo consiglio comunque a chi non ha l’auto. Resta anche l’opzione aereo.

Santorini, mistero

E’ impossibile non lasciarsi avvolgere da questa sensazione, nonostante la ressa di turisti a Firà cerchi in tutto modi di intaccare il fascino di questa isola bruna, bruscamente mutilata dall’eruzione vulcanica di 3.600 anni fa. Anche se per vedere un tramonto a Oia bisogna sgomitare fra gente di ogni nazionalità (io ci sono stata a inizio luglio, sicuramente un periodo molto gettonato) e la vita è molto più cara che in altre isole, Santorini resta uno di quei luoghi del nostro Mediterraneo dedicati ai sognatori. A chi, camminando sull’isoletta sorta nel cuore della caldera, chiudendo gli occhi viaggia nel tempo fino a una civiltà lontana, spazzata via, in fondo al mare, da quella violenta esplosione. I fiori gialli che spuntano fra le rocce laviche e la terra che fuma mi hanno fatto pensare alla vita che continua dopo i cambiamenti, dopo i terremoti che tutti ogni tanto attraversiamo. Ci possono portare via un pezzo di noi, forse, ma la bellezza attorno resta. Basta già questa visita (tutti i giorni nel porto vecchio partono le barche per le escursioni), e una colazione fatta la mattina presto su un mare intenso e commovente per prendere il traghetto (o l’aereo) e venirsene qui. Ma, per fortuna, non c’è solo questo.

Taverne sulla spiaggia

Taverne sulla spiaggia, Santorini (Persorsi, 2014)

 

Asinelli per turisti

Asinelli per turisti

 

Isole della Grecia: Firà (Santorini) sulla caldera

Firà sulla caldera

 

Santorini dalla caldera

Santorini dalla caldera

C’è un’interessante strada del vino, per soste e degustazioni (ne ho scritto qui). C’è un paesino placido, Pyrgos, da cui si osserva il trambusto da lontano, che ospita un ristorante straordinario, Selene. E poi ci sono le tre spiagge che si raggiungono in barca (scendendo proprio in acqua fino alla riva): la Black, la White (la mia preferita) e la Red beach. Noi le abbiamo girate tutte in un pomeriggio, si paga cinque euro per un passaggio unico.
Come si arriva: dal Pireo sono circa cinque ore con la nave veloce. Ci sono comunque moltissimi voli charter.
Altri link: Bevuta con vista a Santorini

Amorgos, amore

E’ una delle poche isole in cui sono arrivata di giorno, vedendo il porticciolo di Katapola, ingrandirsi pian piano. Con Amorgos è stato amore a prima vista. L’ho capito subito, mentre in auto ci arrampicavamo in modo insolito, passando per cime brulle, popolate da capre, con mulini a vento in lontananza. Per non parlare del primo pranzo a Aegiali, la nostra base, sotto un pergolato. Le melanzane ripiene e la retsina avevano un sapore genuino, rustico. Abbiamo mangiato a fianco a una chiesetta, guardando pesci e farfalle dipinti in terra, per poi comprare un ombrellone e dormicchiare in spiaggia. Amorgos è così: ci si sente in un luogo un po’ selvaggio, agreste, ma con una insolita grazia dettata, credo, dal fatto di non avere perso la propria anima. Non a caso qui l’aereo non arriva, limitando le frotte di turisti e l’isola, lunga e stretta, è attraversata da delle cime che rendono gli spostamenti abbastanza lunghi. Non esiste la fretta, non ci sono pullman, ma solo spiagge, un relitto e un monastero bianchissimo aggrappato alla scogliera.

Amorgos, il monastero della Panagia Hoziovotissa

Il monastero della Panagia Hoziovotissa

 

Isole della Grecia: vista di Amorgos

Amorgos (foto Persorsi, 2014)

 

Katapola ad Amorgos

Katapola, ad Amorgos

 

Amorgos (Persorsi, 2014)

Amorgos, isola di Nikouria (Persorsi, 2014)

Capitolo spiagge: secondo me la più bella è quella di Agios Pavlos, ma mi è piaciuta molto anche quella, al sud, di Kalokaritissa. Qui vicino, per altro, si può vedere il celebre relitto che ha ispirato il film di Luc Besson Le grand bleu. Per quanto riguarda i paesi, incantevole è il centro di Chora, il capoluogo nell’interno: si susseguono chiese, terrazze, pergolati e ristorantini perfetti per un aperitivo. Consiglio vivamente, però, di soggiornare a Aegiali, con graziosi localini animati la sera e il centro diving, o in uno dei paesini che sovrastano il secondo porto dell’isola (è una delle poche ad averne mantenuti due): Potamos, Langada e Tholaria. Sembrano usciti da un’altra epoca con le loro stradine, le scale bordate di bianco e pittoresche taverne. Non posso non nominarne una: Koreutes. Un po’ perché ci sono stata l’ultima sera, già carica di nostalgia. Un po’ perché, davanti alle lucine colorate che tremolavano sul mare, non capita tutti i giorni di ricevere una proposta di matrimonio.

