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A Bologna di mercato in mercato

Altro? al Mercato delle Erbe

Altro? al Mercato delle Erbe

Chi mancasse da tempo da Bologna, ad esempio uno dei tanti studenti fuori sede, e tornasse in città adesso noterebbe una cosa su tutte: la riscoperta dei mercati cittadini. Luoghi che a volte erano finiti un po’ nel dimenticatoio e che da un anno a questa parte stanno calamitando tutti i localini più alla moda. Visto che il bolognese medio tende ad andare sempre negli stessi posti, finché vanno, anche questi sono effettivamente spesso presi d’assalto, ma ne vale la pena perché mettono al centro il concetto di prodotto tipico, di qualità. O anche semplicemente perché offrono qualcosa di alternativo alla tradizionale osteria. Insomma, ho notato la crescita di una tendenza che all’estero ho già visto diverse volte (penso a città come Tel Aviv, Berlino, New York), ma ben venga anche da noi. Anche perché alcune zone bellissime del centro storico sono letteralmente rinate.

Come ad esempio, quella del Mercato delle Erbe. Da anni passare per la piazzetta davanti a via Belvedere non era sempre una passeggiata piacevole. Ora certe sere non si cammina da quanta gente c’è. Lo stesso vale all’interno dello storico mercato, che non vende più solo frutta e verdura, ma ha ampliato l’offerta con locali in cui mangiare sul posto. Prima con il Banco 32: si possono provare varie specialità a base di pesce fresco che viene proprio dalla pescheria lì accanto. Tavolini molto carini, almeno quanto i prezzi: ma confesso, non sono ancora riuscita a provarlo. Di lunedì (che spesso è il mio giorno libero) è chiuso e quando passo è pienissimo. Sempre all’interno, l’ultima novità è l’ampio spazio: Altro? Fra sedie e divani recuperati, tavoli vintage (e anche quelli piccoli della scuola), si apre uno spazio centrale su cui si affacciano botteghe nuove, ma che hanno mantenuto l’insegna originale. L’insieme mi ha ricordato i mercati orientali in cui si compra nelle bancarelle e poi si mangia su panche e tavolini lì vicino. La proposta qui è fra una pizza al taglio fatta con il lievito madre (ottima quella gorgonzola e noci), un bar per aperitivi e spuntini, una latteria biologica che prepara mozzarelle strepitose in diretta, oppure un Alimentari in cui scegliere panini e zuppe. E poi c’è anche un ristorantino ‘Cucina’ che propone alcuni piatti della tradizione bolognese, ma anche nazionale. Io, ad esempio, ho provato il baccalà: era fantastico (12 euro un piatto abbondante con contorno). Tutto un po’ hipster: ma a me poi piace così.

Mozzarelle in divenire

Mozzarelle in divenire

Altro? al Mercato delle Erbe

Altro? al Mercato delle Erbe

Sugli sgabelli fuori dalla pescheria San Gervasio

Alla pescheria San Gervasio

Anche all’esterno, la scelta è vasta. In via San Gervasio c’è ‘Via con me’: ristorantino molto grazioso, ma anche qui trovare posto la sera senza prenotazione è praticamente impossibile (ed è chiuso sia la domenica che il lunedì). E poi ancora pesce con la Pescheria San Gervasio in angolo con via Belvedere. Ottimo fritto misto, si mangia in piedi o sugli sgabelli: comunque i coperti sono pochissimi (anche questo è chiuso di lunedì). A fianco un bar molto frequentato dall’aperitivo in avanti: il bar Mercato con la sua buona scelta di vini. E poi il Senza nome: un locale in cui sarete serviti da ragazzi sordi.

Il Mercato di mezzo

L'interno del Mercato di mezzo (foto tratta dalla pagina Facebook)

L’interno del Mercato di mezzo (foto tratta dalla pagina Facebook)

Quando ha aperto, circa un anno fa, ha ridisegnato il cosiddetto Quadrilatero, una serie di stradine e vicoli fra Piazza Maggiore e le Due Torri, famose per i mercatini di frutta e verdura, botteghe storiche e pescherie. In questi vicoli ora hanno aperto locali alla moda per aperitivi a base di taglieri e tigelle come lo Zerocinquantino o il ‘fratello’ Zerocinquantello (il nome gioca con il prefisso telefonico di Bologna 051). Nel fine settimana sono presi d’assalto persino gli sgabelli all’aperto, come alla Baita: negozio di gastronomia bolognese che ora serve anche salumi e formaggi, pasta fresca e vino. Insomma, una piccola rivoluzione attorno al mercato vero e proprio, inaugurato circa un anno fa. Passando all’interno, al piano di sotto si trovano una gelateria, una pasticceria, un birrificio artigianale, un punto vendita dell’Enoteca Regionale. E poi ancora pasta fresca, il fornaio, punti vendita in cui mangiare all’istante. Anche in questo caso non manca la pescheria. Al piano di sopra, invece, la pizzeria di Eataly: ambiente un po’ freddo, ma pizza buonissima.

La mappa del Quadrilatero

La mappa del Quadrilatero

All’esterno, ancora tantissime scelte. La libreria Coop-Ambasciatori, che ospita anche Eataly su tre piani, per mangiare circondati dai libri. Oppure, la mitica Osteria del Sole: luogo storico in città, praticamente sempre straripante di gente, in cui bere fino circa alle 22 (è chiuso la domenica). Per quanto riguarda il cibo, però, quello ce lo si porta da casa  (o dal vicino mercato, appunto) e lo si può mangiare sui tavoli di legno. Per chi non ne avesse ancora abbastanza, la parallela (siamo nel Quadrilatero non per caso) via degli Orefici offre tutto il possibile: un tempio della gastronomia bolognese come Tamburini, il famosissimo panificio Atti (è soprattutto davanti a queste vetrine che gli stranieri fotografano i tortellini). E poi ancora gli hamburger di qualità da WellDone, la pizza di Altero, il Fleur du vin con le sue degustazioni di vini e prodotti francesi. Credo che qualche posto per mangiare, a questo punto, lo abbiate trovato.

Il Quadrilatero (Foto da www.prolocoemiliaromagna.it)

Il Quadrilatero (Foto da www.prolocoemiliaromagna.it)

Gag davanti alla vetrina di Atti

Gag davanti alla vetrina di Atti

Il Fleur du vin

Il Fleur du vin

Ps. Sul sito BolognaWelcome si possono trovare tante più informazioni, e non solo mangerecce. Ed ecco qui un altro sito per saperne di più sul Quadrilatero.

Berlino: colazione a Prenzlauer Berg

Se il buon giorno si vede dal mattino, allora a Berlino tutto non può che andare alla grande. Come al solito, tornata da una città sterminata e piena di stimoli come questa, è difficile decidere da dove iniziare a raccontare. E allora perché non partire proprio dalla colazione? Una zoommata su un dettaglio che secondo me la dice lunga su questa capitale.

