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Tre borghi sull’Appennino

Il Dardagna impetuoso

Il Dardagna impetuoso

Fra paesi addormentati

Stradine popolate da gatti, tapparelle abbassate, un’altalena abbandonata. Il cartello vendesi qua e là. All’inizio di maggio l’Appennino fra Modena e Bologna sembra ancora addormentato. Effettivamente, anche se siamo un’ora e mezza dalla città, quando oltrepassiamo anche la Madonna dell’Acero abbiamo superato i mille metri. La seggiovia per il Corno alle Scale è immobile, e dietro il rifugio c’è ancora un po’ di neve. Niente passeggiata nel bosco fangoso, piove pure un po’. E allora è così che li scopriamo. Scendendo a quote più basse, dove le nuvole non si impigliano, visitiamo paesini praticamente deserti, dove è difficile capire quanto il sonno attuale sia da ricercare nella stagione non ancora decollata o quanto in quel progressivo abbandono sempre più frequente fra questi boschi. Luoghi di villeggiatura, di lunghe estati, di alberghi e pensioni dal sapore retrò di cui oggi resta qualche lampione liberty fra gli alberi. Nel verde brillante dopo giorni di pioggia, scopro angoli di grande fascino: la riprova che a volte le emozioni sono molto vicine a casa. 

Poggiolforato

Una manciata di case disabitate. Una storica pensione in vendita. Nel campo da calcio ci sono le porte arrugginite
e l’erba alta. C’è un’atmosfera vagamente spettrale a Poggiolforato (il nome significa ‘monte forato’), mentre nel bosco ricoperto di muschio fa sentire la sua voce il Dardagna. In questo borgo si trovano case di villeggiatura, un museo etnografico dedicato ai mestieri e alla vita quotidiana in questa fetta di montagna. I tetti delle case, di pietra piatta e grigia, sprigionano una certa magia, così come le curiose figure scolpite sui comignoli. Fra i muri pieni di crepe, salutano i viandanti benevole madonnine di ceramica.

Vecchi manifesti a Poggiolforato

Vecchi manifesti a Poggiolforato

Creature sui comignoli

Creature sui comignoli

 

Poggiolforato

Poggiolforato

Ortica che mi fa pensare alle tagliatelle...

Ortica che mi fa pensare alle tagliatelle…

Pianaccio

Per tutti è il paese del giornalista Enzo Biagi che, assieme una serie numerosissima di altri Biagi, riposa nel piccolo cimitero sotto il borgo. La casa del grande cronista è subito all’inizio, davanti al centro di documentazione che porta il suo nome. “Ho girato il mondo da cronista, ma in fondo non sono mai andato via da Pianaccio”. E’ la scritta che accoglie i visitatori e c’è da crederci. Oggi i visitatori, almeno ancora per questo mese, sono accolti da una spaventosa frana: la montagna ha ceduto a marzo, poi anche la carreggiata, e ora si lascia l’auto sulla strada interrotta e si scende per una scala di ferro. Il paese, insomma, è isolato. Anche se non sono in molti a vivere qui: due uomini in strada ci parlano di una quindicina di abitanti. Ma l’Antica Locanda alpina, con il suo ristorante, è già in piena attività. Portata avanti dalla stessa famiglia dal 1904, non chiude quasi mai ed è pronta ad accogliere i trekker inglesi. Si fanno vedere soprattutto in tarda primavera e autunno. Gli stranieri sì, gli italiani non sempre si ricordano di questi luoghi suggestivi.

 

La chiesa di Pianaccio

La chiesa di Pianaccio

Pianaccio annidato fra i monti

Pianaccio annidato fra i monti

 

Il centro

 

Estati di molto tempo fa alla Locanda Alpina

Estati di molto tempo fa alla Locanda Alpina

 

Monteacuto delle Alpi

C’ero stata a quindici anni, in un giro zaino in spalla in questi luoghi, fra Linea Gotica e boschi di querce. Mi ricordo di quell’estate una salita faticosissima per arrivare fino in paese, ora capisco perché. Monteacuto delle Alpi è annidato in cima a una vetta, come un rapace. Il borgo medievale è diverso dai due precedenti: le case di sasso sono molto belle (e quasi tutte chiuse). Il punto forte di questo paesino è sicuramente la vista spettacolare sul Corno alle Scale. Ma non solo, affacciandosi dalla piazza davanti alla chiesa, si è circondati dall’Appennino, che in questo punto si fa davvero imponente, forse un po’ minaccioso. Leggendo qua e là mi sono imbattuta in una notizia curiosa: gli abitanti in passato erano chiamati “zingari”, cioè girovaghi perché impegnati in attività commerciali. Incredibile dirlo ora. Altra curiosità: l’intero paesino, che conta una trentina di abitanti, è totalmente collegato alla Rete wireless. A Bologna solo in piazza Maggiore.

Dalla chiesa di Monteacuto

Dalla chiesa di Monteacuto

Circondati dai monti

Circondati dai monti

Marocco, qualche tappa fuori dalle solite rotte

Skoura, foto di Luiz Barucke (Da Flickr, creative commons, attribution non commercial)

Foto di Luiz Barucke (Da Flickr, creative commons, attribution non commercial)

Da tempo avevo in mente di scrivere qualcosa sul Marocco. Ma ero un po’ frenata, anche solo per il fatto che ormai sono passati diversi anni dal mio primo viaggio. Poi mi sono decisa perché questo paese mi è veramente rimasto nel cuore, con i suoi colori, con il suo caldo soffocante (per tutto quello che scrivo calcolate che ci sono stata in agosto), con la socievolezza dei suoi abitanti. Con le sue città un po’ malinconiche e la sua buona cucina. Tremila chilometri in auto, con una compagnia fissa: le cime dell’Atlante sempre sullo sfondo. E infatti le tre catene montuose danno ritmo a un paese molto pianeggiante: sono il piccolo, medio e alto Atlante. Mi sono trovata ad affrontare paesaggi continuamente diversi. La Loney Planet, con cui partii, definisce un giro molto simile a quello che ho fatto io ‘odissea marocchina’. Per me è stato il paese della libertà, ma pensateci a questa definizione. Quello che vorrei fare qui è illuminare, raccontare alcune mete un po’ meno appariscenti di piazza Jemaa- el- Fna o meno imponenti dei bastioni di Essaouira o con meno storia della Medina di Fès, ma che forse svelano un lato più autentico del Marocco.

Il mio viaggio su www.scribblemaps.com

Il mio viaggio su www.scribblemaps.com

Ifrane

Mi piace pensarla come una specie di Svizzera nordafricana. Ci si può arrivare scendendo da Fès o da un’altra delle città imperiali, Meknès. Apro una parentesi: quest’ultima è molto meno visitata delle sorelle Marrakech e Casablanca, ma ingiustamente. Più piccola e meno turistica, ha un fascino discreto e merita almeno una notte per visitare il piccolo mercato coperto o le scuderie del temibile Moulay e per prendere confidenza con il ritmo mediorentale. Diciamo pure che la gente non è assillante come nelle altre città.

Ifrane, Marocco Foto da Flickr, di Christopher Rose (creative commons, attribution non commercial)

Ifrane, Marocco
Foto da Flickr, di Christopher Rose (creative commons, attribution non commercial)

Ma torniamo a Ifrane, costruita dai francesi negli anni Trenta. Ospita un’università, una residenza reale, che si può vedere dall’esterno, ma soprattutto stupisce per un fatto: ci si trova catapultati in un paese di montagna (ecco, questo è il medio Atlante). Le case hanno uno stile completamente diverso: tetti rossi e legno e tutto è improvvisamente ordinato. E’ un po’ la Cortina del Marocco, con le piste sciistiche a un passo. A questo proposito, credo che gli impianti non siano proprio nuovissimi; ho letto che c’è un comprensorio a una ventina di chilometri dal paese, ma penso che se fossi una sciatrice sfegatata non verrei proprio qui a cercare neve.