Come si arriva: come dicevo i porti sono due, Katapola e Aegiali. In questo caso il collegamento con Atene è doppio: le navi arrivano sia al Pireo che a Egina. Da qui un autobus arriva direttamente in aeroporto.
Altri link: Andamento lento, Amorgos

 

Bangkok, foto di Persorsi

La mia Bangkok

Il Grand Palace di Bangkok

Il Grand Palace (foto di Persorsi, 2014)

Ci ho messo quei sette mesi (aiuto, il tempo vola) per buttare giù qualcosa su Bangkok. I motivi sono fondamentalmente due: il primo è che ci sono stata davvero poco, appena due giorni. L’altro è che mi pare che poche città siano già state raccontate, fotografate, amate e odiate come questa. Non voglio dire che è un tema inflazionato, anzi, ho sempre letto bellissimi post e articoli, dico solo che Bangkok è una città che non può lasciare indifferenti e che mi pare continui ad attirare  i viaggiatori come una potente calamita. Alcuni li seduce, altri li delude. Per molti è punto di partenza di altri viaggi, come una sorta di porta del Sudest asiatico, per altri è il concretizzarsi di un sogno chiamato Oriente. Inferno e paradiso. Per me è stato un po’ tutte queste cose assieme e il mio piano è di tornarci alla svelta per approfondire un po’ la conoscenza.  E, manco a dirlo su questi schermi, riassaggiare la cucina strepitosa. Intanto, mettendo da parte un po’ di timori reverenziali, mi limito a raccontare quello che è stata per me Bangkok. E, devo dirlo, a me è stata molto simpatica.

All'aeroporto

All’aeroporto

Primo giorno

Il primo impatto è sicuramente quello della cappa di umido. Benvenuta ai Tropici alla fine dei monsoni, del resto. Il caldo avvolgente, però, mi fa sentire bene: Bologna è lontanissima. Non ci resta che salire su un taxi per guadagnare tempo prezioso: è già tarda mattinata e dobbiamo schizzare a presentarci alla città, visto che abbiamo tempo di starci solo fino a sera. In aereo abbiamo già fatto un piano di battaglia: inanellare subito le attrattive più famose. L’albergo è a Silom e partiamo per il Palazzo Reale. Ecco, arrivare non è così facile, capire sul fiume Chao Phraya qual è la nostra barca non è immediato, i cartelli sono particolarmente criptici. Alla fine capiamo che c’è una distinzione fra imbarcazioni turistiche e non e troviamo quella indicata dalla bandiera arancione: è quella giusta. E la prima sorpresa che Bangkok mi offre è questa: mi piace scoprire le città dall’acqua e questa  è già un delirio. Case basse e fitte si affacciano sul fiume, popolato di alghe e rifiuti. Si sentono urla mescolate al rumore del motore delle barche. Mi fa pensare un po’ a una Venezia orientale, ma comunque, nonostante la confusione, già mi rilassa. Entriamo al Grand Palace per il rotto della cuffia: un po’ perché vari personaggi lungo la strada cercano di farci cambiare i programmi, un po’ perché è una giornata di festa. Mi infilo dei pantaloni sui pantaloncini ed entro in un regno già visto tante volte in foto. Le statue sono stupende, i templi sono un tripudio di colori. In uno stanno pregando, e le scarpe sono allineate con ordine sui gradini. Fiori di loto e di frangipane ovunque. Le ho già viste queste foto, ma viverle mi riempie di emozione. All’uscita ecco il temibile acquazzone: in pochi secondi ci piovono addosso secchiate di acqua e ripariamo in un localino per un piatto di noodles. Nei momenti di stanchezza, bagnata poi, è sempre meglio mangiarci su e così ci prepariamo a rimetterci in marcia.

Sulla barca

Sulla barca

 

Bangkok sull'acqua

Bangkok sull’acqua

Dalla barca

Dalla barca

 

Al Palazzo Reale

Al Palazzo Reale

Entriamo così al Wat Pho e lo stupore aumenta. Il temporale ha lasciato un’aria più fresca e luminosa e le pagode luccicano mentre si riflettono nelle pozzanghere. Anche il Buddha sdraiato lo avevo già visto mille volte, ma non avrei mai pensato che questa enorme statua trasmesse tanta serenità. Sono rapita, così come dal tintinnio delle monete che cadono nei contenitori per le offerte. In questo momento conosco solo la pace e la bellezza, tra tutti questi templi, mi circonda. A rendere ancora più speciale questa visita sono alcuni liceali, che si offrono di farci da guida fra i tanti monumenti: loro forse prenderanno un bel voto in Inglese, noi ci divertiamo a sentire le loro spiegazioni su stupa e statue. Per chi ha poche ore da spendere in città, la considero una tappa imperdibile. Chiudiamo con il nostro terzo obiettivo: il Wat Arun, tempio in stile khmer che si staglia sull’acqua. Salire sui gradoni ripidissimi toglie sempre un po’ il fiato (e il fuso orario taglia un po’ le gambe), ma la vista sulla città che si avvia al tramonto ripaga di ogni fatica. Decidiamo di rientrare con un tuk tuk: è la mia prima esperienza su questo mezzo squinternato, divertentissimo, anche se è così che faccio la conoscenza con un altro aspetto di Bangkok: il traffico. Auto incolonnate e smog: questo è il vestito un po’ meno attraente, ma lo prendo così com’è.