Il quartiere di Prenzlauer Berg

Camminando su Schönhauser Alee, nel quartiere di Prenzlauer Berg, a un certo punto si è attirati da covoni di fieno. Sì, paglia in mezzo al marciapiede, con tanto di fiori e piante. A guardare bene, sono proprio tavolini. Come se non bastasse, c’è anche un tuk tuk thailandese. Eccolo il posto per la nostra colazione. All’interno, nuove sorprese: un gatto comodamente seduto, specchi, fiori sui tavoli, un ambiente che porta indietro nel tempo. Un cameriere simpatico che ci cerca un menù in inglese. Siamo al Blumencafè e mi pare che questo luogo già racconti l’angolo di città in cui siamo capitati.

gatto

 

Bernauer Strasse

Fino al 1989 questa colazione l’avremmo fatta nella Berlino dell’Est.Tutta Prenzlauer Berg si trovava oltre il muro, come racconta lo suggestivo memoriale che si trova proprio qui vicino, in Bernauer Strasse. La strada è una delle più significative di Berlino. I muri delle case parlano. Una lunga conversazione con il visitatore fatto di immagini dipinte sulle abitazioni che si sono trovate in questo luogo di confine. Camminando lungo la linea del tempo, si trova anche una vera porzione di muro, con tanto di area di nessuno conservata al suo interno. Già tutto molto eloquente, ma per chi volesse saperne di più di questo controverso periodo storico, attraversando la strada si può entrare in un piccolo centro di documentazione. Beh, ci sono altre tracce del muro in giro per la città (anche se non poi tantissime), ma questa mi ha colpito di più del noto Eastern Wall dipinto da artisti famosi. Qui tutto è costruito attorno a un’assenza, che però mi è sembrata molto più tangibile delle vere pietre.

 

Vent’anni fa questo bar c’era già. Ora comunica con un negozio di fiori. Il cameriere racconta che tutto quello che vediamo, oggi così radical chic (c’è anche l’immancabile bicicletta appoggiata), è stato interamente risistemato da loro. Il gatto è lì da 16 anni, così come due enormi pappagalli. Un posto strano, stratificato, proprio come questo quartiere. Qui molti palazzi sono signorili e tutti freschi di restauro, ma in realtà un tempo questo era un quartiere operaio. Proprio questa è stata la sua fortuna durante la Seconda guerra mondiale, perché la zona ha subito molto meno i bombardamenti che hanno devastato gran parte della città. Oggi si passeggia in strade tranquille, fra facciate colorate e adorabili piazzette. Dove c’erano figli dei fiori e artisti di strada oggi ci sono soprattutto giovani famiglie e studenti. Colorati murales testimoniano il recente passato alternativo, per quanti oggi ci siano soprattutto locali alla moda. Ma questa città cambia in fretta.

Berlino, una città che cambia

Nella sua continua evoluzione, però, restano altre indelebili tracce del tempo. Sempre fra queste strade, ad esempio, è rimasta l’unica sinagoga che non fu date alle fiamme dai nazisti. Pare fosse in una strada dove vivevano molte SS ed è stata risparmiata. C’è pure un antico cimitero ebraico, ma non ho fatto in tempo a visitarlo. Di nuovo storia, in un tranquillo parco dove al centro si trovano ex cisterne per l’acqua. Questo luogo oggi così pacifico è stato punto di raccolta di deportati. La terra non ha dimenticato, forse, ma nella cisterna più grande oggi ci sono carissimi appartamenti. Tutto, in questa città, cambia molto in fretta.

Ah già, la colazione. Tutto queste cose le avrei visto solo dopo il Blumencafè. Abbiamo ordinato uova, biologiche, strapazzate con erbette. E poi una selezione di pane fatto in casa con miele, burro bio e marmellata. E poi formaggi (tutto organic pure qui) e salumi. Ottimo anche il caffè, bevuto sulle note di Jack Johnson. Il tutto in compagnia del gatto di casa, che a un certo punto ha pensato che il mio piumino fosse più comodo del suo cuscino.

L’anima delle città

 

Dov’è l’anima di una città? E’ la domanda con cui mi sono svegliata questa mattina pensando al mio prossimo viaggio a Berlino. Il punto è che mi trovo in quei giorni in cui si studia la guida, si guardano le immagini su Internet in piccole pause rubate al lavoro, in cui vado a cercare in altri blog qualche informazione. Da giovedì alla domenica. Poco più di tre giorni mi sembrano all’improvviso pochissimi per esplorare una città che vedo immensa sulla mappa. Leggo la Routard, la guida che viaggia con lo spirito più simile al mio, e cerco di capire questi quartieri così diversi, provo a individuare un itinerario. Quella manciata di musei imperdibili. Ma c’è qualcosa, in questo momento, che mi sfugge, mi disorienta: anche solo leggendo la Lonely Planet di qualche anno fa, Berlino sembra cambiare continuamente, è in perenne trasformazione. Mi scappa un’idea di questa città. Scrive la guida a proposito del quartiere in cui abbiamo scelto l’appartamento (con AirB&b), Prenzlauer Berg: “Come dappertutto a Berlino, anche qui si cerca di cancellare le tracce del passato”. Frase che trovo sconvolgente, perché se c’è una cosa che mi pare distingua la nostra vecchia Europa da altri Paesi in cui ho viaggiato, è proprio la presenza del passato, della Storia, scolpita in monumenti, edifici, strade. Tutte le città stanno cambiando di continuo, ma di solito hanno una precisa identità. Cosa mi devo aspettare da Berlino? Qual è l’essenza della città che devo affrettarmi a cogliere in soli quattro giorni?

Ci sono città in cui l’anima mi è parsa chiara. O almeno mi pare di averla intravista attraverso corde del tutto personali. Non pretendo di averle capite in pochi giorni, ma la loro personalità si è svelata. Vado in ordine sparso.

Sarajevo

Sarajevo vista dalle colline

Sarajevo vista dalle colline

A Sarajevo l’anima della città è negli occhi della gente. Scrutando le facce delle persone per strada ho pensato: questi, vent’anni fa, cosa facevano? Dov’erano assediati? La capitale della Bosnia poggia su una ferita. Le cicatrici sono i segni delle granate nelle strade, ancora dipinte di rosso per ricordare. Tutti qui ricordano. Ci sono le targhe con i morti sui muri, ci sono i palazzi devastati dai proiettili. E, secondo me, il senso lo cogli dall’alto, dalla cima della collina, in cui si appostavano i cecchini. Sarajevo mi sembra di averla capita guardandola da lassù, come adagiata in una conca, così perennemente vulnerabile. E ancora meglio quando, girellando per la Bascarsija, davanti ai minareti illuminati dalla luna, ho avuto la stranissima sensazione di trovarmi catapultata a Istanbul. L’Oriente non esiste più, l’hanno bombardato a Sarajevo, dice Rumiz. Ma questa città, fra le sue macerie, non ha mai smesso di sembrarmi ricca di vita. E una porta per mondi sconosciuti.

Luang Prabang

Luang Prabang

Luang Prabang

L’anima della città l’ho intravista seduta a una tavolino del Tangor, sulla via principale in cui la mattina si ripete il Tak Bat, la processione dei monaci buddisti. Forse era il cocktail che avevo tra le mani, ma mi sono lasciata trasportare dai suoni e dai colori. C’era quel vociare continuo delle città dell’Asia, con un rumore di fondo più o meno continuo di tuk tuk e motorini. Ma c’erano anche le lanterne che ondeggiavano sulla mia testa, colorate. Una leggerezza luminosa che è quella dei templi, delle vesti dei monaci. La gente che passava. Tanti turisti, molti francesi con voglia di colonia, ma anche gente del posto, in un flusso continuo. Un temporale sulla testa in agguato. Lentezza, come quella del Mekong, e mescolanza. E colori. (Ci sarebbe anche la vista sui due fiumi dalla collina del Phu si: ma quello l’aveva già scritto Terzani. Ve la faccio leggere in Un indovino mi disse).

