Ci ho messo quei sette mesi (aiuto, il tempo vola) per buttare giù qualcosa su Bangkok. I motivi sono fondamentalmente due: il primo è che ci sono stata davvero poco, appena due giorni. L’altro è che mi pare che poche città siano già state raccontate, fotografate, amate e odiate come questa. Non voglio dire che è un tema inflazionato, anzi, ho sempre letto bellissimi post e articoli, dico solo che Bangkok è una città che non può lasciare indifferenti e che mi pare continui ad attirare i viaggiatori come una potente calamita. Alcuni li seduce, altri li delude. Per molti è punto di partenza di altri viaggi, come una sorta di porta del Sudest asiatico, per altri è il concretizzarsi di un sogno chiamato Oriente. Inferno e paradiso. Per me è stato un po’ tutte queste cose assieme e il mio piano è di tornarci alla svelta per approfondire un po’ la conoscenza. E, manco a dirlo su questi schermi, riassaggiare la cucina strepitosa. Intanto, mettendo da parte un po’ di timori reverenziali, mi limito a raccontare quello che è stata per me Bangkok. E, devo dirlo, a me è stata molto simpatica.
Primo giorno
Il primo impatto è sicuramente quello della cappa di umido. Benvenuta ai Tropici alla fine dei monsoni, del resto. Il caldo avvolgente, però, mi fa sentire bene: Bologna è lontanissima. Non ci resta che salire su un taxi per guadagnare tempo prezioso: è già tarda mattinata e dobbiamo schizzare a presentarci alla città, visto che abbiamo tempo di starci solo fino a sera. In aereo abbiamo già fatto un piano di battaglia: inanellare subito le attrattive più famose. L’albergo è a Silom e partiamo per il Palazzo Reale. Ecco, arrivare non è così facile, capire sul fiume Chao Phraya qual è la nostra barca non è immediato, i cartelli sono particolarmente criptici. Alla fine capiamo che c’è una distinzione fra imbarcazioni turistiche e non e troviamo quella indicata dalla bandiera arancione: è quella giusta. E la prima sorpresa che Bangkok mi offre è questa: mi piace scoprire le città dall’acqua e questa è già un delirio. Case basse e fitte si affacciano sul fiume, popolato di alghe e rifiuti. Si sentono urla mescolate al rumore del motore delle barche. Mi fa pensare un po’ a una Venezia orientale, ma comunque, nonostante la confusione, già mi rilassa. Entriamo al Grand Palace per il rotto della cuffia: un po’ perché vari personaggi lungo la strada cercano di farci cambiare i programmi, un po’ perché è una giornata di festa. Mi infilo dei pantaloni sui pantaloncini ed entro in un regno già visto tante volte in foto. Le statue sono stupende, i templi sono un tripudio di colori. In uno stanno pregando, e le scarpe sono allineate con ordine sui gradini. Fiori di loto e di frangipane ovunque. Le ho già viste queste foto, ma viverle mi riempie di emozione. All’uscita ecco il temibile acquazzone: in pochi secondi ci piovono addosso secchiate di acqua e ripariamo in un localino per un piatto di noodles. Nei momenti di stanchezza, bagnata poi, è sempre meglio mangiarci su e così ci prepariamo a rimetterci in marcia.
Entriamo così al Wat Pho e lo stupore aumenta. Il temporale ha lasciato un’aria più fresca e luminosa e le pagode luccicano mentre si riflettono nelle pozzanghere. Anche il Buddha sdraiato lo avevo già visto mille volte, ma non avrei mai pensato che questa enorme statua trasmesse tanta serenità. Sono rapita, così come dal tintinnio delle monete che cadono nei contenitori per le offerte. In questo momento conosco solo la pace e la bellezza, tra tutti questi templi, mi circonda. A rendere ancora più speciale questa visita sono alcuni liceali, che si offrono di farci da guida fra i tanti monumenti: loro forse prenderanno un bel voto in Inglese, noi ci divertiamo a sentire le loro spiegazioni su stupa e statue. Per chi ha poche ore da spendere in città, la considero una tappa imperdibile. Chiudiamo con il nostro terzo obiettivo: il Wat Arun, tempio in stile khmer che si staglia sull’acqua. Salire sui gradoni ripidissimi toglie sempre un po’ il fiato (e il fuso orario taglia un po’ le gambe), ma la vista sulla città che si avvia al tramonto ripaga di ogni fatica. Decidiamo di rientrare con un tuk tuk: è la mia prima esperienza su questo mezzo squinternato, divertentissimo, anche se è così che faccio la conoscenza con un altro aspetto di Bangkok: il traffico. Auto incolonnate e smog: questo è il vestito un po’ meno attraente, ma lo prendo così com’è.