Wat Pho

Wat Pho

 

Wat Pho

Wat Pho

Wat Pho

Wat Pho

Secondo giorno

Questo traffico estenuante lo ritroviamo dieci giorni dopo, al nostro rientro dal Laos. Abbiamo ancora qualche ora da passare in città prima di sera e del rientro in Italia. Finisce, così, che siamo in continuo ritardo sui tempi e corriamo verso la Jim Thompson House prima che chiuda. Trovarla non è facilissimo e continuiamo a salire e scendere da una sorta di cavalcavia, ma poi, finalmente, i rumori e la polvere della città restano fuori dal giardino. La casa di questo mercante di seta americano, scomparso in modo misterioso, cosparso di case tradizionali in legno sullo stile della palafitta, è davvero idilliaca. Si entra con una visita guidata e ci si immerge nell’Oriente un po’ leggendario, fatto di statue antiche, porcellane e stoffe pregiate. Amo questo posto, così rigoglioso, dove gli spiriti vengono venerati nelle loro casette piene di fiori e dove nuotano carpe colorate. Intanto il cielo si gonfia e diventa di un colore metallico.

Jim Thompson House

Jim Thompson House

I canali di Bangkok

I canali di Bangkok

Al mercato

Al mercato

Insetti al mercato, la prossima volta prometto che li assaggio

Insetti al mercato, la prossima volta prometto che li assaggio

Il nostro ambizioso piano prevede di arrivare anche anche al Golden Mount, ma è troppo tardi. Saliamo di nuovo sulla barca che passa proprio dietro la casa di Jim Thompson e sembra che la notte ci inghiottisca, mentre sfrecciamo sull’acqua. Arriviamo così a un mercato, bellissimo, colorato, rumoroso. C’è un’umanità davvero sterminata, che cucina, che mangia. Pentole fumanti, piastre, insetti fritti (non ho il coraggio di assaggiarli, ammetto. Manuela di Pensieri in viaggio è stata più brava di me), cibi di cui non so riconoscere la consistenza. E’ un vortice di persone e di odori che stordiscono, e penso che tutto sommato questa città è un po’ faticosa, ma la vita esplode qui a Bangkok. E me ne vado con la sensazione di dover tornare: va bene vedere le parti più ‘famose’ e rassicuranti, ma la prossima volta toccherà (anche) al resto.

Il cibo

Ecco, questo è uno dei validi motivi per tornare il Thailandia. Cucina difficile da trovare in Italia, almeno alle latitudini di Bologna, quella che ho assaggiato a Bangkok è davvero esaltante. Colorata ed economica: meglio di così. L’ho provata in tre modi differenti. Il primo è stato un localino carino, in cui siamo entrati a caso, giusto per trovare riparo dalla pioggia. Si chiama ‘The gate’ con un’aria condizionata ai limiti del possibile, che ci ha servito una zuppa di noodles con maiale e manzo. E’ andata benissimo, così, soprattutto per 75 bat.  Il mio posto preferito è sicuramente, però, il Mango Tree. Si trova in un’antica casa siamese, ricca di fiori e lanterne. Non è solo un bel posto di pace nel caotico quartiere, è che si mangia proprio benissimo. Scegliamo springroll con polpa di granchio, una specie di toast di gamberi fritti e salsa agrodolce, un BBQ di anatra servito in un ananas con latte di cocco e curry rosso, un curry giallo al granchio e un’insalata di noodles con gamberi (tutto a 2.500 bat). Mangiamo divinamente, un posto magico. Per chi non riuscisse a trovarlo, ce ne sono due anche all’aeroporto, buoni per una colazione.

Curry rosso di granchio al Mango tree

Anatra grigliata servita in un ananas

Spring roll

Spring roll

Cibo buonissimo, ma tutt’altra atmosfera al Beer Garden in cui ci porta Paolo, blogger di Wander in Japan. Mi piace il clima rilassato e informale di questa birreria all’aperto in cui si distinguono alcuni turisti, ma in cui cenano soprattutto persone del posto. Tantissimi i giovani stretti nei tavoli illuminati da luci colorate. Il cibo, più verace, è buonissimo: dal curry verde all’insalata di papaya. E fantastico, che peccato, davvero, che il giorno dopo si torna in Italia.

Laos

Laos: il trekking nella giungla

Un albero nella foresta pluviale

Un albero nella foresta pluviale

 Le foreste non sono spazi qualsiasi. Tanto per cominciare, sono spazi cubici. Gli alberi ti circondano, ti guatano, premono da ogni lato, ti impediscono la visuale, lasciandoti intontito e privo di punti di riferimento. Ti fanno sentire piccolo, confuso e vulnerabile, come un bambino sparso in una folla di gambe estranee. In un deserto o in una prateria si ha la sensazione di essere in uno spazio vasto. Ma di una foresta si può solo avere sensazione. Le foreste sono non luoghi, vasti e senza forma. Vivi. Per farla breve, le foreste mettono una gran paura.
Bill Bryson, Una passeggiata nei boschi

Il caldo fiacca le gambe. E’ insopportabile, ma mai quanto la fatica. Non mi ero accorta a Bologna di essere tanto fuori forma. Oppure è questo luogo ad essere così ostile? Detesto i due canadesi avanti a me che avanzano spediti, ma come fanno a non stancarsi? Meglio guardare in basso perché se vedo davvero per quanto continua la salita, la tentazione di lasciar perdere sarà troppa. Ma ormai sono andata avanti, anche dopo la caduta sulle rocce scivolose mentre attraversavamo un torrente e anche se ora la gamba inizia a far male. E poi mi scoccia lasciare le cose a metà, anche se mi chiedo ogni minuto cosa caspita ci sto facendo nella giungla laotiana. Già, come ci sono finita?