Gerusalemme

Il muro del pianto (Foto di Patrick Colgan)

Il muro del pianto (Foto di Patrick Colgan)

Arrivando da Tel Aviv due sono state le immagini: la salita del pullman (che freddo in effetti la sera) e il clima di pesantezza generale. Qui si prendono tutti sul serio, abbiamo pensato alla sera un po’ affaticati dal puzzle religioso della città vecchia. Ma l’anima di Gerusalemme si trova proprio fra le mura più antiche, dopo i mercati, oltre il Santo Sepolcro. E’ davanti al muro del pianto. Di venerdì sera un’umanità pulsante, rumorosa si raduna qui. Soldatesse che cantano dopo avere posato le armi, figure spettrali con alti colbacchi arrivano di corsa. All’improvviso è solo un ondeggiare di teste e preghiere, in un ritmo che ha una potenza primordiale, ha in sé qualcosa di antico. Dietro il muro, le moschee. Noi turisti dietro un altro muro a guardare.

Marrakesh

Piazza Jemaa El Fna (Foto di Patrick Colgan)

Piazza Jemaa El Fna (Foto di Patrick Colgan)

Piazza Jemaa El Fna non è certo il posto più bello del Marocco, ma è in se stessa il Marocco. Lo è per la confusione che stordisce, per i colori, i furboni che cercano di strapparti qualche soldo, manco fossi un riccone americano. Lo è la sera, quando si alzano i fumi delle griglie e ci si mescola a questa umanità pulsante, imperfetta, per mangiare unti spiedini, brindando con té traboccanti di menta. C’è quello che vende i denti, c’è chi ti metterà un serpente al collo. Ma non ti peserà, perché fa parte delle regole del gioco trovarti al centro di questo cuore che batte e lasciarsi andare un po’.

La mia Bologna

La Basilica di San Luca

La Basilica di San Luca

Se dovessi portare un turista in un posto, uno solo, in tutta Bologna, dove andrei? Come cogliere l’essenza della città in cui si è nati e dove i muri, portici e scalinate raccontano qualcosa di noi? E’ la chiesa di San Luca, dall’alto del Colle della Guardia. Non è un caso che vegli sulla città. San Luca racchiude tutto: andare ad accendere un cero per chiedere qualcosa, magari l’esito buono di un esame, all’università. E poi ci sono i portici, i più lunghi del mondo: è bello salire nella quiete del bosco. Per vedere il centro storico dall’alto è meglio salire per l’Osservanza, ma San Luca è la prima cosa che vedi tornando a Bologna. E’ il primo segno che ti dice, volente o nolente, che sei tornato a casa.

L’isola di Ishigaki in Giappone

Kabira Bay a Ishigaki

Kabira Bay a Ishigaki

C’è un posto speciale che mi viene subito in mente pensando al Giappone. E in queste ore ci penso parecchio visto che il mio primo viaggio, due anni fa, è iniziato proprio a metà gennaio. In realtà il luogo che racconto qui l’ho visitato all’inizio di aprile ed è uno dei più strani che io abbia mai visto. Soprattutto contraddice tutti quei personaggi che, senza avere mai messo piede in Giappone, seppelliscono i suoi abitanti sotto una pioggia di luoghi comuni: sono maniacali, troppo formali, un po’ falsi nella loro gentilezza. Girano vestiti come pazzi, mangiano solo pesce crudo a tutte le ore del giorno. Sono strani. Bene, tutte queste persone dovrebbero farsi un giro a Ishigaki, a sud della prefettura di Okinawa, l’arcipelago delle basi americane e, diciamolo pure, di Kill Bill. Penso che cambierebbero idea.

Kabira Bay

Kabira Bay

Dov’è Ishigaki e come ci si arriva

Nelle isole Yaeyama arriva la compagnia aerea low cost Peach. Gli aerei sono piccoli e un po’ troppo rosa per i miei gusti, ma sono molto nuovi e ci siamo trovati bene. Siamo partiti dall’aeroporto di Osaka e il volo (circa un centinaio di euro) è durato tre ore, di cui gran parte sull’oceano. Questo arcipelago è particolarmente isolato, amato dai sub e dagli appassionati di natura: l’isola di Iriomote è ricoperta quasi interamente da una foresta vergine. Dicono che ci siano gli spiriti, anche se mi preoccuperei più delle zanzare (da aprile a ottobre). Oltre a Ishigaki e Iriomote, c’è un’altra isola decisamente unica: Taketomi. Ne ho già parlato qui e consiglio di passarvi almeno una notte per sentirsi fuori dal mondo. Ci si arriva in pochi minuti con una barca che va davvero a razzo dal porto di Ishigaki.

Queste isole sono rimaste isolate a lungo. Tra il 1945 ed il 1972, come il resto della Prefettura di Okinawa, Ishigaki fu posta sotto il controllo dell’Amministrazione civile degli Stati Uniti per le Isole Ryukyu, dopo la sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale. Le isole sono poi state anche contese da Taiwan e oggi sono territorio giapponese. Arrivati al fiorito aeroporto, una navetta porta in centro in quarantacinque minuti.

Una casa tradizionale

Una casa tradizionale

Cosa vedere

I luoghi di frontiera mi affascinano particolarmente perché si fondono elementi e sembra di vedere più Paesi in uno. Anche Ishigaki è così: ci si trova su suolo giapponese, ma si respira uno spirito ‘da sud’ e, in generale, l’influenza cinese è notevole. Non posso definirla un’isola paradisiaca. Molte case sono grige e squadrate, proprio come sulle isole principali. Storia quasi zero. Ma c’è un perché. Vivere qui significa essere in balia dell’oceano e del vento. Tutti gli anni i tifoni si portano via pezzi di case, tetti, abitazioni intere. E’ dura sfoggiare il legno quando il rischio di tsunami è così alto. Ma ci ho messo un po’ per capire tutto questo.

Come descrive perfettamente Patrick in ‘Orizzonte Giappone‘, il nostro primo impatto non è stato dei migliori. Ishigaki ci è sembrata spoglia, quasi un po’ sporca e persino trafficata. Elementi questi che nelle mete più tradizionali del Paese sono impossibili da immaginare. Hotel-mostri troneggiano sulla spiaggia e per fare il giro dell’isola in autobus ci si mette ore. Sul tatami del nostro ryokan c’era una bella fila di formichine. Il sole? Le previsioni davano pioggia. Ecco, ci siamo chiesti, che diavolo ci siamo venuti a fare fino a qui?

Ma questa era solo la facciata.

Una cena cambia la prospettiva

Ishigaki l’ho iniziata a capire dopo cena. Per fortuna la Lonely Planet non ha sbagliato indirizzo e il Paikaji è stato proprio quello che ci voleva. Il menù è rigorosamente scritto in giapponese, per fortuna con qualche disegno a raccontare i piatti. E così abbiamo scelto riso al nero di seppia, tofu fritto nell’aglio (fantastico), insalata con il goya, un vegetale arricciato e un po’ amaro che mettono dappertutto, e orecchie di maiale, grande specialità locale. Insomma, una cena fantastica, di certo una delle migliori del 2014, che ci ha fatto deporre l’i-pad che avevamo usato per capire quanto sarebbe costato tornare a Osaka prima. Ah, un dettaglio. Ho scoperto in questo locale una cosa: il tradizionale tè verde qui viene servito sempre freddo, con una bella dose di ghiaccio. Altro che cerimonia del tè!

