Le foreste non sono spazi qualsiasi. Tanto per cominciare, sono spazi cubici. Gli alberi ti circondano, ti guatano, premono da ogni lato, ti impediscono la visuale, lasciandoti intontito e privo di punti di riferimento. Ti fanno sentire piccolo, confuso e vulnerabile, come un bambino sparso in una folla di gambe estranee. In un deserto o in una prateria si ha la sensazione di essere in uno spazio vasto. Ma di una foresta si può solo avere sensazione. Le foreste sono non luoghi, vasti e senza forma. Vivi. Per farla breve, le foreste mettono una gran paura.
Bill Bryson, Una passeggiata nei boschi
Il caldo fiacca le gambe. E’ insopportabile, ma mai quanto la fatica. Non mi ero accorta a Bologna di essere tanto fuori forma. Oppure è questo luogo ad essere così ostile? Detesto i due canadesi avanti a me che avanzano spediti, ma come fanno a non stancarsi? Meglio guardare in basso perché se vedo davvero per quanto continua la salita, la tentazione di lasciar perdere sarà troppa. Ma ormai sono andata avanti, anche dopo la caduta sulle rocce scivolose mentre attraversavamo un torrente e anche se ora la gamba inizia a far male. E poi mi scoccia lasciare le cose a metà, anche se mi chiedo ogni minuto cosa caspita ci sto facendo nella giungla laotiana. Già, come ci sono finita?
Il trekking nella giungla
Fare un’escursione anche solo di un paio di giorni nella foresta pluviale non è un gioco. Lo penso davvero, anche dopo essere tornata intera sulle mie gambe. Almeno se siete in Laos. Non dico neppure che sia un’impresa stile Apocalypse Now, ma, ecco, in questo post vorrei raccontare che non si tratta di un’esperienza da prendere troppo sotto gamba. La mia esperienza parte a Luang Namtha, nel nord del Paese, in un’area protetta incontaminata, perfetta per il trekking alla scoperta dei villaggi tribali. Siamo in una terra di confine, come ho già scritto, dove gli abitanti sono mescolati con i cinesi. Tratti somatici un po’ diversi, in sostanza. Ci si arriva con un viaggio della speranza in pullman da Luang Prabang (la strada è in gran parte sterrata) oppure da Udomxay (noi qui eravamo arrivati navigando sul Nam Ou, invece). La cittadina è la base per esplorare le foreste, ma non pensate di trovare chissà quali negozi con attrezzatura specializzata. Luang Namtha ‘nuova’ è una strada, con guest house, un albergo e alcuni ristoranti dotati di wifi. E tante agenzie. E’ fondamentale partire con una affidabile ed è meglio non lesinare sul prezzo. La nostra esperienza con la Green Discovery è stata positiva, anche se il livello di difficoltà è stato superiore a quello che ci avevano prospettato. Una coppia prevista per il tour la mattina prevista era poi assente perché malata: sarà stato vero? Di sicuro il costo sarebbe stato diviso fra più persone (sei invece che quattro).
Alla partenza troviamo due guide, di cui una davvero molto esperta. Difficilmente, se no, avrebbe potuto muoversi in quel groviglio di arbusti con ai piedi delle infradito di gomma. Con noi ci sono anche una ragazza francese che lavora per la Green Discovery e due ragazzi che portano il cibo, comprato in un ristorante lungo la strada. I compagni di viaggio, invece, sono due ragazzi canadesi. Dopo circa mezzora in auto arriviamo al punto di partenza:dobbiamo subito attraversare un fiume su una barca strettissima. Tutte le volte resta la sensazione che il minimo spostamento di uno di noi farebbe cadere tutti in acqua.
Poi attraversiamo le risaie: è già molto caldo, ma il mare di piante verdi che ondeggiano rassicura. Il difficile, in realtà, inizia dopo: quando ci inoltriamo nella foresta pluviale. La luce sparisce, sotto strati di alberi, e resta solo una parola: umidità. La natura cresce a dismisura, grandi sono i ragni dalle gambe sottili, grandissimi sono i tronchi degli alberi. E poi c’è un ronzio, continuo, di sottofondo dato da un uccello. Dobbiamo oltrepassare qualche albero caduto. Kit, la guida, va avanti e si inerpica come un capriolo. Se ha mai visto una tigre? Certo, quando era piccolo e si è dovuto arrampicare su un albero. Ragni mortali, invece, in Laos non ce ne sono. Mentre scruto ogni punto a me visibile per vedere se ci sono serpenti, scopro che le gambe sono già così stanche che a mettermi nei guai, per ora, è solo la fatica.