Trekking nella giungla in Laos - le risaie

Le risaie nella giungla

Il trekking nella giungla

Fare un’escursione anche solo di un paio di giorni nella foresta pluviale non è un gioco. Lo penso davvero, anche dopo essere tornata intera sulle mie gambe. Almeno se siete in Laos. Non dico neppure che sia un’impresa stile Apocalypse Now, ma, ecco, in questo post vorrei raccontare che non si tratta di un’esperienza da prendere troppo sotto gamba. La mia esperienza parte a Luang Namtha, nel nord del Paese, in un’area protetta incontaminata, perfetta per il trekking alla scoperta dei villaggi tribali. Siamo in una terra di confine, come ho già scritto, dove gli abitanti sono mescolati con i cinesi. Tratti somatici un po’ diversi, in sostanza. Ci si arriva con un viaggio della speranza in pullman da Luang Prabang (la strada è in gran parte sterrata) oppure da Udomxay (noi qui eravamo arrivati navigando sul Nam Ou, invece). La cittadina è la base per esplorare le foreste, ma non pensate di trovare chissà quali negozi con attrezzatura specializzata. Luang Namtha ‘nuova’ è una strada, con guest house, un albergo e alcuni ristoranti dotati di wifi. E tante agenzie. E’ fondamentale partire con una affidabile ed è meglio non lesinare sul prezzo. La nostra esperienza con la Green Discovery è stata positiva, anche se il livello di difficoltà è stato superiore a quello che ci avevano prospettato. Una coppia prevista per il tour la mattina prevista era poi assente perché malata: sarà stato vero? Di sicuro il costo sarebbe stato diviso fra più persone (sei invece che quattro).

Trekking nella giungla in Laos

Nella giungla

Alla partenza  troviamo due guide, di cui una davvero molto esperta. Difficilmente, se no, avrebbe potuto muoversi in quel groviglio di arbusti con ai piedi delle infradito di gomma. Con noi ci sono anche una ragazza francese che lavora per la Green Discovery e due ragazzi che portano il cibo, comprato in un ristorante lungo la strada. I compagni di viaggio, invece, sono due ragazzi canadesi. Dopo circa mezzora in auto arriviamo al punto di partenza:dobbiamo subito attraversare un fiume su una barca strettissima. Tutte le volte resta la sensazione che il minimo spostamento di uno di noi farebbe cadere tutti in acqua.

Poi attraversiamo le risaie: è già molto caldo, ma il mare di piante verdi che ondeggiano rassicura. Il difficile, in realtà, inizia dopo: quando ci inoltriamo nella foresta pluviale. La luce sparisce, sotto strati di alberi, e resta solo una parola: umidità. La natura cresce a dismisura, grandi sono i ragni dalle gambe sottili, grandissimi sono i tronchi degli alberi. E poi c’è un ronzio, continuo, di sottofondo dato da un uccello. Dobbiamo oltrepassare qualche albero caduto. Kit, la guida, va avanti e si inerpica come un capriolo. Se ha mai visto una tigre? Certo, quando era piccolo e si è dovuto arrampicare su un albero. Ragni mortali, invece, in Laos non ce ne sono. Mentre scruto ogni punto a me visibile per vedere se ci sono serpenti, scopro che le gambe sono già così stanche che a mettermi nei guai, per ora, è solo la fatica.

Trekking nella giungla in Laos: il 'tavolo' per il pranzo

Trekking nella giungla in Laos: il ‘tavolo’ per il pranzo

Serve moltissima acqua e tanto anti-zanzare. Qui, fra queste fronde, siamo entrati nel loro regno. La pausa pranzo non è esattamente un banchetto: uno dei ragazzi raccoglie una foglia di banano che diventa il nostro tavolo, mentre dai sacchetti di plastica vengono versati carne, verdure e sticky rice. Si mangia con le mani: per una volta non mi sento poi così affamata e poi sono troppo distratta dai pizzichi. Detesto questi canadesi sempre così entusiasti, anche del cibo piccante. questo sembra fuoco del Monte Fati, ma taccio e mangio.

Finalmente la strada inizia a scendere e sulla nostra sinistra scorre un fiume che rinfresca l’aria e i pensieri. La vegetazione si addolcisce e all’improvviso più che nella giungla mi sento nel sottobosco tipico del mio Appennino. La dose di avventura, però non è ancora finita: bisogna passare sopra un paio di ponti di legno dall’aria scricchiolante. Chi ha visto ‘Indiana Jones e il tempio maledetto’ capirà al volo. Non c’è mai limite al peggio penso: con gli scarponi e lo zaino stare in equilibrio non è così semplice. Altro che parco avventure, che anche vicino a casa mia sbucano qua e là, qui non ci sono corde o moschettoni, è tutto vero. La guida Kit mi tende la mano e anche questa sfida è superata. E’ tutto così nella giungla, una piccola sfida continua per superare i propri limiti, la stanchezza della salita, con l’acqua sulla schiena e i pantaloni lunghi. E poi comunque la lezione la natura te la dà lo stesso visto che mi ritrovo, comunque, quattro feritine: sanguisughe, già staccate per fortuna, ma che hanno lasciato il segno. L’altro insegnamento, quello più importante, è che la natura aiuta a semplificare, ad arrivare all’essenziale. Quando si cammina, e si fa una fatica che sembra mostruosa, non c’è tempo di pensare se non a quello che conta: dove si mettono i piedi. Il superfluo non c’è più, perché bisogna essere leggeri, più leggeri, e anche i pensieri vanno selezionati con cura.