Il menù con istruzioni

Il menù con istruzioni

La speciailtà dell'isola: orecchie di maiale

La speciailtà dell’isola: orecchie di maiale

Insalata locale

Insalata locale

Da Ishigaki a Kabira Bay

 

E per fortuna siamo rimasti. La città di Ishigaki va visitata in una mezza giornata, con calma. Dietro l’apparenza un po’ caotica, in realtà si scoprono botteghe di artigianato molto originali. E poi ci sono i negozi di camicie hawaiane: ovviamente le abbiamo comprate pure noi. Su una delle vie principali si trovano una serie di baretti stile francese ed è simpatico mettere i piedi su fiori disegnati sulla strada mentre si sbircia dentro i cortili delle case più tradizionali popolati dagli shiisa. E poi c’è la passeggiata fino al porto: si trovano alcuni locali carini. In uno si possono provare ottimi hamburger (!) e poco più avanti c’è una fantastica pasticceria: sono tornata più volte per una specie di bombolone ripieno di crema fresca e mango. Non vale molto fermarsi sulle spiagge cittadine; meglio, per i tuffi, esplorare l’isola e arrivare fino a Kabira Bay. Non finirò mai di ripetere che conviene dotarsi di patente internazionale, indispensabile per noleggiare un’auto: noi ci siamo dovuti spostare in pullman e taxi, limitandoci un po’.

Anche la baia, comunque, si è rivelata a prima vista al di sotto delle aspettative. La nostra guesthouse era deserta, e con armi e bagagli abbiamo ripiegato sull’unico bar aperto a pranzo nel piccolo centro. Le alternative erano pasta o pizza, figuriamoci. La pizza (con il goya) comunque non era male. Ma alla fine, anche qui era solo questione di tempo. La casa, con le sue scricchiolanti scale di legno, era antica e affascinante e la vista sulla baia meravigliosa. La marea cambia continuamente colore e forme a questa spiaggia dalla sabbia candida e dall’acqua azzurro chiaro, da tropici. Il vento ogni tanto piegava una palma davanti alla finestra facendoci sentire piccoli e fuori dal mondo.  La nostra padrona di casa canticchiava cucinando e ridendo a crepapelle con la nipotina venuta dall’Hokkaido e, ecco la lontananza dallo stereotipo più tipico, era un po’ sbadata: una mattina l’abbiamo dovuta svegliare noi, per fare colazione presto prima di un’immersione. Il mare quello sì che è bellissimo e si nuota circondati da una vegetazione selvaggia. Siamo partiti con l’agenzia Umicoza: non c’era molto sole e l’acqua richiedeva una muta bella spessa, ma decisamente il diving è un’attività importante sull’isola. Le mante, ahimè, non le abbiamo viste, ma conoscere dei giapponesi fricchettoni in barca valeva il viaggio.

I guardiani delle case a Ishigaki

I guardiani delle case a Ishigaki

Dalla barca del diving

Dalla barca del diving

La sala da pranzo della guesthouse di Kabira Bay

La sala da pranzo della guesthouse di Kabira Bay

Un tempio a Kabyra bay

Un tempio a Kabyra bay

La località è come il resto dell’isola: non si può dire che sia un posto da sogno (l’abbiamo anche visitata fuori stagione eh), ma è stato bello camminare con la calma dei luoghi un po’ isolati, dai ritmi lenti, con le pennellate delle bouganville dietro i muretti. Il vento non ha lasciato tracce di storia, ma girellando in un tempio con vista sul mare (mentre qualcuno era rimasto a casa perché aveva esagerato con la grappa locale la sera prima) mi sono trovata a pensare ai motivi che ci spingono a viaggiare, soprattutto così lontano. A quella voglia di esplorare i luoghi di confine, i puntini sulle mappe. E’ vero che non tolgono il fiato come certi monumenti o posti da cartolina, ma poi diventano nostre cartoline personali inimitabili.

Oltrepassando il tempio shintoista di Ishigaki ho pensato che il viaggio vero forse, soprattutto rispetto al normale concetto di vacanza, è approdare in Paesi meno belli del nostro, dove il bello, qualunque cosa esso voglia dire, non è immediato, ma va cercato, svelato, trovato dietro i dettagli della vita quotidiana. Ed è spesso in quei dettagli che scatta l’amore per un posto. E anche lì è stato così. A completare l’opera ci ha pensato la birra bevuta nel piccolo locale di legno azzurro di una ragazza che mi ha sorriso sulla porta invitandomi ad entrare. Mi sono fermata per un aperitivo inaspettato e ho scoperto che aveva aperto quel bar solo il giorno prima. E’ stata un nuovo inizio anche per me.

 

Uno dei negozi di Ishigaki

Uno dei negozi di Ishigaki

Gli autobus di Ishigaki

Gli autobus di Ishigaki

 

Sapori francesi a Bologna, le Bar à vin

L'interno del Bar à vin

L’interno del Bar à vin

Devo fare una premessa: il locale protagonista di questo post purtroppo ha chiuso proprio da pochi giorni. Ma ve lo lascio leggere lo stesso: un personaggio come Angelo va comunque conosciuto. E chissà mai che non si lanci di nuovo in qualche avventura in futuro.

Passando per la centralissima via Nazario Sauro, se buttate l’occhio sulla sinistra, lì proprio vicino al ristorante indiano, vi capiterà di vedere una lavagnetta davanti alla porta del nuovo locale. Si tratta del Bar à vin, aperto poco prima di Natale. Sono subito andata a fare un sopralluogo visto che quel posto lo tenevo d’occhio da un po’. Perché? Il locale ha preso il posto del ristorante francese Au Coq qui rit. Molti bolognesi lo conoscevano bene, in via Fondazza, un po’ nascosto sotto i portici, con la sua luce bassa, le note di Edith Piaf, le pareti violette. Un locale caldo e con un menù francese con varie portate classiche (fra cui il petto d’anatra e le mitiche lumache), che io amavo molto. Bene, lo spirito mi sembra rinato in questa nuova versione: il Bar à vin non è più un ristorante, ma si possono comunque mangiare “ghiottonerie” (per citare la presentazione del titolare) e soprattutto bere vini di tante regioni della Francia.

Foto tratta dalla pagina Facebook del locale

Foto tratta dalla pagina Facebook del locale

Formaggi e foie gras

Il locale, sempre gestito dal simpatico Angelo, è ancora più piccolo del precedente, ma ho notato con piacere che sono rimaste le stampe in bianco e nero e le lampade liberty. Non c’è più il grande specchio all’ingresso, ma pare che il titolare l’abbia poi dato a un’affezionata cliente di via Fondazza. Veniamo al menù: noi abbiamo provato un assortimento di formaggi, un paté di foie gras e dell’ottima tapenade (salsa con acciughe e olive)  fatta in casa. Il tutto servito con l’immancabile baguette calda e un ottimo Bordeaux. Con molto piacere Angelo ci ha anche promesso per il futuro la meravigliosa crema con mandorle e fichi caramellati. Era uno dei miei dolci preferiti nel vecchio ristorante: una volta restammo come ultimi clienti e mi preparò ‘un fagotto’ da portare a casa. Mi è sempre rimasta la voglia di assaggiarla di nuovo.