La foresta di cedri attorno a Ifrane

La foresta di cedri attorno a Ifrane

Molto famosa è la foresta di cedri, popolata da numerose famiglie di bertucce. Si vedono facilmente, in una continua corsa fra i rami degli alberi altissimi, attirate dai cibi proposti dai bambini e dai turisti locali.

Verso Midelt
On the road

On the road

Scendere scendere. Sempre più sud. Ripensandoci oggi è stato il tema, il titolo, del mio viaggio in Marocco. Il bello è spingersi sempre più in là, verso il deserto. A volte si incontrano paesaggi lunari, in terre arroventate dal sole (sto sempre parlando di agosto, eh). A volte le uniche figure in movimento sono camion incredibilmente sovraccarichi. Ne ho anche visto uno perdere dei mobili, attenzione se vi stanno davanti! Però non fate come me, non superateli con troppa disinvoltura: la polizia si incontra spesso e la multa è un rischio concreto! Anche io sono stata bacchettata da un poliziotto reale, quindi occhio.

Un esempio tipico di camion carichi fino all'impossibile

Un esempio tipico di camion carichi fino all’impossibile

A volte i tratti in auto sono molto lunghi, e richiedono tappe di collegamento, come Midelt, che si trova praticamente al centro del paese. Sono molti gli alberghi moderni, nella prima periferia, per i gruppi, che si fermano solo a pernottare qui. Io mi sono spinta fino al piccolo centro (non particolarmente affascinante), cercando una sistemazione sul momento. Un’esperienza da provare: appena scesa dalla macchina, c’era già un certo Rachid pronto a portarmi dove volevo: anche se in realtà mi porta dove vuole lui. Il resto della storia è facilmente immaginabile. Va a finire che ci porta nell’albergo degli amici suoi (bello è un’altra cosa), poi mi aspetta e mi porta a cena a casa sua (perché il tajine di sua madre ovviamente è il migliore della città). Ultima tappa serale, da suo cugino, che guarda un po’, vende tappeti. Morale della favola, la carne d’agnello in effetti era buonissima, ho comprato gioielli berberi che conservo ancora gelosamente e scoperto tutto della simbologia berbera sui tappeti. Una delle mie serate più divertenti in Marocco.

Fra le kasbah

Il deserto, almeno per me, era la punta massima, era la meta nella meta in questo viaggio magrebino. Allora bisogna scendere, per valli e svalicare passi. Non mi soffermo sulle gole del Todra, luogo che toglie il fiato, così isolato rispetto alla strada principale, ma che mi sembra ormai sia sempre più noto ai turisti. Comunque, assieme alla tortuosa, vertiginosa, Valle del Dadès francamente credo sia une delle tappe realmente imperdibili in Marocco, dove la natura meraviglia e chiede rispetto. In queste gole di notte non c’è neanche l’energia elettrica e la mattina mandrie di capre scendono dalle montagne a cercare l’acqua.

Villaggi berberi

Villaggi berberi

Ma vale la pena scendere ancora, verso Ouarzazate, la Hollywood marocchina (nel senso che ci sono gli studi cinematografici), raggiungibile anche in aereo. Ancora una volta sono i dettagli a fare la differenza: in questo tragitto un luogo magico è Skoura (39 chilometri prima di Ouarzazate), fra suggestive kasbah e palmeti. Tramonto commovente e cielo in cui esplodono le stelle. Ne ho già scritto in questo post e non mi dilungo, passando invece al tratto successivo, quello che scende verso le dune. E’ la valle del Draa, fra oasi verdissime, villaggi berberi e antiche fortezze dal colore ferroso. Lungo la strada piena di curve vi capiterà forse di caricare più di un berbero che sta facendo l’autostop. Una buona occasione per rispolverare un po’ di francese, anche se la mia impressione è che questo popolo parli un po’ tutte le lingue.

Alba nel deserto

Alba nel deserto

In circa quattro ore si arriva fino a Zagora: qui si spalancano le porte del deserto. Moltissimi viaggiatori scelgono di visitare le dune di Merzouga, nell’est del paese. Dalle foto che ho visto mi sembra un paesaggio stupendo, ma io consiglio comunque di avventurarsi fino a qui. I berberi, gli uomini blu del deserto, organizzano dei tour in dromedario anche solo per una notte, oppure con il fuoristrada si possono visitare più oasi.

Azemmour
il Riad Azama (foto tratta da riadazama.skyrock.com)

il Riad Azama (foto tratta da riadazama.skyrock.com)

Si trova sulla costa atlantica, più a nord di Essaouira: un posto comodo per fermarsi una notte, soprattutto se il giorno dopo si deve ripartire da Casablanca. Adagiata su un fiume, Azemmour è vicina alla più famosa El-Jadida ed è praticamente sconosciuta ai turisti. Ecco perché offre uno degli spaccati più autentici del Paese, sonnolenta e racchiusa dalle sue vecchie mura. E’ certo che nella medina (nella parte nord c’è anche un quartiere ebraico) la gente vi guarderà come alieni. Un altro buon motivo per passare di qua è data dall’occasione di sostare in un riad davvero speciale. E francamente penso che una delle esperienze belle del Marocco sia anche godere di questi posti freschi, pieni di pace e di grazia, fra aranci e delicate azulejos (e a prezzi praticamente dimezzati rispetto all’Italia). Ad Azemmour questo luogo si chiama Riad Azama, un’antica residenza con soffitti intagliati e una terrazza sul tetto che offre una vista incantevole. E’ stato davvero difficile ripartire. Davvero molto. Aggiungo un’ultima cosa sull’autonoleggio. Per guidare in Marocco non è necessario avere la patente internazionale e le auto si trovano con una certa facilità. In ogni caso io mi ero affidata a un’agenzia per un pacchetto fly and drive. Una cosa è certa: prendete sempre un’auto con l’aria condizionata!

Sakura in Giappone

Giappone: dove fioriscono i ciliegi

Cinquanta sfumature di rosa: hanami

I cigliegi a Hiroshima

I cigliegi a Hiroshima

Una nuvola rosa, come una cipria che imbianca e colora delicatamente tetti e palazzi. Avevo aspettative altissime sulla fioritura dei ciliegi. E facevo bene. Un po’ perché è vero che anche nel nostro Paese gli alberi fioriscono, ma sono più un privilegio per chi vive fuori da un contesto urbano e ci siamo drammaticamente disabituati. Un po’ perché vedere il Giappone in primavera è stato come riscoprirlo per la prima volta. E poi per lo stupore che coglie loro, i giapponesi, che hanno reso un evento legato alla natura e ai suoi cicli un momento di festa, banchetto, vita di comunità. E lo so che vengo dall’Emilia e che da noi si festeggiano cotechini, paste al mattarello o vino, ma è incredibile vedere che i veri protagonisti sono loro, alberi e fiori.

Il bello quindi. Il bello impalpabile e fugace che si contrappone a città spesso grigie e squadrate. Forse il sakura, la fioritura, affascina ancora di più perché in Giappone ingentilisce strade nuove, case recenti, in un mondo così tante volte ricostruito, costretto periodicamente a rinnovarsi per sopravvivere (a incendi e terremoti ad esempio). Noi ci possiamo stupire sempre di un palazzo antico, di una chiesa medievale di una strada lastricata. Qui è (spesso) più difficile. E la natura risponde.