Serve moltissima acqua e tanto anti-zanzare. Qui, fra queste fronde, siamo entrati nel loro regno. La pausa pranzo non è esattamente un banchetto: uno dei ragazzi raccoglie una foglia di banano che diventa il nostro tavolo, mentre dai sacchetti di plastica vengono versati carne, verdure e sticky rice. Si mangia con le mani: per una volta non mi sento poi così affamata e poi sono troppo distratta dai pizzichi. Detesto questi canadesi sempre così entusiasti, anche del cibo piccante. questo sembra fuoco del Monte Fati, ma taccio e mangio.
Finalmente la strada inizia a scendere e sulla nostra sinistra scorre un fiume che rinfresca l’aria e i pensieri. La vegetazione si addolcisce e all’improvviso più che nella giungla mi sento nel sottobosco tipico del mio Appennino. La dose di avventura, però non è ancora finita: bisogna passare sopra un paio di ponti di legno dall’aria scricchiolante. Chi ha visto ‘Indiana Jones e il tempio maledetto’ capirà al volo. Non c’è mai limite al peggio penso: con gli scarponi e lo zaino stare in equilibrio non è così semplice. Altro che parco avventure, che anche vicino a casa mia sbucano qua e là, qui non ci sono corde o moschettoni, è tutto vero. La guida Kit mi tende la mano e anche questa sfida è superata. E’ tutto così nella giungla, una piccola sfida continua per superare i propri limiti, la stanchezza della salita, con l’acqua sulla schiena e i pantaloni lunghi. E poi comunque la lezione la natura te la dà lo stesso visto che mi ritrovo, comunque, quattro feritine: sanguisughe, già staccate per fortuna, ma che hanno lasciato il segno. L’altro insegnamento, quello più importante, è che la natura aiuta a semplificare, ad arrivare all’essenziale. Quando si cammina, e si fa una fatica che sembra mostruosa, non c’è tempo di pensare se non a quello che conta: dove si mettono i piedi. Il superfluo non c’è più, perché bisogna essere leggeri, più leggeri, e anche i pensieri vanno selezionati con cura.
L’arrivo al villaggio
All’improvviso, in lontananza, si sentono le prime voci e tracce di spazzatura mi fanno capire che ci stiamo avvicinando al villaggio. E’ così, ma non è quello in cui dormiremo noi. Per fortuna, penso, visto che fra la polvere terrosa si aggirano animali di tutti i tipi e donne e le palafitte sono davvero malandate. Ci fermiamo a comprare qualche braccialetto realizzato dalle bambine, che ci guardano con grandi occhi curiosi e insospettiti. E’ sempre così qui: la gente nei villaggi ci guarda un po’ come degli alieni e probabilmente, guardando a come siamo vestiti rispetto a loro, lo siamo. E’ così che proseguiamo verso la nostra destinazione, verso la capanna in cui dormiremo, tutti insieme, sotto le zanzariere piene di buchi. Ma solo dopo avere cenato attorno al fuoco, chiacchierato con i canadesi che ora sono diventati miei inseparabili compagni di viaggio, bevuto assieme. Dopo avere visto calare la notte, prestissimo, perché nel villaggio le luci artificiali non ci sono e del giorno resta solo il fuoco sempre più tenue dei falò.
Se rifarei questa esperienza nella giungla? Penso proprio di sì. Almeno in Laos dove esiste una natura realmente incontaminata e dove la varietà etnica è tra le più complesse del Sudest asiatico. Due elementi chiave del Paese, dunque, esplorabili al meglio con queste esperienze di trekking. Il ricordo della fatica nel portare litri d’acqua, ma anche la freschezza di un frutto appena sbucciato che mi è stato offerto alla fine del sentiero sono vivi con la stessa intensità. Così come la soddisfazione di avercela fatta, ad arrivare fino in fondo.
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