Trekking nella giungla in Laos: il nostro villaggio

Trekking nella giungla in Laos: il nostro villaggio

L’arrivo al villaggio

All’improvviso, in lontananza, si sentono le prime voci e tracce di spazzatura mi fanno capire che ci stiamo avvicinando al villaggio. E’ così, ma non è quello in cui dormiremo noi. Per fortuna, penso, visto che fra la polvere terrosa si aggirano animali di tutti i tipi e donne e le palafitte sono davvero malandate. Ci fermiamo a comprare qualche braccialetto realizzato dalle bambine, che ci guardano con grandi occhi curiosi e insospettiti. E’ sempre così qui: la gente nei villaggi ci guarda un po’ come degli alieni e probabilmente, guardando a come siamo vestiti rispetto a loro, lo siamo. E’ così che proseguiamo verso la nostra destinazione, verso la capanna in cui dormiremo, tutti insieme, sotto le zanzariere piene di buchi. Ma solo dopo avere cenato attorno al fuoco, chiacchierato con i canadesi che ora sono diventati miei inseparabili compagni di viaggio, bevuto assieme. Dopo avere visto calare la notte, prestissimo, perché nel villaggio le luci artificiali non ci sono e del giorno resta solo il fuoco sempre più tenue dei falò.

Nel villaggio dopo il trekking

Nel villaggio dopo il trekking

 

Trekking nella giungla in Laos: la 'vasca da bagno'

La ‘vasca da bagno’

Se rifarei questa esperienza nella giungla? Penso proprio di sì. Almeno in Laos dove esiste una natura realmente incontaminata e dove la varietà etnica è tra le più complesse del Sudest asiatico. Due elementi chiave del Paese, dunque, esplorabili al meglio con queste esperienze di trekking. Il ricordo della fatica nel portare litri d’acqua,  ma anche la freschezza di un frutto appena sbucciato che mi è stato offerto alla fine del sentiero sono vivi con la stessa intensità. Così come la soddisfazione di avercela fatta, ad arrivare fino in fondo.

Altri post sul Laos

Gli atolli di Hamata

Alla scoperta di Berenice

Gli atolli di Hamata

Gli atolli di Hamata (foto di Persorsi, 2015)

Sul Mar Rosso

Sono arrivata ai 32 anni senza avere mai messo piede in un villaggio vacanze. Posti come Sharm El Sheik e simili in Italia non avevano mai suscitato la minima attrazione su di me. E così anche nella scelta di Berenice- il punto più a Sud del Mar Rosso in Egitto- a farla da padrona è stata la voglia incredibile, quasi una necessità, di andarmene semplicemente al mare ad aprile. Pur non essendo un tipo propriamente marittimo, avevo urgente desiderio di caldo e pesci colorati. A prezzi contenuti. E nel tempo di una settimana. Per questo sono state scartate, una dopo l’altra, destinazioni come Tulum, Ko Samui o la Jamaica. Il Mar Rosso, invece, era lì, a una distanza ragionevole. E così, comprata una muta da Decathlon, rispolverate le pinne quasi nuove, eccomi a scrivere dal terrazzino della nostra stanza nel resort. Sotto di me c’è un rigoglioso giardino, costantemente irrigato da giardinieri. Davanti, il mare, che in questi giorni è spesso increspato da un capriccioso vento che ora viene da Nord, ora dal deserto. Le uscite di snorkelling alle tre barriere coralline presenti davanti alla spiaggia sono state un po’ sacrificate, ma ho potuto comunque e immergermi e dire: “Finalmente ho capito perché avete tutti sta fissa del Mar Rosso”.

Berenice

La moschea di Hamata

La moschea di Hamata

Berenice era un porto molto importante nell’antichità, oggi è l’ultimo posto in Egitto dove sorgono (pochissimi) villaggi. Inutile dire che questa resta l’unica modalità per soggiornare qui. La baia di Lahmi, in particolare, dista due ore circa di pullman da Marsa Alam. Poco vicino c’ è un minuscolo villaggio con ospedale e moschea: alcuni beduini pescatori vivono in queste baracche. Il Nilo e la sua valle fertile  è a 250 chilometri e alle spalle dei resort c’è solo una strada, che porta dritta in Sudan. Questo è certamente uno dei posti che io abbia visto che più corrisponde al concetto di “in mezzo al nulla”. Alle spalle dei villaggi sulla costa, insomma, ci sono solo montagne e deserto. L’unico segno della presenza umana, fuori dal microcosmo del villaggio, per me è stato il canto del muezzin a varie ore del giorno. Un contrasto decisamente notevole, visto il clima sempre un po’ artificiale, per quanto piacevole, di un luogo così. Ma i Paesi che presentano contraddizioni sono i miei preferiti da sempre: l’Egitto che ho potuto assaggiare è fra questi.