Il bello dei ciliegi fioriti è che sbucano in un angolo fra i palazzi, sotto una banca, o illuminano l’aria vicino a un corso d’acqua. Ma a volte sono stupefacenti per quanto sono numerosi, e per l’universo variopinto che vi si ritrova sotto. Passeggiando, mangiando, bevendo birra e sake. Fotografando. Una galleria di personaggi, di turisti, di selfie, di coppie sbalordite, almeno quanto me. Ecco alcuni dei punti d’osservazione che ho amato infinitamente.

Hiroshima

E’ una che città vivace nonostante l’atmosfera dolente. Ci sono stata proprio di domenica mattina, mentre famiglie intere e amici avevano appena preso cerate e cibarie per banchettare lungo il fiume che scorre a fianco del Parco della Pace.

Scatti qua e là

Scatti qua e là

Nel parco della Pace

Pic nic della domenica

Pic nic della domenica

Hanami a Miyajima

Hanami a Miyajima

Kyoto

Una città magica, romantica. Penso l’abbiano già scritto, ma non è un luogo comune: per l’atmosfera è una Parigi d’Oriente. Tra templi, parchi e lungofiume non si contano gli angoli resi ancora più affascinanti dalla fioritura. Ma anche molto divertenti.

Il percorso sugli ex binari ferroviari. A Higashiyama, subito fuori dalla fermata della metro Keage

In kimono sui binari

In kimono sui binari

 

Se l'ex ferrovia diventa un viale alberato

Kyoto, se l’ex ferrovia diventa un viale alberato
(foto di Persorsi, 2014)

Tono su tono

Tono su tono

 

A Gion. E’ il quartiere dei divertimenti, delle luci e dei ristoranti affollati. Ma, è anche il quartiere delle geisha, della grazia, delle case di legno. Qui la luce è solo delle lanterne. Qui si incontra il Giappone sognato, immaginato, aspettato.

Di notte sono ancora più belli

Di notte sono ancora più belli

 

A Shinbashi, salici e ciliegi. Per me è la via più bella di Kyoto

A Shinbashi, salici e ciliegi. Per me è la via più bella di Kyoto

Parco di Maruyama
Di notte, lanterne illuminate fra i templi. Di giorno, vita pulsante, street food attorno al ciliegio più antico di Kyoto.

Hanami domenicale

Hanami domenicale (foto di Persorsi, 2014)

Mangiare alla Giudecca

La Venezia di fronte: la Giudecca
Venezia vista dalla Giudecca

Venezia vista dalla Giudecca

Se il Carnevale è un po’ il rovescio delle cose, il guardarle da un’altra prospettiva, anche Venezia si può svelare sotto altri punti di vista. Non da piazza San Marco, meravigliosamente piena di maschere e colori fino a qualche giorno fa, ma dall’isola che le sta davanti. La Giudecca. Stessa laguna, ma spirito molto diverso. Di là si accalcano i turisti, di qua, dall’altra riva, il fascino della città si fa discreto, meno opulento. Quasi popolare. Ma non è della Giudecca che parlerò in questo post, bensì di una trattoria che racchiude un tutto questo nella sua cucina. Dimenticate i menù in inglese e i camerieri anonimi, i prezzi da capogiro o i broccati. Qui il valore aggiunto è il pesce fresco. E trovare un posto che offra cucina gustosa a prezzi contenuti a Venezia è una soddisfazione che vale doppio.

La Palanca

La Palanca. Quello che è riflesso sul vetro lo vedrete all’interno, seduti a tavola

Tanto per cominciare l’approdo. Bisogna arrivare necessariamente in vaporetto; io l’ho preso comodamente da piazza San Marco. La fermata diretta è, manco a dirlo, la Palanca, ma scendendo alle Zitelle si può fare una passeggiatina lungo il canale ideale a farsi venire l’acquolina in bocca. Subito cade l’occhio sui tavolini all’aperto: sembra di mangiare sull’acqua e la vista sulla città è incantevole. Appena si può è dunque un delitto non scegliere un posto fuori, ma dentro si può apprezzare l’atmosfera allegra. Merito anche del titolare, che sa dosare battute e gentilezze (non è di quelli che fa sentire il cliente uno scemo, la prima missione è sempre mangiare, poi ridere). Nella prima sala, con travi a vista,  ho subito individuato gente del posto, tipo operai (il che è sempre un ottimo indizio) in pausa pranzo. Nella saletta piccola, però, più raccolta, si può godere del panorama sul Canale.

La Palanca: il menù

Appena il gestore vi individuerà come nuovi e non ve lo lascerà neppure guardare il menù, ma è saggio mettersi nelle sue mani. In due scatterà subito la proposta di provare l’antipasto di pesce: fatelo, per carità.

L'antipasto di mare

L’antipasto di mare

Il baccalà mantecato è morbido e saporito, controbilanciato dal gusto pungente delle sarde in saor. Molto fresco il pesce spada con scorza d’arancia. Il tutto innaffiato da un leggero Prosecco della casa. Allora sotto con i primi (la pasta è fatta in casa). Io ho provato le linguine, cotte al dente e non è scontato, con guance di rana pescatrice e carciofi freschi. Poco pomodoro, molto prezzemoli e bocconcini di pesce morbidissimi. Davvero buono.

Fra i secondi, sorprendente le seppie cotte nel loro nero, servite con polenta abbrustolita. Uno dei piatti di pesce cotti migliore che io abbia mai provato.

Le seppie con polenta

Le seppie con polenta

Infine i dolci, anche questi fatte delle mani sante di casa. Noi ci siamo lanciati nella torta di cioccolato e mandorle: mi ha ricordato la Caprese, davvero una bomba. Ed eccoci alla cassa, dopo il caffé: 70 euro in due, sazi e soddisfatti. A Venezia non è detto.

Ps. leggendo qua e là qualche altro post, come questo, vedo che la Palanca è ottimo anche solo per uno spritz. Non stento a crederlo.

L’indirizzo è Giudecca, 448, Venezia. 

Altri link su Venezia

Cosa fare a Parigi di lunedì

Parigi in 36 ore

Parigi val sempre una messa, anche per poco tempo. Anche di lunedì. Non è un dettaglio da poco, perché se vi trovate nella ville lumière non tarderete a scoprire che moltissimi musei (e ristoranti) sono chiusi. Persino in una metropoli così ogni tanto abbassano la saracinesca e quel giorno sembra proprio essere il lunedì. E’ quindi bene avere in mente un piano B per godersi al massimo questa città capolavoro. Io ho puntato sui giri a piedi (forse un po’ troppo, da farsi venire le vesciche), ma sono tanti gli angoli, un po’ in tutti gli arrondissement in cui vale la pena sbirciare. In questo post propongo qualche itinerario: alcune tappe non sono necessariamente originali, ma fanno innamorare di questa città una volta in più.

Intanto la lista dei musei che sono chiusi di lunedì (solo per citarne alcuni molto famosi). Il Louvre, invece, è chiuso il martedì.

1) All’ombra di Nôtre-Dame verso il Quartiere Latino

La chiesa di Saint- Julien-le-Pauvre

La chiesa di Saint- Julien-le-Pauvre

Esatto. La cattedrale simbolo di Parigi fortunatamente è sempre aperta e si entra pure gratuitamente. Se incappate in una bella giornata è un delitto non arrampicarsi sulle torri rese immortali da Victor Hugo (quelle invece si pagano: 8 euro) per ammirare da vicino guglie e gargoilles. I simpatici ibridi e mostriciattoli che sembrano sorvegliare la città sono in verità ottocenteschi, ma il fascino di questa chiesa è enorme, soprattutto perché consente di avere una panoramica a 360 gradi della città. E le città vanno sempre, sempre, viste dall’alto. Dal lato sinistro cade l’occhio su una chiesetta, che sembra infinitamente piccola rispetto alla cattedrale, circondata da un grazioso giardino. Basta scendere e scoprire cos’è. Si tratta della chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre, costruita con le pietre scartate durante la realizzazione di Nôtre-Dame. E’ bello sedersi su una panchina del giardino ad ammirare ancora una volta la cattedrale, ma anche l’albero (puntellato) più antico di Parigi.