Patè e assortimento di formaggi

Patè e assortimento di formaggi

Veniamo alle info: Le Bar à vin ora apre tutti i giorni da circa le cinque del pomeriggio e resta aperto almeno fino all’una. Con mio grande piacere, posso inserire anche lui nella mappa dei locali che mi sfamano anche dopo le 23. Si trova in via Nazario Sauro dietro al Mercato delle erbe. E come si dice, bon appetit.

Un anno di viaggi: il mio 2014

 Viaggiare è un’arte. Bisogna praticarla con comodo, con passione, con amore
Tiziano Terzani, Un indovino mi disse.

Amorgos, Cicladi

Amorgos, Cicladi

Acqua color terra, colline piene di viti, mare di un blu profondo, quasi violaceo. Sono le immagini più intense di questo 2014 che sta scivolando via e che mi ha regalato bellissimi viaggi e incontri straordinari. Questo post, un po’ schematico forse, serve soprattutto a me: mi ricorda che non c’è niente di cui lagnarsi visto che di occhiate in giro ne ho date parecchie. E con un ottimo compagno di viaggio. Alcuni paesi mi sono piaciuti di più, altri li ho capiti forse meno, ma comunque mi resta una importante sensazione di fondo: che in viaggio mi sento più viva che mai, senza finire di meravigliarmi e sfidando le mie paure. Su Facebook in questi giorni spopola il collage di foto del proprio 2014. Beh, ecco il mio personale calendario di viaggio.

Gennaio

Mi piace visitare i luoghi fuori stagione, vederli con un’atmosfera diversa, senza gente, anche se non manca mai la delusione davanti a qualche posto chiuso “perché non è periodo”. E così nell’ultimo weekend di gennaio, un mese che ho sempre detestato, mi sono goduta un po’ di Italia, e in particolare una delle mie regioni preferite: la Toscana. Un’amica, le terme guduriose di Bagno Vignoni, la pietra luminosa di Sant’Antimo, dell’ottimo Brunello di Montalcino e la vivace Arezzo: ecco gli ingredienti di una due giorni low cost fra le colline della Val d’Orcia per ricordarsi che i posti belli sono spesso più vicini di quanto pensiamo.

Val d'Orcia

Val d’Orcia

Febbraio

E’ un mese speciale per me, legato a un momento di profondo cambiamento. E’ associato soprattutto all’immagine della neve, ma nel 2014 la meta è stata la città, forse, per eccellenza: Parigi. La fortuna di tornare nei posti più volte è che ci si possono godere i dettagli, gli angoli meno conosciuti, senza l’ansia di perdersi tappe ‘da vedere per forza’. E così abbiamo gironzolato per la capitale nella quotidianità di un lunedì, fra i canali di Saint Martin, spiando fra i tetti dall’alto di Notre-Dame e semplicemente passeggiando nel quartierino dell’Odeon. Sognando fra le vetrine e mangiando macaron. Una città che emoziona sempre.
E, a proposito di città senza tempo, a febbraio sono andata per la prima volta al Carnevale di Venezia. Mi sono comprata la mia mascherina per andare fino a Piazza San Marco, inondata di nobili imparruccati e sole. Ma il momento più bello è venuto dopo, quando tutto questo lo abbiamo visto a distanza dalla Giudecca, silenziosa nel suo cono d’ombra. E fra i lenzuoli stesi nei cortili ho scoperto che la città aveva anche un’altra anima, più semplice e popolare. Anche i luoghi più famosi si possono vedere da un’altra prospettiva.

I gargoilles di Notre Dame a Parigi

I gargoilles di Notre Dame a Parigi

Venezia vista dalla Giudecca

Venezia vista dalla Giudecca

Marzo-Aprile

E dopo questo assaggio d’Europa, ecco il ritorno più atteso: quello in Giappone. Era la seconda volta per me in questo enigmatico Paese, ma questa volta c’era qualcosa di molto speciale: avevamo scelto il periodo della fioritura dei ciliegi. Non saprei dire se è stata più indimenticabile la magia sotto la neve del primo viaggio (gennaio 2013) o la cascata di petali rosa durante l’Hanami, ma una cosa è certa: questo seconda volta ha rafforzato il mio legame con un paese che ti sorprende con fitte di nostalgia all’improvviso. Un po’ a tradimento, mentre stai lavorando o anche solo mentre ti togli le scarpe entrando in casa. I piccoli gesti rendono il Giappone così speciale. A tutto il resto, in queste due settimane fra marzo e aprile, ci hanno pensato le mete particolari che avevamo scelto. I piaceri della cucina e il tormento di Hiroshima, il Tori Rosso di MiyaJima. E poi quel volo sul Pacifico, per arrivare fino a Taketomi, un puntino nell’oceano popolato dagli jiza, la stranezza di Ishigaki: un’isola non straordinaria, ma dal ritmo rilassato. La si capisce dopo un po’ di giorni forse. E poi la camminata fra le tombe avvolte dalla vegetazione sul Monte Koya: un luogo di pace, fra templi rassicuranti e lanterne che ondeggiano. Del Giappone non si è visto mai abbastanza.

Hanami a Kyoto

Hanami a Kyoto

 

Difficilmente riesco a pensare a qualcosa di più buono delle ostriche fritte

Difficilmente riesco a pensare a qualcosa di più buono delle ostriche fritte

Tombe nella foresta sul Monte Koya

Tombe nella foresta sul Monte Koya

Kabira Bay a Ishigaki

Kabira Bay a Ishigaki

Maggio

Di nuovo in Italia, fra Appennino e mare. Sto parlando dei borghi dal fascino decadente della montagna bolognese, culla natale di Enzo Biagi, e della Liguria. Toni cupi di un primo maggio carico di pioggia nel primo caso, esplosione di colori come sulla tavolozza di un pittore nel secondo. Ma è stato proprio l’incontro con i blogger, ma per prima cosa con ragazzi simpatici e stimolanti, a Levanto il vero ricordo da cullare di questo mese un po’ capriccioso, ma che amo molto. Il raduno mi ha permesso di rivedere le Cinque Terre e di scoprire angoli che non conoscevo come Bonassola e la pista ciclabile ricavata nella ex ferrovia. Il tutto è stato reso speciale dalla bontà dei cibi che abbiamo condiviso: ognuno di noi aveva portato un tocco della propria regione ed è stato bello lo stordimento di avere davanti persone conosciute e mai viste prima allo stesso tempo. La meraviglia è continuata sull’isola di Palmaria, dove le voci dei turisti di Portovenere arrivano attutite, come in un sogno. A colazione, con la vista sulle variopinte case dei pescatori, ho pensato che qualcuno mi avesse fatto fuori durante la notte e di essere arrivata in paradiso. Era tutto vero e non vedo l’ora di tornarci.

porto

Il sentiero da Levanto a Monte Rosso

Il sentiero da Levanto a Monte Rosso

Piadina romagnola e lardo di colonnata: una 'madeleine' un po' particolare

Piadina romagnola e lardo di colonnata: una ‘madeleine’ un po’ particolare

Giugno

Ed eccomi di nuovo in Francia, questa volta più a sud, nell’elegante Lione. Sono stata a trovare un’amica (e ci sarei tornata altre due volte, sia in auto che in treno) e personalmente già il fatto di essere in Francia mi fa stare bene. Ed ecco quindi una città dalla gastronomia gustosa e impegnativa, che ricorderà sempre per i comignoli fiabeschi del centro storico e i tunnel che collegano i palazzi. Ma a Lione c’è di più: musei interessanti, come quello di storia gallo-romana, un parco sconfinato e due fiumi che raddoppiano il fascino fra ponti e locali. Non fa perdere la testa, ma è davvero bella.