Secondo giorno
Questo traffico estenuante lo ritroviamo dieci giorni dopo, al nostro rientro dal Laos. Abbiamo ancora qualche ora da passare in città prima di sera e del rientro in Italia. Finisce, così, che siamo in continuo ritardo sui tempi e corriamo verso la Jim Thompson House prima che chiuda. Trovarla non è facilissimo e continuiamo a salire e scendere da una sorta di cavalcavia, ma poi, finalmente, i rumori e la polvere della città restano fuori dal giardino. La casa di questo mercante di seta americano, scomparso in modo misterioso, cosparso di case tradizionali in legno sullo stile della palafitta, è davvero idilliaca. Si entra con una visita guidata e ci si immerge nell’Oriente un po’ leggendario, fatto di statue antiche, porcellane e stoffe pregiate. Amo questo posto, così rigoglioso, dove gli spiriti vengono venerati nelle loro casette piene di fiori e dove nuotano carpe colorate. Intanto il cielo si gonfia e diventa di un colore metallico.
Il nostro ambizioso piano prevede di arrivare anche anche al Golden Mount, ma è troppo tardi. Saliamo di nuovo sulla barca che passa proprio dietro la casa di Jim Thompson e sembra che la notte ci inghiottisca, mentre sfrecciamo sull’acqua. Arriviamo così a un mercato, bellissimo, colorato, rumoroso. C’è un’umanità davvero sterminata, che cucina, che mangia. Pentole fumanti, piastre, insetti fritti (non ho il coraggio di assaggiarli, ammetto. Manuela di Pensieri in viaggio è stata più brava di me), cibi di cui non so riconoscere la consistenza. E’ un vortice di persone e di odori che stordiscono, e penso che tutto sommato questa città è un po’ faticosa, ma la vita esplode qui a Bangkok. E me ne vado con la sensazione di dover tornare: va bene vedere le parti più ‘famose’ e rassicuranti, ma la prossima volta toccherà (anche) al resto.
Il cibo
Ecco, questo è uno dei validi motivi per tornare il Thailandia. Cucina difficile da trovare in Italia, almeno alle latitudini di Bologna, quella che ho assaggiato a Bangkok è davvero esaltante. Colorata ed economica: meglio di così. L’ho provata in tre modi differenti. Il primo è stato un localino carino, in cui siamo entrati a caso, giusto per trovare riparo dalla pioggia. Si chiama ‘The gate’ con un’aria condizionata ai limiti del possibile, che ci ha servito una zuppa di noodles con maiale e manzo. E’ andata benissimo, così, soprattutto per 75 bat. Il mio posto preferito è sicuramente, però, il Mango Tree. Si trova in un’antica casa siamese, ricca di fiori e lanterne. Non è solo un bel posto di pace nel caotico quartiere, è che si mangia proprio benissimo. Scegliamo springroll con polpa di granchio, una specie di toast di gamberi fritti e salsa agrodolce, un BBQ di anatra servito in un ananas con latte di cocco e curry rosso, un curry giallo al granchio e un’insalata di noodles con gamberi (tutto a 2.500 bat). Mangiamo divinamente, un posto magico. Per chi non riuscisse a trovarlo, ce ne sono due anche all’aeroporto, buoni per una colazione.
Curry rosso di granchio al Mango tree

Anatra grigliata servita in un ananas
Cibo buonissimo, ma tutt’altra atmosfera al Beer Garden in cui ci porta Paolo, blogger di Wander in Japan. Mi piace il clima rilassato e informale di questa birreria all’aperto in cui si distinguono alcuni turisti, ma in cui cenano soprattutto persone del posto. Tantissimi i giovani stretti nei tavoli illuminati da luci colorate. Il cibo, più verace, è buonissimo: dal curry verde all’insalata di papaya. E fantastico, che peccato, davvero, che il giorno dopo si torna in Italia.
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