La libreria Shakespeare, a un passo dalla Senna

La libreria Shakespeare, a un passo dalla Senna

Uscendo, due chicche sulla sinistra. La prima, il negozietto Odette, per chi cerca un’alternativa ai macaron: vende bignè così belli e colorati da sembrare gioielli. Anche nel costo, ma ne vale la pena. E poi, la stupenda libreria Shakespeare. Negozietto di libri in lingua inglese, ma dal fascino bohemiène: il Tamigi e la Senna si incontrano in queste pittoresche salette. Al piano di sopra c’è pure il pianoforte e una sala in cui si proiettano filmati e documentari. Très chic.

Da qui, sempre nel quinto arrondissement, si può raggiungere a piedi la rue Mouffetard. Una strada, dal traffico limitato, che, per quanto un po’ turistica, regala una passeggiata rilassante fra edifici dalle facciate interessanti, a volte con sculture e dipinti originali. In fondo alla strada c’è anche un mercatino, ma attenzione perché chiude presto. I localini, poi, non si contano. E’ una versione meno pacchiana del Quartiere Latino, che però, è da tenere in considerazione per una cena un po’ nella tarda (chi mi legge sa che il tema mi sta a cuore). Fino a mezzanotte, ad esempio, nelle stradine dietro Saint-Severin potrete sperare solo in una raclette: sono molti i locali specializzati in cucina savoiarda. Affonderete crostini di pane, patate e prosciutto in una fonduta di tre formaggi.  Non male come ripiego, no?

Uno dei ristorantini che propongono la cucina della Savoia

Uno dei ristorantini che propongono la cucina della Savoia

2) Una passeggiata   Saint-Germain-des-Prés e all’Odeon: fra piazze e cortili

Curiosando fra i cortili

Curiosando fra i cortili

Palazzi sormontati da abbaini, tranquilli negozi di quartiere, ma anche eleganti boutique. Nelle vie dietro il trafficato Boulevard Saint-Germain, nel sesto arrondissement, si respira qualcosa che, non so, definirei un ‘clima parigino’. Le strade si fanno più strette e ci si trova col naso schiacciato davanti alle vetrine delle boulangerie. Nel quartiere dell’Odeon si arriva dalla fontana di Saint-Michel (che secondo il libro Ou s’embracer à Paris è uno dei punti più romantici della città) si entra in stradine medievali. Un altro spaccato della Parigi che fu è nella Cour  du Commerce-Saint-Andrè: una strada lastricata su cui si affacciano oggi negozi raffinati e ristoranti, anche se al numero  9 venne realizzata, niente meno, la prima ghigliottina. Va fatta una sosta da ‘Une dimanche à Paris’: pasticceria da sogno in cui gustare favolosi macaron.

Restando nei paraggi della Chiesa di Saint-Germain, una piazzetta incantevole, anche se da quando sono state tolte le panchine si è un po’ svuotata, è Place de Furstenberg: vi si affaccia anche la casa del pittore Delocroix, ma come dicevo di lunedì è chiusa. Anche la chiesa più antica di Parigi merita una visita e se avete voglia di fare un salto nel tempo, dall’altra parte della piazza ci si può sedere ai tavolini del Cafè Deux Magots, quartier generale di Simone De Beauvoir e Jean Paul Sartre.

Lingerie... di cioccolato

Lingerie… di cioccolato

Manca solo una tappa alla Chiesa di Saint-Sulpice. Io la trovo un po’ tetra, ma sicuramente è carica di atmosfera. Il contrasto con la bella piazza esterna e l’eleganza delle boutique circostanti è forte. Una curiosità: all’angolo si trova un fantastico (e carissimo) negozio di calze e collant. Ventiquattro euro al paio però!

3) Sul canale di Saint-Martin

Una chiusa sul canale di Saint Martin

Una chiusa sul canale di Saint Martin

Se non fosse stato per il ristorante Vivant (oggetto del mio prossimo post), che da un paio d’anni ha contributo a cambiare volto al quartiere, non credo che mi sarei avventurata nel decimo arrondissement. Il quartiere, in quanto a periferie, non è il massimo visto che vi si trovano due grandi stazioni, ma offre punti di grande interesse. Non per niente, negli ultimi anni pare che anche i radical chic parigini l’abbiano riscoperto, come dimostrano localini e negozi di abbigliamento davvero interessanti. Tutto ruota attorno al canale di Saint-Martin, le cui rive sono patrimonio dell’Unesco. Le acque che affiorano nelle città mi affascinano sempre molto perché aiutano a immaginarsi la storia dei centri urbani e una diversa viabilità, acquatica, ben prima delle rivoluzioni urbanistiche del Novecento.  Qui in realtà la storia si è spesso colorata di tinte noir, visto che affioravano dal fiume i cadaveri, ma oggi è decisamente molto diverso, soprattutto nel fine settimana quando il canale diventa pedonale. Il pezzo forte è camminare lungo un susseguirsi di chiuse (sono organizzate pure visite in barca, ma solo da marzo in avanti) e sedersi a prendere un caffè in uno dei bar affacciati sulla strada.

La casa più piccola di Parigi (quella in mezzo, più bassa)

La casa più piccola di Parigi (quella in mezzo, più bassa)

Altre piccole chicche del quartiere. E’ decisamente il posto giusto per farsi… un’acconciatura afro: intere vie sono affollate di parrucchieri e negozi di immigrati. Oppure, in rue du Château d’Eau, al numero 39, si può osservare la casa più piccola di Parigi. Per maggiori informazioni e aneddoti letterari sul quartiere rimando al post di Orizzonti sul X Arrondissement.

Mangiare a Cuba

La fantastica aragosta della Paloma

La fantastica aragosta della Paloma

Due parole sulla cucina caraibica

Amici e conoscenti si sono meravigliati del fatto che io sia tornata da Cuba molto soddisfatta (fra le altre cose) della cucina. Premetto che nessun Paese che ho visitato finora mi ha delusa e i miei gusti sono decisamente di ampie vedute, ma i piatti creoli mi hanno conquistata. Per quanto, va detto, gli ingredienti siano piuttosto ripetitivi. Ma solo quelli, perché, le varianti sul tema maiale, pollo e aragosta in realtà sono tante. Del resto, quando si hanno poche materie prime di base ci si deve ingegnare. Un esempio? Il pollo, carne economica per eccellenza, era il pezzo forte in più di una casa particular che mi ha ospitata. Se a Cienfuegos la specialità era quello alla Coca (nel senso proprio della bibita gassata), a Viñales ce l’hanno servito alla birra. A Trinidad era arrosto, all’Havana era una specie di ‘cacciatora’. Diciamo che l’ingrediente segreto è la personalità della cuoca, e che cenare in un paladar è di gran lunga più emozionante che al ristorante, ma non sono mai rimasta delusa. Ho provato a fare una mini guida, segnalando tre posti davvero da non perdere se vi trovate a Cuba.

Paladar o ristorante?