Lione vista dall'alto

Lione vista dall’alto

Luglio

E’ il colore più intenso della mia estate e, di certo, di questo anno. E’ quello del mare nella caldera di Santorini. E’ le Grand Bleu di Amorgos: quando ne parlo sono sempre di più le persone che non l’hanno mai sentita nominare e forse anche per questo ho eletto questa isola brulla e solo apparentemente inospitale la mia preferita (almeno per ora) in Grecia. L’innamoramento con questa perla delle Cicladi è legato anche a motivi personali, ma è certo che l’isola è perfetta per chi cerca spiagge poco frequentate, paesini vivaci e fermi nel tempo, cibo semplice e gustoso, monasteri aggrappati alla roccia. Perfetta per gli amanti del trekking e delle immersioni e, in generale, dell’ecoturismo. Il tutto a prezzi abbordabilissimi. Come mi hanno scritto su twitter, Amorgos è una “cura dell’anima”. E il mio scopo ormai è dichiarato: tornare in Grecia almeno ogni due anni.

Una porta sul mare (foto di Matteo Martino)

Una porta sul mare (foto di Matteo Martino)

Agosto

Per me è soprattutto un mese di lavoro, in cui il ricordo delle lunghe vacanze estive si allontana sempre più. Ma qualche giorno, assieme alla mia famiglia questa volta, è saltato fuori lo stesso. Un viaggiare diverso, ma legato agli affetti e al relax. Sono di nuovo in Italia, ma per un pelo, visto che mi è sembrato di camminare sui confini come un funambolo: eravamo a Brunico, in Alto Agide, dove l’Italia che conosciamo sembra un altro paese. Ma questa storia così travagliata ci ha regalato una regione affascinante da visitare, fra passeggiate nella stupenda Vallata di Fanes, pedalate (come quella di quaranta chilometri da Dobbiaco a Lienz) e, diciamolo, soavi mangiate. Luoghi che rimettono in sesto.

Sentieri affollati

Sentieri affollati

Nella Valle di Fanes, Alto Adige

Nella Valle di Fanes, Alto Adige

Settembre

Altro periodo che trovo bellissimo per viaggiare. E così, visto che quest’estate sono diventata sommelier, era ora di iniziare con un giretto a tema, giusto per ripassare un po’ no? E quindi eccomi di nuovo in Francia (per la terza volta! Mica ci avevo pensato!), salendo da Lione fino alla Borgogna: terra di vini straordinari, ma anche di borghi antichi e perfettamente conservati, castelli e abbazie. Insomma, chi non ama troppo la dimensione bucolica è meglio che scelga altro, ma per fare un bagno di collina ed enogastronomia, beh, è proprio il posto giusto. Si può evitare la città di Digione, ma il castello di Cormatin e l’abbazia di Cluny sono tappe che consiglio a chi vuole fare una ripassatina di storia francese. Per buongustai che amano la campagna.

 

Il Clos de Vougeot

Il Clos de Vougeot

Sulla Route de Grand Cru

Sulla Route de Grand Cru

Ottobre-Novembre

E dopo la Francia, un altro ritorno: quello in Asia. Ma i Paesi dell’Indocina sono davvero un altro mondo rispetto al Giappone e spalancano la porta dei propri ricordi, pensieri, della storia che uno si porta con sé. Anche il Laos è stato così, un luogo di scoperta, in cui mettere alla prova i propri limiti. Selvaggio direi che sia una giusta definizione di questo piccolo stato da cui siamo arrivati dopo una tappa a Bangkok. Ma anche ricco di grazia nel volteggiare delle farfalle (ancora qui ci sono) e nelle canti dei monaci buddisti al tramonto. Un luogo anche duro, così come le buche sulle strade, ma anche quieto, come lo scorrere dei suoi fiumi. L’Asia sognata, due settimane sono state solo un assaggio.

Sul fiume Nam Ou

Sul fiume Nam Ou

 

La processione dei monaci a Luang Prabang

La processione dei monaci a Luang Prabang

Ci vediamo nel 2015!

Ci vediamo nel 2015!

Cucina francese in Laos

La cucina francese in Laos

L'adresse de Tinay

L’adresse de Tinay (foto di Patrick Colgan, 2014)

Che il Laos sia un paese imprevedibile e completamente fuori da ogni schema l’ho già detto. Ma fra le cose che mi hanno stupito di più (nel mio caso non è una novità, lo so) c’è la cucina. Devo dirlo subito: i piatti laotiani mi sono parsi buoni, ma non indimenticabili (mi perdonino gli amanti dello sticky rice, ma davvero non è il mio forte). Però c’è un aspetto incredibile: la fusione con la cucina francese, che racconta in una forchettata (sì, si usano più le posate delle bacchette) anni di esperienza coloniale. Sembra scontato, ma non lo è. E il risultato, nel lungo periodo, è fantastico: un po’ perché oggi l’incontro fra le due culture ha creato comunque piatti nuovi e originali. Un po’ perché mangiare francese in riva al Mekong costa meno della metà che in Italia. Accetto già la critica: questo non può essere la vera realtà culinaria locale. Rimando al mittente. Il Laos è tutto questo: street food al mercato notturno, come questo spaccato di Francia. La storia ce la teniamo così ormai. Ed ecco quindi qualche indirizzo da provare abbandonando i pregiudizi.

Luang Prabang

Basta farsi un giro sulla via principale dell’antica capitale per rendersene conto. E sono già aperte la mattina all’alba durante la suggestione processione dei monaci buddisti. Nel cuore della città simbolo del Laos, fioccano le boulangerie. Pan au chocolat e baguette di tutti i tipi fanno bella mostra di sé dietro le vetrine e anche a colazione, infatti, una bella fetta di pane (anche calda) non manca mai. Così come il burro e la marmellata. Va detto che i laotiani mangiano anche zuppe di noodles, ma comunque si può scegliere. Per noi italiani è uno spasso: non manca mai il caffè  (il Laos ci sono famose piantagioni sull’altopiano di Bolovan) e, soprattutto, va per la maggiore l’omelette. Persino nella giungla ce l’hanno preparata, con tanto di erbette. Favolosa. Ma se già la colazione è strepitosa ovunque, anche perché abbinata alla succosa frutta tropicale, ecco un posto che ho adorato.

Colazione sul Mekong

Colazione sul Mekong

Tangor

Il menù recita: “Dove l’Occidente e l’Oriente si incontrano, si crea il perfetto equilibrio tra la cucina, la musica e l’atmosfera”. Il Tangor attira l’attenzione per il suo interno in teak e i tavolini di legno sulla veranda, illuminata dalle lanterne. Poi si dà un’occhiata alla lavagna e ai piatti del giorno, alla lista dei cocktail e capita di passare lì un’intera serata. Anche più di una. Questo locale (noto con piacere che è il primo classificato su Trip Advisor) è un luogo magico, da cui guardare il passeggio e godersi l’atmosfera di Luang Prabang, fatta di luci colorate, frastuono dei tuk tuk, vociare degli ultimi espositori del mercato notturno. La prima sera abbiamo provati ottimi cocktail a base di lime, mirtilli, frutto della passione. Poi siamo tornati per cena e ci siamo divertiti a mescolare ingredienti e paesi. Ottimi spring roll prima, per poi passare un camambert caldo con granella di nocciola e tradizionale canard. Meraviglioso anche il dessert, una tarte au citron resa più frizzante dal lime. Una favola, davvero (e anche un po’ il titolare francese, ammettiamolo). Posto da provare assolutamente.