Il deserto dietro il resort

Il deserto dietro il resort
(foto di Persorsi, 2015)

La marina di Berenice (foto di Persorsi, 2015)

La marina di Berenice (foto di Persorsi, 2015)

Colori terrosi, quasi grigiastri, che si stagliano contro l’azzurro intenso del mare. Questo di Berenice sembra un mondo a testa in giù. All’assenza di varietà nei toni sabbiosi della terra, punteggiata al massimo di qualche cespuglio sulle dune, corrisponde un caleidoscopio di colori sotto l’acqua. E’ come se l’universo sommerso avesse compensato l’aridità di quello in superficie. Coralli rosa, gialli e blu, e pesci di ogni tinta. Mi è sembrato, nuotando, di vedere dispiegarsi sotto di me vere e proprie città, strade, dove ogni tanto passa un vip come un pesce Napoleone o una tartaruga. Mentre nuotavo, mi sono venute in mente le città sotterranee della Cappadocia, dove la vita si snodava sotto la protezione di una pietra. Qui lo scrigno è il mare.

Un pesce Napoleone ( Foto da Sharmegitto.wordpress.com)

Un pesce Napoleone ( Foto da Sharmegitto.wordpress.com)

“Quello che amo del mare è da fuori non vedi nulla, devi andarci dentro”, ha sentenziato uno degli ultimi giorni Pietro, il biologo marino del resort. Sembra una frase scontata, ma di fatto non lo è, perché stare in luoghi come Berenice avvicina oltre ogni previsione alla natura più profonda, proprio come l’imperscrutabile mondo marino. E non mi ha meravigliato più di tanto fare conoscenza di persone, anche in un villaggio vacanze, profondamente innamorate dei viaggi e della natura. Perché in mezzo al nulla, fra vento e mare, terra e sabbia, c’è solo il godimento più intenso del paesaggio e del rumore di onde e risacca. Ci sono siparietti fra gabbiani e falchi di mare intenti a dividersi un pesce appena pescato o l’emozione di nuotare assieme ai delfini. C’è quel timore reverenziale davanti a coralli da non toccare perché bruciano, con l’occhio sempre un po’ attento a evitare il faccia a faccia con lo squalo. E anche se, per chi ama teorizzare sulle differenze fra vacanza e viaggio, qui in Mar Rosso siamo tecnicamente nell’universo vacanza, credo che questo punto, Berenice, sia perfetto anche per i viaggiatori più incalliti – e ne ho conosciuti in questi giorni- per sostare e riprendere ritmi più naturali, del sole e delle maree. Per il resto c’è una sola definizione della vita in questo microcosmo: un polleggio quasi illegale. Sono sicura che anche i non bolognesi possono capire cosa vuol dire.

Cosa fare a Bologna

“Non ricordo se è stato prima o dopo Lucca che sono andata a Bologna- una città così bella che ho mai smesso di canticchiare, per tutto il tempo che sono rimasta lì, la famosa canzone di David Bedingfield, ‘My Bologna has a first name: Pretty…’. Con le sue stupende architetture di mattoni rossi e la sua famosa opulenza, Bologna è chiamata per tradizione, ‘la Rossa’, la ‘Grassa’ e ‘la Bella’. Il cibo è certamente più buono qui che a Roma o, forse, semplicemente usano più burro. Anche il gelato a Bologna è più buono. I funghi qui sono grandi lingue carnose sensuali, e le guarnizioni di prosciutto sulle pizze sembrano merletti che ornano il cappellino di una bella signora. Poi, ovviamente, c’è il sugo alla bolognese, che sbeffeggia sdegnoso qualsiasi altra idea di ragù. Mentre torno a casa da Bologna mi rendo improvvisamente conto che non esiste in inglese un’espressione equivalente a buon appetito”.
Elizabeth Gilbert, ‘Mangia, prega, ama – Una donna alla ricerca della felicità’ 

Bologna è bella, grassa e, soprattutto, tutta da gustare. Questo almeno agli occhi di una scrittrice americana, cui non pare vero scoprire che il sugo alla bolognese di cui si abusa nei menù di mezzo mondo, francamente, sotto le Due Torri è tutta un’altra cosa. Anche se c’è qualcosa di più: Bologna non è solo buon cibo. Quella di raccontare la proprio città come se fosse un viaggio come gli altri mi è sempre sembrata la sfida più difficile, poi, leggendo queste righe, è diventata una necessità. Non mi dilungo negli aneddoti storici, per quello rimando al Museo della Storia di Bologna a Palazzo Pepoli che riassume al meglio tutto quello che c’è da sapere. Per il resto, ci provo: ecco dove porterei qualcuno che visita la città per la prima volta.

Da Piazza Maggiore a Santo Stefano

Cosa fare a Bologna: la chiesa di San Petronio

La Basilica di San Petronio
(foto di Persorsi, 2015)

La cerchiamo sempre in tutte le città: la piazza principale, che qui si chiama semplicemente piazza Maggiore. Quello che mi piace è che è divisa come in due parti, forma una elle. Quella ‘vera’ è incorniciata da San Petronio, rimasta lì come incursione del Medioevo nel presente (non è mai stata finita); dal Municipio con il suo orologio; da Palazzo dei Banchi da cui parte il portico Pavaglione e dal Palazzo dei Notai. In mezzo, il crescentone, il fondo della piazza rialzato. Fra le leggende metropolitane, c’è anche questa: se non vi siete ancora laureati non saliteci sopra. E poi c’è il medievale (ma non originale) Palazzo Re Enzo. Davanti, si staglia il Nettuno: la mitica fontana del Gianbologna. Se avete ancora voglia di esplorare, entrate in Sala Borsa, giusto davanti: sotto di voi riprende vita, protetto dai vetri, il selciato romano.