Cena con vista Mogotes, a Vinales

Cena con vista Mogotes, a Vinales

La differenza è ben spiegata in tutte le guide e ormai ci sono tantissimi esperti di Cuba sul web, ma, per chi ancora sia digiuno della cultura dell’isola, diciamo che il paladar è la casa privata (in molti casi è anche casa particular) aperta al pubblico da pochi anni, mentre il ristorante è di proprietà statale. Spesso il paladar, che prende il nome da una telenovela sudamericana, è più piccolo, con meno coperti; di sicuro vi troverete una conduzione famigliare e cibo fatto in casa. Un’osservazione: se mangiate in un paladar non abbiate fretta. E’ esattamente come andare a casa di qualcuno, che preparerà il piatto sul momento, e prima di mangiare può anche passare una buona mezz’ora (ma ne sarà valsa la pena). Fino a pochi anni fa era proibito per i cubani cucinare in casa l’aragosta, ma ora anche nei paladar la potete trovare (anche se a volte è surgelata). Una seconda osservazione: si mangia bene anche in molti ristoranti di stato e la gentilezza nei confronti del turista è sempre estrema. Il calore umano e la sensazione che qualcuno si prenda cura di voi come un vero ospite però è maggiore sicuramente nel paladar.

L’abc nel piatto

Il fantastico pollo della casa particular Paloma I pilastri della cucina creola sono il pollo, il maiale (cerdo) serviti con riso e fagioli (arroz e frijoles). Li troverete un po’ dappertutto e spesso la carne è già accompagnata nel piatto da questi due contorni, chiamati insieme moros y cristianos: i fagioli, infatti, sono quasi sempre neri e vengono serviti o già mescolati al riso (che si colora di scuro) o separati. Spesso, però, si possono combinare i contorni e potete scegliere anche fra insalata fresca con cetrioli, pomodoro e avocado e tostones. Sono buonissimi: si tratta di platano tagliato a rondelle e fritto (se ho ben capito due volte). In alternativa, ci sono anche le papas fritas: patate sottilissime e croccanti. Per quanto riguarda le carni, il manzo viene proposto con meno frequenza anche perché i cubani non possono mangiarlo. E’ una delle tante differenze che dividono la vita dei turisti da quella della gente del posto: la cosa colpisce ancora di più visto che lungo le strade si vedono parecchie mucche al pascolo. A volte è proposta anche la carne ovina, ma non l’ho assaggiata. Sul fronte del pesce, direi che la fanno da padrona aragoste (langosta) e gamberi. Anche in questo caso, purtroppo, si tratta di un privilegio per turisti. Nonostante non la mangino, la cucinano in modo fantastico, sia alla griglia (a la plancha) che in salsa, ma le ricette ve le racconto sotto. C’è anche il pescado: pesce del giorno, oppure una sorta di ‘mare e monti’, abbondanti piatti che uniscono pesce e carne. Un’ultima cosa: il dolce finale è molto apprezzato nella cucina cubana e nelle case mi è sempre stato proposto. Di solito si tratta di gelato, magari di ananas o mango; dolce de leche, una specie di budino alla vaniglia, oppure formaggio ‘annegato’ nella marmellata.

Qualche indirizzo in giro per Cuba

La Guarida: il nostalgico

Il palazzo storico della Guarida (da www.laguarida.com)

Il palazzo storico della Guarida (da www.laguarida.com)

Consigliatissimo da tre guide su tre (avevo con me Routard, Marco Polo e Lonely Planet), ormai non è più un posto così originale da consigliare, ma se siete all’Avana la considero una tappa obbligata. Siamo a Centro Habana, che forse di sera non è il posto migliore per passeggiare, ma è un luogo interessante per farsi un’idea di come vivono moltissime famiglie cubane della capitale. In questo quartiere popolare si trova un paladar di incredibile fascino ed eleganza, diventato famoso dopo che vi è stato girato negli anni Novanta il film ‘Fragola e cioccolato’. Non è il più economico e questa cura dei dettagli raramente si trova a Cuba, ma merita davvero anche solo per fare un bel tuffo nei fasti barocchi del passato. Tra l’altro qui si incontrano anche cubani di ceto più elevato, che magari parlano in inglese, o ricchi sudamericani. Un’altra faccia dell’isola.

Il cerdo della Guarida

Il cerdo della Guarida

Il paladar si trova all’interno di tanti palazzi d’epoca bui e pieni di crepe, ma già la scalinata di marmo all’ingresso è superba e si attraversano piani che si affacciano su interni brulicanti di vita. Ma, varcata l’altissima porta di accesso, si entra in un mondo soffuso, ovattato, fatto di luci basse, candele, tovaglie immacolate e quadri fitti alle pareti. Il menù non è troppo esteso e regala sorprese, come l’aragosta in salsa di mango e ananas. Anche il cerdo era molto buono (per quanto forse un po’ troppo cotto rispetto ai nostri gusti). Interessanti i dolci e i vini, con etichette francesi e sudamericane. Ottima la cucina, ma sul piatto vince l’atmosfera. La Mulata do Sabor: il simpatico

Il colorato pollo della 'Mulata'

Il colorato pollo della ‘Mulata’

Tutt’altro stile, tutt’altra zona. Siamo nell’Havana Vieja, in un angolo molto caratteristico. La sensazione è, come sempre, di entrare in casa dei proprietari, e in effetti è proprio così. L’ambiente è piccolo (non sono arrivata a contare dieci tavoli) e raccolto. Le pareti sono tappezzate del viso di Justina, la proprietaria, con un colore di capelli sempre diverso in compagnia di clienti altrettanti diversi. E poi un acquario, teche di vetro con vari oggetti, fiori, la ventola sul soffitto. Il menù è piuttosto limitato, pollo o aragosta in pratica: scegliamo il pollo della casa. Ci arriverà dopo una buona mezz’ora e intanto ci rinfreschiamo con due birre: ce le sceglie il proprietario, marito di Justina: per me la Cristal, la Bucanero è troppo da uomini dice. L’attesa come sempre non è vana. Il pollo è squisito, morbido e accompagnato da meravigliosi tostones. Ma il bello arriva quando entra Justina, casualmente appena tornata dall’ospedale; deve operarsi all’anca e zoppica, ma il suo sorriso illumina la stanza. Oltre a noi ci sono altri due ragazzi francesi: non fa che ringraziarci per avere scelto il suo locale, assicurandosi in tutti i modi che la cucina ci abbia soddisfatto. Non si cura della sua stampella, ma solo di noi. Ecco, scene come queste capitano nei paladar. La Paloma: il romantico

La fantastica aragosta della Paloma

La fantastica aragosta della Paloma

I portici di Remedios

I portici di Remedios

Se arrivate a Remedios la domenica all’ora di pranzo cercherete di ricordare qualcosa. Una chiesa al centro della piazza chiusa. Il sole infuocato. Qualche passante in bicicletta, qualche coppia sulle panchine all’ombra degli alberi. Dove l’avete già vista questa scena? In un film di Sergio Leone? In un libro? Non so. Ma vi sembrerà di esserci già stati, in qualche angolo della memoria o di un sogno fatto, in questo luogo sonnolento, placido. Caldo. E così è anche la Paloma, il paladar che si affaccia sulla piazza principale. Non si può sbagliare, visto che sulla porta c’è una formella con una colomba. Paloma è anche il nome della figlia dei proprietari di questo suggestivo palazzo, dalle sale fresche, ideale per una sosta. L’apparecchiatura della tavola avviene sotto i vostri occhi ed è meticolosa, lenta, e vi sentirete trattati come grandi ospiti.