Torta al limone

Torta al limone

Gli spring rolls

Gli spring rolls

Vientiane

E’ la capitale del Paese e qui più che altrove fioccano i retaggi coloniali. Anche nella cucina, da provare all’interno di incredibili boulangerie e bistrot che propongono baguette. Sì, ad esempio da Banneton, c’è un’ampia scelta di panini e quiche, con un singolare mix di ingredienti tradizionali e laotiani. Posto storico, ottimo per un pranzo seduti.

Le paste del Banneton

Le paste del Banneton

L’Adresse de Tinay

Ci abbiamo messo un po’ a trovarlo, defilato di fianco a un ristorantino vietnamita (per altro piuttosto buono), ma ne è valsa la pena. Perché lo chef Tinay, che ha lasciato il Laos per Parigi, è poi tornato a Vientiane per aprire un suo locale. E il risultato non poteva essere che un incontro perfetto di sapori e stili. L’Adresse de Tinay ha un design moderno è fin troppo strutturato per i miei gusti (ci sono quasi più camerieri intenti a versarti l’acqua o il vino che clienti), ma il menù e le premure dei proprietari (Tinay compreso che esce a salutare) sono speciali. Specialità della casa è un vero e proprio cappuccino, ma di verdure. Il mio era una crema di zucca, con tanto di schiuma! E poi degli spring roll in versione completamente rivisitata: ripieni di formaggi di capra bio (decisamente strano per essere in Laos). Ottimo il vino, ottimo tutto: se volete viziarvi un po’ è il posto giusto.

L'adresse de Tinay

L’adresse de Tinay (foto di Patrick Colgan, 2014)

Cappuccino? Non proprio (Foto dalla pagina Facebook del ristorante)

Cappuccino? Non proprio (Foto dalla pagina Facebook del ristorante)

Le Vendome

Ed ecco un posto completamente diverso. Siamo sempre in un angolo di Francia, ma il ristorante è molto più tradizionale. Una parentesi dal caos cittadino e dal caldo grazie ai ventilatori sul soffitto della veranda. Il menù è pieno di classici della cucina francese, compresi i soufflé: ne abbiamo provato uno, davvero altissimo e sofficissimo. Altri piatti? Ottimo il canard, non all’arancia, ma al mango. Oppure il pesce del Mekong stufato. Tutto molto saporito. Il prezzo? Non più di 35 euro in due: un’enormità per il Laos, la metà di quanto si spende in Italia.

Il filetto di canard al mango

Il filetto di canard al mango

Il soufflé come a Parigi

Il soufflé come a Parigi

Forno a legna laotiano

Una pizza speciale in Laos

 La pizza al Bamboo Lounge, foto tratta dal sito bambooloungelaos.com

La pizza Bamboo Lounge, foto tratta dal sito bambooloungelaos.com

Luang Namtha

Questo post parla di due cose: di quanto a volte basti mangiarsi una pizza per sentirsi subito meglio e del variegato mondo delle minoranze etniche del Laos. Accostamento folle? Neanche troppo, se siamo al Bamboo Lounge. Ci troviamo a Luang Namtha, nel nord del Paese, a una manciata di chilometri dal confine cinese. Era il nostro punto d’arrivo dopo i due giorni di navigazione sul fiume Nam Ou e resta l’ultima cittadina relativamente facile da raggiungere prima della remota provincia di Phongsali. E’ un posto strano: da un lato è circondato da una natura rigogliosa, e non a caso è uno dei punti di partenza privilegiati per il trekking nella giungla. In particolare da qui ci si inoltra nella riserva di Nam Ha, una delle più incontaminate di questa fetta d’Asia. La sera le montagne si tingono di blu mentre le risaie scintillano nell’ultima luce del tramonto. La parte più antica, vicina all’aeroporto (ebbene sì, c’è una pista qui), non siamo riusciti a visitarla, ma da quanto spiega la guida è una sorta di agglomerato di alcuni villaggi. La città più nuova, pensata per accogliere i turisti, conta due strade e diverse guest house, ma resta anonima e piuttosto grigia. Con poche eccezioni: il vivace mercato notturno, dove si possono mangiare polli allo spiedo quanto larve fritte; una pasticceria imbucatissima (ma segnalata dalla Lonely Planet) in cui provare deliziosi muffin alla banana e un paio di posticini piuttosto confortevoli per i viaggiatori in transito sia per mangiare che spulciare un po’ Internet. Uno di questi è ben riconoscibile: colorato, ricco di luci e lanterne e fra le piante della veranda c’è pure un forno a legna. E noi non potevamo non provarlo. Tanto che, in tutto, ci siamo stati tre volte.

Perché? Fino a qualche anno fa sarei inorridita davanti al fatto di tornare nello stesso posto durante un viaggio. Adesso, invece, coltivare una specie di abitudine anche a migliaia di chilometri da casa mi fa sentire bene, rende quel posto più familiare. E, dopo due giorni di trekking nella giungla, con nelle gambe i chilometri macinati (e i becchi delle sanguisughe) e davanti la prospettiva del pullman notturno per Luang Prabang, la pizza nel forno a legna del Bamboo Lounge era al tempo stesso una sfida che la voglia di un sapore amico che regalasse energie.

Il tramonto a Luang Namtha

Il tramonto a Luang Namtha

Larve e insetti al mercato notturno

Larve e insetti al mercato notturno

Il Bamboo Lounge

Ma non è finita qui. Dicevo che il tema qui sono anche le minoranze etniche. Certo, perché lo scopo del locale, aperto nel 2011 da Andrej e Karen, due viaggiatori che si erano innamorati della zona un paio di anni prima, è proprio questo: far lavorare giovani dalle diverse tribù circostanti per aiutarli nell’apprendimento dell’inglese. La questione in Laos non è di poco conto perché una buona fetta della popolazione vive in villaggi (baan). Ma quello che più colpisce è la varietà etnica: si contano almeno 49 minoranze in tutto il Paese, che sono state radunate in tre grandi gruppi. Il principale è quello Lao (che tendenzialmente vive in città), ma il mosaico di gente e facce è uno dei più ricchi del Sudest asiatico. Ricchezza non certo economica, però, e anche per questo ho amato subito il Bamboo Lounge. Il locale fornisce, assieme al menù spiccatamente statunitense (ottime anche le colazioni), foto e brevi descrizioni dei camerieri che sono lì per imparare la lingua attraverso le ordinazioni. Per questo è importante parlare lentamente e pazientemente. Inoltre, i prodotti utilizzati sono rigorosamente a chilometro zero (ma in Laos mi pare un po’ la regola). A volte, visitando i villaggi, mi è restata la sensazione amarognola di essere passata per un attimo, un po’ come al cinema, a vedere certe realtà per mezz’ora e poi sparire senza lasciare davvero traccia di me. Un blitz nella vita senza tempo di queste comunità, magari un acquisto e qualche foto e poi ognuno a casa sua. Sono felice, ovviamente, di avere fatto quelle visite. Ma questo progetto mi piace perché i ragazzi vengono concretamente aiutati nella conoscenza della lingua inglese che, al momento, mi pare una delle principali chiavi di accesso per un buon lavoro in Laos.