Il Nettuno di Bologna

Il… lato b del Nettuno
(foto di Patrick Colgan, 2010)

Da sotto il Pavaglione si prende via Clavature. A sinistra, l’oratorio di Santa Maria della Vita è famoso per il gruppo scultoreo di Niccolò dall’Arca: un certo Gabriele D’Annunzio l’ha definito urlo di pietra. Niente da aggiungere. A destra, il Mercato di Mezzo (quello dei mercati e del Quadrilatero è un punto essenziale, ma rimando a questo post per non dilungarmi troppo) e andando sempre dritto si sbuca praticamente in piazza Santo Stefano. E’ la mia preferita, quindi sono di parte. Ma l’acciottolato circondato dal portico che porta fino alla Basilica è un sogno, soprattutto di mezza estate, quando i ragazzi suonano la chitarra sui gradini. La chiesa romanica, poi, è uno scrigno visto che ne custodisce altre sei. Imperdibile.

portico

Le due torri

Eh, mica posso non metterle fra le cose da fare a Bologna. Tutti i bolognesi (anche qui c’è un po’ di scaramanzia all’università, ma vabbé, io mi sono presa due lauree pur violando il tabù) sono saliti almeno una volta sull’Asinelli (quella più alta). Si sale solamente a piedi, ma la vista dai 97 metri, sul rosso dei tetti, vale la fatica. Anche perché da qui si vedono le altre torri rimaste: erano a centinaia qualche secolo fa, ora si contano sulle dita di una mano, ma testimoniano la storia millenaria di questa città, svelano la sua anima medievale. E, francamente, non è poco.  Se state guardando quella piccola, la Garisenda: è proprio lei che è storta, non avete bevuto troppo Pignoletto voi.

Le Due Torri di Bologna

Le Due Torri di Bologna
(foto di Persorsi, 2015)

I portici

Capitolo difficile: a Bologna sono ovunque, sono il dna, l’ossatura della città. Freschi di restauro, o scrostati e coperti da graffiti: c’è di tutto e ognuno ha il suo angolo preferito. Ecco i miei.

  • Quello che da porta Saragozza sale a San Luca. E’ vero, io ho vissuto una vita da queste parti e dopo l’arco del Meloncello mi batte sempre il cuore. Ma per tantissimi bolognesi il santuario che veglia sulla città è luogo di raccoglimento, di desideri da esprimere. E’ un luogo in cui si sale a pensare, a guardare il panorama, fino all’antichissima icona della Madonna custodita nella chiesa. E’ il colle della Guardia e mi piace pensare che vigili su tutti noi. (Si arriva con l’autobus numero 20).
  • Via Fondazza. La strada è stretta e i cornicioni sono sporgenti. Ma il fazzoletto di cielo azzurro che si intravede nelle giornate terse è la quinta essenza della città. Non a caso qui c’era lo studio del pittore Giorgio Morandi (al numero 36 la sua casa museo): l’ispirazione era proprio fuori dalla finestra.
  • Via Santo Stefano. Non solo perché mia madre è cresciuta sono queste arcate. Questo tratto di portico ha ancora le travi da vista in legno e conduce, sotto un grande voltone, a una delle chiese simbolo della città: quella del Baraccano, cui i bolognesi sono molto devoti. Tradizione vuole che passino subito di qui le donne appena sposate.
  • Via Zamboni. Non si può proprio non fare un accenno a queste arcate della zona universitaria. Sono fra quelle in condizioni peggiori e tutta la strada è davvero controversa, ma raccontano anni di storia di contestazioni, di giovani terrorizzati dagli esami, di cicchetti, di occhi alzati al cielo con una corona in testa. Questi sono i portici di tutti e in fin dei conti c’è pure quel gioiello del Teatro Comunale che però lotta da anni con il degrado. Bisogna venire e farsi un’idea della contraddizione: da parte mia è un album di ricordi.

Bologna sull’acqua

Già, non è che stiamo parlando di una piccola Venezia, però sì: Bologna ha la sua storia fluviale fatta di manifatture tessili. La città è attraversata dal Reno e l’Aposa scorre ancora nelle sue viscere, affiorando in alcuni punti (organizzano anche delle visite guidate e non solo in centro) . Fra questi il più romantico è quella che chiamiamo ‘finestrella’: un pertugio sotto un portico che si spalanca su un canale. In certe stagioni è l’acqua è molto bassa, ma in altre regala momenti magici. Si trova in via Piella, una parallela di via Indipendenza. Altro luogo bellissimo, rinato pochi anni fa, è il Cavaticcio: giardino che oggi resta dietro l’area del cinema Lumière e della facoltà Scienze della Comunicazione (quella vera, quella fondata da Umberto Eco).