Un tipico dessert cubano

Un tipico dessert cubano

Nell’attesa del piatto che avete scelto (fantastico il pollo arrosto), vi arriveranno sempre patate e fagioli come ho già descritto sopra, ma devo dire che in questa casa li ho trovati particolarmente buoni. Buona l’insalata e così la marmellata e il formaggio, anche se confesso di avere faticato ad alzarmi da tavola da tanto ero sazia. Gentilezza impeccabile, viavai nel patio, vociare dalla cucina. Un luogo in cui farsi cullare.

Val d'Orcia

Un fine settimana a gennaio

Val d'Orcia e amenità

Val d’Orcia e amenità

In Toscana a gennaio. Si può

Purtroppo non sempre ci si può scegliere le date delle ferie. E nel mio caso sono capitate in un periodo dell’anno non proprio entusiasmante: gli ultimi giorni di gennaio. Il maltempo in questo periodo dell’anno è chiaramente da mettere in conto, ma io e la mia amica Elena (che non ho mai ufficialmente ringraziato per avermi suggerito il nome PerSorsi, ed era stata la vera molla per iniziare l’avventura, grazie!) avevamo liberi solo i due ‘giorni della merla’ e abbiamo architettato comunque un viaggetto. Dovevamo scegliere la meta secondo due principi di fondo: il fatto di restare in Italia e un budget contenuto (il che escludeva la montagna, in altissima stagione in questo momento). Ma diciamolo, non è facile fare i turisti a gennaio. Non solo per le giornate corte e per il freddo, ma anche perché in certe zone d’Italia musei, agriturismi, B&b e ristoranti si coordinano alla perfezione chiudendo i battenti fino a San Valentino (se non fino a marzo). La soluzione? Le terme. E’ una meta classica, ma sempre magica. E così, complice anche qualche schiarita davvero insperata, ecco un itinerario di grande soddisfazione in Val D’Orcia (e non solo) nonostante il tempo da lupi.

Le terme di Bagno Vignoni
Bagno Vignoni (foto tratta dal sito www.albergoleterme.it)

Bagno Vignoni (foto tratta dal sito www.albergoleterme.it)

Abbiamo inforcato l’A1 con sospetto: il valico sull’Appennino fra Bologna e Firenze regala sempre atmosfere da Transilvania, ma tutto è andato bene. La destinazione era Bagno Vignoni, posto veramente incantevole. Non cercavo terme troppo “pacchiane”, né troppo “convinte”. Queste sono una buona via di mezzo: con la bella stagione è il massimo perché le vasche si trovano all’esterno in conche naturali, ma anche d’inverno si può accedere alla spa degli alberghi in paese. Il cuore del borgo è una grande vasca di epoca romana da cui si levano tutto il giorno fumi sulfurei: il tutto contornato da un loggiato e stupendi palazzi. Insomma, un luogo pittoresco, anche se non sempre a buon mercato. E così abbiamo dormito nei dintorni, per poi passare il pomeriggio all’Hotel Le Terme. Con 38 euro si può accedere all’area benessere per sei ore (fino alle 19,30): mi pare un prezzo nella media visto che comprende anche il kit con accappatoio, telo e cuffia. Sono terme piccole, rese luminose da molte vetrate, anche se chi si aspetta molte proposte potrebbe restare deluso. Ci sono due vasche, di cui una meravigliosa con acqua a 37 gradi e un’altra un po’ più fredda con idromassaggio. C’è poi una sauna romana, che di fatto è un bagno turco, e una sala relax. Confermo che il relax è assicurato (meglio prenotare visto che gli spazi non sono molto grandi). A me sono piaciute molto.

Un tuffo nel passato: Rocca d’Orcia
L'ingresso di Rocca d'Orcia

L’ingresso di Rocca d’Orcia

Dicevo che se volete contenere il budget forse è meglio non dormire in paese. Nei dintorni ci sono Montalcino, San Quirico d’Orcia, Castiglione d’Orcia e (ma in questo periodo molti sono chiusi o propongono riscaldamento a consumo) stupendi agriturismi. La Mecca del Brunello merita un capitolo a parte, ma io consiglio caldamente di sostare a Rocca d’Orcia. E’ un paese minuscolo che sembra sorvegliare dall’alto Bagno Vignoni. C’è anche una parte moderna, ma il borghetto, con case interamente in pietra, è da favola. In questo periodo (ah, ci sono ricascata) sono chiusi sia i due ristoranti che l’enoteca, ma vale comunque la pena dormire qui per il senso di pace e di isolamento. Io consiglio La Rocchettina: appartamento all’interno di una rocca in sasso semplicemente meravigliosa.

La Rocchettina vista dall'esterno

La Rocchettina vista dall’esterno

La cura nel restauro e la gentilezza della proprietaria meritano il viaggio e anche il prezzo è molto interessante: 80 euro (ci sono tre posti letto) a notte, con anche tutto l’occorrente per una colazione semplice. Servizio impeccabile. Davvero bello e ancora non troppo conosciuto (si affidano anche al passaparola, ma su qualche sito come Booking potete trovarla). Consiglio di passeggiare con calma in paese e di visitare anche il vicino (e più grande) San Quirico d’Orcia. Avevo accennato a Montalcino. Il paese, circondato da mura come un gioiello e incastonato nelle colline, è suggestivo e troverete molti negozi per acquistare o degustare Brunello. In questo post però vorrei soffermarmi su tappe low cost e consiglio un posto adatto a una cena dall’ottimo rapporto qualità prezzo. Siamo all’Osteria di Porta al Cassero, che ho trovato frequentato da gente del posto. Antipasto con crostini toscani e poi sotto con i tipici pinci: buonissimi quelli all’aglione, ma da provare anche quelli con briciole di pane. Meno convincente il dolce, ma in generale siamo uscite molto soddisfatte con 39 euro (vino compreso).

Di cantina in cantina
L'azienda agricola Fanti

L’azienda agricola Fanti

In questo fazzoletto di Toscana sarebbe davvero un delitto non degustare un buon Brunello in una delle tante aziende vinicole del comprensorio. Ma non è che sia sempre tanto facile: tranne alcune molto blasonate che propongono siti internet dettagliati, moltissime vanno chiamate per prendere un appuntamento (alcune, a rieccoci, sono chiuse per lavori di manutenzione in questo periodo). Se non volete vagare troppo o attaccarvi al telefono (che per altro su queste curve prende relativamente), fate una tappa all’azienda Fanti, fra Montalcino e Sant’Antimo (che qui è anche denominazione per il vino). Primo perché (per quanto anche qui gradiscano essere avvisati prima, ovvio), avrete comunque modo di fare una visita alla cantina e una degustazione (gratuita) di tutta la gamma dei vini e di olio. Il Rosso di Montalcino è particolarmente profumato ed equilibrato, ma ho trovato ottimo anche il Brunello (annata 2009), dai sentori balsamici. Interessante il prezzo (28 euro, 10 euro il Rosso).

l'Abbazia di Sant'Antimo

l’Abbazia di Sant’Antimo

Il secondo motivo per passare in questa cantina? Che si trova a due curve dalla suggestiva abbazia di Sant’Antimo. Immersa nel verde, il chiarore della pietra è abbagliante, in contrasto con l’interno della chiesa: spoglio e in penombra. In teoria siamo arrivate alle 12.45 per i canti gregoriani, però non li abbiamo trovati. Almeno in chiesa, ma se si prosegue si raggiunge la comunità di monaci. Un luogo di pace e spiritualità (ecco, devo dire che almeno a gennaio non c’era la consueta invasione di pullman…): un vero tesoro che attende sulla Francigena.