La finestrella di via Piella (Foto da commons.wikimedia.com)

La finestrella di via Piella (Foto da commons.wikimedia.com)

I musei

Solo un assaggio di quelli che mi sembrano più originali. L’Archiginnasio è uno scrigno prezioso, che custodisce sia libri che il teatro anatomico. Pochi passi più in là c’è anche il museo Archeologico che vanta una ricca collezione egizia. Ci sono anche gli etruschi, che vengono un po’ trattati come i ‘cugini poveri’ dei Romani: vale la pena di conoscere anche loro. In zona universitaria, invece, merita il Museo delle cere anatomiche, anche per omaggiare la storia accademica di Bologna, ancora oggi vera calamita per gli studenti fuori sede.  Per chi non avesse ancora abbastanza, c’è anche Palazzo Poggi: lascio che sia Claudia di Viaggi verde acido a raccontarlo. Capitolo arte: per chi ama il classico, nella Pinacoteca in via Belle Arti si fa un tuffo nel passato dei Carracci ( e non solo eh), per chi preferisce il contemporaneo, è obbligatorio il Mambo, che ha anche una bella collezione permanente. Molto carino anche il bar annesso, ottimo per un aperitivo. Ah, si trova in via don Minzoni. Ultimo indirizzo, aperto però solo nel weekend: il Museo per la memoria della strage di Ustica, sconcertante ed emozionante.

Il Mambo (foto tratta da www.Bolognawelcome.com)

Il Mambo (foto tratta da www.Bolognawelcome.com)

Via del Pratello

Per la sera, non c’è luogo migliore per la movida. In una sola strada si susseguono osterie, birrerie, sfogline e ristoranti e tutti frequentati tanto dai ‘forestieri’ fuorisede, che dagli autoctoni e diffidenti bolognesi. Una certezza per mangiare fino a tardi o anche solo per stare seduti come i giovani in piazza San Francesco. Ho detto tutto, per il resto bisogna venirci (si arriva da piazza Malpighi).

Uno dei tanti locali di via del Pratello: il Rovescio (Foto da Facebook)

Uno dei tanti locali di via del Pratello: il Rovescio (Foto da Facebook)

Bologna la verde?

Un po’. Nel senso che l’unico vero grande parco cittadino, subito fuori da porta Santo Stefano, sono i Giardini Margherita, inaugurati alla fine dell’Ottocento. Però Bologna è pur sempre circondata dai colli, quindi il discorso si allarga. Sul fronte parchi, i ‘giardini’ sono molto grandi, con un locale storico ‘Lo Chalet’ e uno nato negli ultimi anni che amo moltissimo, ‘Le Serre’: tavolini immersi nel verde e illuminati da lucine colorate. Bellissimo. In mezzo al parco, c’è “il laghetto” abitato da papere. Tutti ci siamo andati col primo fidanzato, col primo sole, dopo la scuola, al posto di una lezione all’università. Tutti ce li abbiamo nel cuore. Altri due parchi grandi sono il Talon, verso Casalecchio (autobus 20), grande polmone collegato anche a San Luca attraverso il bosco. E poi c’è il parco dei Cedri, ma ormai siamo a San Lazzaro, sul Savena. Per me sono le colonne d’Ercole (autobus 19), ma riconosco che è bello. Dicevo i colli.

Bologna vista dai colli

Bologna vista dai colli

Io li amo tanto, sono un’oasi di pace a pochi minuti di auto. Ma, ecco la parola magica: auto. I mezzi pubblici arrivano solo in pochi punti, quindi ci vuole un amico bolognese che vi porti. I miei angoli preferiti? Si parte dalla chiesa dell’Osservanza, in San Mamolo, e poi su fino a San Michele in Bosco con la sua meravigliosa vista sul centro. Da qui si può salire fino a Monte Donato, altro luogo mitico di tresche, grigliate e stelle estie, da cui girovagare fino al Parco Cavaioni e Casaglia (qui si mangia in un paio di posti, anche le crescentine o gnocco fritto che dir si voglia del ‘Nonno’). Da qui, si può anche scollinare di nuovo fino a San Luca.

Non mi sono dimenticata del cibo

La vetrina di Tamburini

La vetrina di Tamburini

I salumi schizzano fuori dalle vetrine, i tortellini vengono fotografati come le opere d’arte. Bologna non è proprio una città per gente a dieta: l’unica cosa che manca è un buon comparto di cucina etnica, ma sul tradizionale di scelta ce n’è parecchia. In questo post ho raccontato dove mangiare in zona mercati e in questo dove sfamarsi nella tarda. Se proprio dovessi indicare a un turista dove andare a mangiare dei buoni tortellini (e non solo) direi che tutto dipende da quanto vuole spendere: per chi è pronto anche ai 12-14 euro, direi subito la Cesarina di Piazza Santo Stefano o la Bottega di via Santa Caterina. Per un tuffo nell’atmosfera bolognese un po’ retrò è perfetto Bertino, in via Lame. Per spendere un po’ meno direi Tamburini, è anche self service (ma di lusso), ed è una istituzione sotto le due Torri. Oppure al momento trovo fantastici quelli della Bottega Portici , proprio all’ombra delle Due Torri: dal terrazzo superiore sembra quasi di toccarle. Per restare in zona, molto buona anche la pasta fresca della Sfoglia Rina, in via Castiglione: anche in questo caso i piatti si possono anche gustare sul posto e, già che ci siete, provate anche i bolognesissimi balanzoni (con ripieno di mortadella). Per il resto bisogna sperimentare e lanciarsi: purché sopra il tortellino non ci mettiate il ragù. Eresia!

Una vetrina del quadrilatero

Una vetrina del quadrilatero
(foto di Persorsi, 2015)

Cosa fare a Bologna? Visitare I portici di San Luca (foto di Giorgio Minguzzi, da Flickr)

portici di San Luca By Giorgio Minguzzi (originally posted to Flickr as Salire a San Luca) licenza creative commons 2.0, via Wikimedia Commons