Fra Cortona e Arezzo
Per il centro storico di Cortona

Per il centro storico di Cortona

Poi abbiamo proseguito verso Est, risalendo fino a Cortona. All’inizio eravamo indecise se andare direttamente in Umbria, invece ci siamo dirette verso questa cittadina gioiello. Prima delle mura, a fare da sentinella è la stupenda chiesa di Santa Maria Nuova: per i fan di Jovanotti, Lorenzo si è sposato qui (del resto, vive nei dintorni). Il pezzo forte è la piazza, ma anche la camminata lungo le stradine che portando in cima, alla chiesa di Santa Margherita (ci vuole fiato però!). Per gli amanti dello shopping, ci sono negozi di artigianato davvero belli (ad esempio pelli o ceramiche), ma ahimé non rientrano nella categoria low cost che anima questo post. Stupendo, comunque, il negozio di antiquariato all’ingresso del paese: c’era anche un biliardino degli anni Trenta perfettamente funzionante. La favola costa 2.300 euro. Tornando all’aspetto artistico, come spesso mi è capitato in questi borghi deliziosi, passeggiando in tanta bellezza resto sconcertata dalla perfezione di queste case che sembrano tristemente chiuse. Vuote? Comprate da ricchi stranieri? Seconde, terze case? Chissà: certo è che se se non si riesce a incentivare giovani a vivere in luoghi storici come questi o a portarci qualche negozio in più, sono paesi che rischiano di restare musei a cielo aperto. Ma pur sempre vedere e non toccare. Al di là di questa breve riflessione, consiglio una sosta all’enoteca Cacio Brillo, dietro la piazza. Luogo simpatico, saporite bruschette, ottimo Nobile di Montepulciano. Ah, la Toscana.

Al Cacio Brillo

Al Cacio Brillo

Per quanto fossimo in cerca di relax, forse a Cortona forse ce n’era pure troppo e così abbiamo preso l’auto per gli ultimi 25 chilometri: destinazione Arezzo. Improvvisare si può: abbiamo prenotato il B&b Garden a cinque minuti dal nostro arrivo sul posto. La scelta si è per altro rivelata ottima (63 euro la doppia con bagno in camera, ampio terrazzo e premurosa colazione), anche se si trova fuori dal centro e quindi senza macchina bisogna camminare un po’.

Alcune sequenze del film 'La vita è bella' (foto da www.visitarezzo.com)

Alcune sequenze del film ‘La vita è bella’ (foto da www.visitarezzo.com)

Il primo impatto con Arezzo è stato entusiasmante. Corso Italia, la via in salita che taglia il centro, era piena di giovani (era sabato sera). Ho respirato grande vivacità, in particolare nelle piazze vocianti al momento dell’aperitivo. Piazza Grande, per chi non la ricordasse nel film la ‘Vita è bella’ (a proposito è possibile fare un mini tour Benigni nei punti chiave in cui è stato girato il film), è davvero unica: la pendenza, l’unione degli stili e la chiesa che sembra “girata” la rendono speciale. Ed ecco qui, giro finito. Ma divertirsi, mangiare bene e vedere gioielli tutti italiani si può anche in due giorni. Anche a gennaio.

Da Ambra: il ristorante delle donne

Ambra e Rosa

Ambra e Rosa

Una risposta a Masterchef e a tutti gli uomini stellati arriva dalla piccola Imola. All’Osteria del Vicolo Nuovo, infatti, in cucina sono tutte donne. E così anche in sala (anche se due uomini sono ammessi nello staff). Il motivo? “La cucina al femminile è più concreta, meno acrobatica. E poi noi donne siamo più brave, perché impariamo fin da piccole aiutando in casa”. Ha le idee chiare la dinamica Ambra Lenini “ostessa nell’animo”, sommelier, pioniera della ristorazione abbinata al vino di qualità. La sua osteria, che dal 1993 senza interruzioni vanta la chiocciola di Slow Food, il 22 gennaio festeggia un traguardo davvero speciale, i trent’anni.

Era il 1994, infatti, quando in via Codronchi ha aperto questa enoteca, proponendo pochi piatti e affettati. “Si stava fuori di più la sera forse” ricorda Ambra, che comunque ancora oggi (e chi mi legge sa quanto queste siano sante parole) “se qualcuno si presenta anche alle 23.30 non lo caccio via”. E infatti al Vicolo Nuovo si va dopo il Comunale, come fanno gli stessi attori del resto. Ma lei la mattina alle 8.30 è già di nuovo nel suo locale, con la spesa già fatta, a chilometro più che zero, dentro la sportina.

Cosa contiene? Il menù cambia tutti i giorni e propone sempre carne, pesce e ricette per vegetariani. Del resto, “le verdure, in particolare zucche e porri, mi intrigano. Ma mi piace cucinare tutto, maneggiare gli ingredienti. Amo le paste, anche se da noi il trionfo è con i dolci”. Non resta che provare, ma prima ecco qui l’intervista completa che racconta un po’ meglio questo storico luogo del mangiare bene e dell’ospitalità. In rosa.

Mangiare il venerdì sera a Gerusalemme

Gerusalemme alle sette di sera. Di venerdì
E’ shabbat: e io dove mangio?

Sembra facile, ma non lo è. O, per lo meno, non lo è sempre. Mangiare a Gerusalemme non richiede che l’imbarazzo della scelta, visto che anche per il palato è un vero crocevia enogastronomico. Sia nella città nuova, che fra le mura della vecchia, non avrete difficoltà a trovare ottimi hummos e falafel, cucina armena o araba. Ma la città cambia volto con l’inizio dello shabbat: dal venerdì sera, da quando cala la luce del giorno, sarà veramente dura trovare un locale aperto per cena. Del resto qui la parola kosher è decisamente di casa. Come ho già scritto nel precedente post mangereccio sul mio viaggio in Israele, di sabato le attività degli ebrei ortodossi si fermano quasi completamente. Niente tram, niente ascensori, niente ristoranti aperti. A parte qualche eccezione che abbiamo scovato, un po’ grazie alla Routard, un po’ grazie al web (quello funziona). E un po’ per caso.

Barood
Il Barood visto dall'interno (dal sito www.israeltraveler.org)

Il Barood visto dall’interno (dal sito www.israeltraveler.org)

Inizio subito da questo posto delizioso. Propone cucina sefardita, ma sembra un vero e proprio angolo di Francia nel cuore della città nuova. Si trova in una specie di vicolo in cui si susseguono ristorantini un po’ per tutti gli stili (cosa tipica direi in Israele): dal giapponese al pub inglese (poco più in là c’è persino il pub Putin con tanto di bandierine russe ovunque). Il Barood, con la sua cucina casalinga e creativa si nota subito per la musica soffusa (anche live), il menù del giorno scritto alla lavagna e il tipico interno da bistrot, con specchi, quadretti affastellati. Le piccole cose di pessimo gusto diceva Gozzano. Ambiente caldo, nelle fredde sere di Gerusalemme, e completamente estraneo all’atmosfera piuttosto pesante che spesso si respira in questa città. I piatti sono ottimi, con una contaminazione dell’Europa dell’Est: io ho provato polpette cotte nel vino e prugne su un letto di purè, ma c’erano anche cous cous e varianti di Schepard’s pie. Buono anche il dessert- abbiamo provato una selezione di tartufi di cioccolato- e il vino al calice. Il prezzo? Sulla trentina di euro a testa, ma visti i costi gerosolomitani… ci sta eccome. Una boccata d’ossigeno dalla calca della città.

Dentro il Barood

Dentro il Barood

I tartufi al cioccolato al Barood

I tartufi al cioccolato al Barood

Iwo’s

Decisamente più alla mano, ma di grande soddisfazione. Gli hamburger di Iwo’s pare siano andati di traverso alle autorità religiose di Gerusalemme, ma sono l’ideale per i non ebrei osservanti. Il negozietto, con qualche tavolino fuori, sotto un porticato, è leggermente decentrato rispetto a Jaffa Street. Lo stile del posto, molto piccolo, ricorda quello dei fast food americani degli anni Cinquanta: la carne del panino si sceglie in base al peso, poi si compone il tutto assieme al cameriere. Io ho aggiunto formaggio cheddar, pomodori e insalata, ma c’era un po’ di tutto. Rispetto al costo di un hamburger dalle nostre parti il prezzo è più elevato (circa 15 euro, bevanda compresa), ma nel complesso è tutto molto buono.

Un Iwo's burger

Un Iwo’s burger

Le proposte di Iwo's

Le proposte di Iwo’s… in lingua originale

Oltre a questi due posti testati, se volete mangiare durante lo shabbat ci sono alcune possibilità, tutte più o meno concentrate vicino a Jaffa Street. Nello stesso vicolo del Barood ci sono i ristoranti etnici che ricordavo prima e una serie di pub con camerieri dall’approccio piuttosto aggressivo, ma che di fatto sono sempre aperti. Troverete divanetti con narghilè e superalcolici di tutti i tipi. Per quello che interessa a noi, il menù è più o meno quello dei pub di tutto il mondo, dal panino alla carne. Sempre sulla stessa strada, si affaccia anche l’immancabile ristorante cinese: a tutte le latitudini, non conosce ferie o chiusure.

Un’altra piccola avvertenza: l’osservanza religiosa a Gerusalemme è totale e prima di sedervi a tavola controllate che giorno è. Ad esempio, nella città vecchia è affascinante passeggiare di notte nel quartiere armeno, ma se pensate di provare la graziosa Taverna Armena, non fate come me: non andateci di domenica.

Se volete altre dritte, ecco a voi un altro link

Dormire in tenda a duemila metri

La presentazione del Salewa Base Camp (foto tratta dal sito http://www.meran.eu/natura/salewa-basecamp-merano/)

La presentazione del Salewa Base Camp (foto tratta dal sito http://www.meran.eu/natura/salewa-basecamp-merano/)

Dormire in tenda al Salewa Base Camp

Yuko invece nella sua compagna vedeva cinque caratteristiche diverse, che appagavano il suo talento artistico. “E’ bianca. Dunque è una poesia. Una poesia di una grande purezza. Congela la natura e la protegge. dunque è una vernice. La più delicata vernice dell’inverno. Si trasforma continuamente. dunque è una calligrafia. Ci sono diecimila modi di scrivere la parola neve. E’ sdrucciolevole. Dunque è una danza. Sulla neve ogni uomo può credersi funambolo. Si muta in acqua. Dunque è una musica. In primavera trasforma fiumi e torrenti in sinfonie di note bianche“.

da ‘Neve’, Maxance Fermine

Io non sono un’esperta di montagna. Non so sciare, non ho una tuta da sci, sono quella che fa sempre la corsa da Decathlon per cercare il minimo indispensabile il giorno prima di partire. Al freddo preferisco il caldo e ho dormito in tenda solo in Grecia, d’estate. Soffro di vertigini e stare a gambe a penzoloni nel vuoto a tratti mi impedisce di parlare. Ed è proprio per questo che ho deciso di partecipare al Salewa Base Camp a Merano 2000.

Confesso che la prima volta che abbiamo visto la tenda-fac simile ai mercatini di Natale, là in mezzo alle casette di legno e i pentoloni di vin brulè, ho pensato che era una cosa da matti. Non so esattamente quest’anno cosa mi abbia spinta a cambiare radicalmente idea, tanto da insistere con il mio compagno di viaggi (ecco la sua versione della spedizione) per parteciparvi. Cosa è successo in questi dodici mesi? Ho viaggiato un po’ fra Balcani, Isreale e Cuba. Non so se saranno stati questi paesi dalla storia complicata a toccarmi nuove corde, ma fatto sta che ho deciso di superare sempre di più i miei limiti e le mie paure, fra cui quella dell’altezza.


Che cos’è il Salewa Base Camp

Secondo uno dei gestori del rifugio Mittager, se avessimo dato 140 euro a qualcuno giù a Merano per andare a dormire all’aperto lì su, a 2.300 metri, ci avrebbero presi per matti. In effetti, passare la notte in una delle dodici tende acquattate sul Monte Catino sembra un po’ un diversivo per spericolati. In realtà, è soprattutto un modo per vincere la paura del silenzio e per godere dell’isolamento, dialogando con la natura.

Dunque l’idea di Alex, albergatore meranese e nostra guida responsabile, è stata questa: contattare il noto marchio che ha messo a disposizione tende e sacchi e pelo tecnici e portare il gruppetto in questione, circa una ventina per volta fino al 9 gennaio, al rifugio. Ci si trova alla funivia che porta agli impianti di Merano 2000, si cammina per 45 minuti nella neve, si prende la seggiovia Mittager, la più fredda del comprensorio, e si sale fino a 2.300 metri. La cena e i momenti col gruppo si vivono all’interno del rifugio, poi la notte si sguscia nelle tende, ci si infila nel sacco a pelo come bachi da seta e, mentre fuori la temperatura scende ben oltre sotto le zero, si attende il sonno dopo che Alex ha staccato la corrente elettrica.

Il tragitto a piedi verso la seggiovia

Il tragitto a piedi verso la seggiovia (che finisce nel nulla)

Una notte in compagnia della neve

Ed ecco che allora la protagonista di queste righe è la neve. Lo è stata lungo il percorso verso la seggiovia, mentre, sottile, ricopriva i nostri vestiti e si sfaldava sotto i nostri piedi. Ci ha avvolti lungo la strada, mentre era difficile tenere il passo dietro a un gruppo di bolzanini ben più allenati di me. L’ho temuta sui famigerati impianti, mentre si dondolava per il vento e i fiocchi sulle sciarpe, gelidi, diventavano cristalli. I piloni emergevano dal biancore come spettri, silenziosamente incrostati di ghiaccio. Ha circondato il rifugio, dove l’abbiamo dimenticata, seduti davanti al fuoco, chiedendo il bis di Kaiserschmarrn e mentre la grappa alle radici di genziana bruciava, in gola.

Il momento grappe in rifugio

Il momento grappa in rifugio

Ma la neve ci aspettava, paziente, all’esterno, impedendoci di vedere le cime e quel cielo stellato che ci aveva incantato della sera prima. La cosa più difficile è stato raggiungere la tenda a pochi metri dal rifugio: i nostri passi erano come di piombo sopra quella coltre. La neve tagliava le palpebre, bisognava entrare velocemente per lasciare fuori quel brontolio e stendersi su coperte e cuscini e immaginarsi qualcuno già conosciuto nei libri. La neve è stata la nostra compagna tutta la notte. Non ha smesso di cadere sulla nostra tenda, così come il vento non ha smesso di scuoterla. Due soli rumori, uniti a un terzo: quello del mio battito, accelerato dalla corsa nella neve, dal generoso cibo del rifugio, dall’emozione per la novità. Una tachicardia che all’inizio mi ha impedito di scivolare nel sonno, ma che poi se ne è andata, come il freddo, rimasto fuori da quel sacco a pelo.

Questa l’avventura. Il resto è bianco. E’ il bianco del risveglio, quando una foschia luminosa continuava a schermare il rifugio, che ci aspettava per la colazione. E bianco era il panorama, sempre spettrale, che ha accompagnato il viaggio in seggiovia verso la gli impianti sottostanti. E nel silenzio di quei minuti appesi a un filo pieno di neve, mi sono accorta che la paura era rimasta su, dentro quelle tende.