Bambini in un villaggio kamu

Bambini in un villaggio kamu

Un villaggio hmong

Un villaggio hmong

Belle idee e realtà che si occupano di turismo ecologico per fortuna in Laos ce ne sono parecchie e a Luang Namtha ne concentra un bel po’. Visto che le cose non avvengono mai per caso, Karen e Andrej hanno aperto il locale assieme a Thong, il fondatore del Forest Retreat Laos, che organizza trekking nella giungla. Noi abbiamo scelto la Green Discovery, che offre tantissimi percorsi nella riserva, anche di più giorni, e siamo comunque rimasti soddisfatti. Abbiamo scelto di pernottare una notte sola nel villaggio, ma in molti optano anche per una tratto di navigazione in kayak. Per quanto abbia qualcosa da ridire sulla loro valutazione della difficoltà (il nostro easy to moderate mi pareva francamente molto difficult!), quello che è straordinariamente importante è lo spirito di questi itinerari: guide locali, pernottamento in villaggi e supporto economico alle comunità. E l’ho potuto vedere con i miei occhi. Francamente, per quanto possa anche essere faticoso, un viaggio in Laos è incompleto senza il contatto con questi villaggi. In questo paese non ci sono degli Angkor Wat, forse, ma un ricco arcobaleno umano, quello sì.

Pensieri finiti. Dopo l’ordinazione era tempo di dare un’occhiata. Ho studiato i movimenti del pizzaiolo nella lavorazione della pasta ( sì, mi sa che si è sentito un po’ osservato), e poi nella stesura del sugo di pomodoro. Qualche fetta delle ottime salsicce locali (mi sono persa la parte formaggio, non mi è chiarissimo cosa abbia usato), cipolla e il gioco era fatto: quando ha infornato il tutto mi sono sentita a casa. E che dire: era veramente ottima. Sottile, morbida: pizza laotiana ampiamente promossa. E le gambe erano già pronte alla prossima avventura.

Pizzaiolo laotiano

Pizzaiolo laotiano

Il forno a legna del Bamboo Lodge

Il forno a legna del Bamboo Lodge

C'è proprio la legna

C’è proprio la legna

Laos, il viaggio dei viaggiatori

Al ritorno dalla giungla!

Al ritorno dalla giungla!

Uno degli aspetti che mi sono più rimasti impressi del mio viaggio fra Thailandia e Laos è stato l’incontro con loro: i viaggiatori, zaino in spalla o meno, conosciuti di continuo nell’arco di questi incredibili quindici giorni. Certo, non è stata la prima volta che alcune persone che hanno condiviso con me (per ragioni che restano assolutamente misteriose) anche solo qualche ora in un Paese siano rimaste presenze vive nella mia memoria una volta tornata a casa. In alcuni casi è rimasta una presenza fisica, come tangibili sono le foto che mi mandò, a Natale, una ragazza tedesca con cui avevo condiviso per caso alcuni giorni di trekking in Islanda. Quindi, è vero che in viaggio cerchiamo il contatto soprattutto della gente del posto (se no in fondo, che ci siamo andati a fare fino a laggiù). Ma è anche vero che a volte il viaggio è racchiuso in altri viaggi, come un sistema di matrioske, di persone che sfioriamo solo per un attimo. I loro racconti ci ispirano nuove avventure, ci portano con loro in altri mondi, spesso nei loro mondi. Che forse saranno la nostra prossima meta. Ecco, perché questo pensiero degli altri viaggiatori mi ronza nella testa così tanto dopo il Laos? Perché non ne ho mai conosciuti tanti tutti assieme e con storie così fuori di testa. Perché mi hanno fatto pensare che le scelte nella vita sono continuamente possibili. Mi hanno dato idee e, a volte, un po’ di conforto. O forse è il potere di questo angolo di Asia che calamita persone con sete di conoscere. O, come diceva Terzani, che sperano di trovare una diversa spiritualità di cui l’Occidente sembra essersi svuotato. Di certo, la sensazione è che tutti in Asia vengano a cercare qualcosa. Ma penso che tutti ripartano con più domande di prima.

Viaggiatori rilassati sul Mekong a Luang PrabangViaggiatori rilassati sul Mekong a Luang Prabang

Viaggiatori rilassati sul Mekong a Luang Prabang

Aspettando il temporale a Luang Prabang

Ed eccola la mia galleria di personaggi, di compagni di avventura che hanno acceso una scintilla con i loro racconti. I primi non potevamo non incontrarli a Luang Prabang, la Mecca dei backpapers, il regno di quelli che possono fermarsi quanto vogliono perché tanto hanno tempo. Mentre eravamo seduti in uno degli adorabili localini del centro, riscaldato dalle luci delle lanterne, ci ha letteralmente adescato Geremie, scalzo, coi pantaloni thai d’ordinanza e un buon numero di treccine. Odio quando i francesi ti attaccano bottone in inglese, mi piacerebbe tanto dire ‘ehi, ma le nostre lingue sono tanto più simili!’ Ma va così e, dopo la rituale domanda introduttiva: di dove siete? si intrecciano itinerari, esperienze in barca, viaggi in pullman. Luang Prabang è più cara della Thailandia del Nord, sentenzia. Non sa bene quanto si fermerà, poi andrà in Vietnam. Parte un’altra BeerLao ed è lì che inizia a starmi davvero simpatico, quando capisco che è poi un finto fricchettone: andrà anche in India, dopo l’Indocina, ma solo dopo avere presenziato a casa, a Natale. Inizia a piovere e si aggiunge un certo Denis. Ah quanto gli piace l’Italia, ma lui vive a Bordeaux, a un passo dal rumore dell’oceano, dove per sei mesi lavora nella sua gioielleria. E il resto del tempo? Va e viene dall’India, dove cerca pietre e materiali. Lo invitiamo a fare couch surfing a Bologna: c’è da credere che prima o poi lo vedremo comparire.

Questi non hanno paura di nulla

Il ponte sospeso di Muang Khua

Il ponte sospeso di Muang Khua

E poi eccola la famiglia più simpatica del mondo. Genitori sulla quarantina (ma forse pure più giovani) che avanzano con due ragazzini, con lunghi capelli biondi, ognuno con il suo zaino sulle spalle. Sono Caleb e Isaiah, che si uniranno a noi per tre giorni nella navigazione del Nam Ou. Il tempo di rompere il ghiaccio e capisco perché mi attirano tanto: sono partiti da aprile e stanno facendo una sorta di giro del mondo nell’arco di un anno. Dall’Islanda al Sud America. Sbalorditivo, altro che scuola. It’s a different education, la mette così il padre. E, cavoli, eccome se lo è. I ragazzi hanno 9 e 11 anni, questi dodici mesi passati in famiglia in giro per il mondo resterà un segno indelebile. Tengono un blog su cui leggiamo che la progettazione è durata quattro anni, poi è arrivata la scelta condivisa di partire. E’ stato bello vedere come i bambini si divertissero a conoscere i loro coetanei nei villaggi che visitavamo lungo il fiume. Infanzia distante anni luce. Sono stati una bella compagnia nelle cene serali, mentre si divertivano con le bacchette e i noodles. Si sono concessi solo il grande classico dei bambini in barca (ma quanto manca?). Ci hanno regalato leggerezza con il loro entusiasmo. E’ stato bello vederli lanciarsi su un ponte sospeso come se fosse un gioco. Mentre io morivo letteralmente di paura su quelle maledette assi di legno sospese nel vuoto, per loro il viaggio era prima di tutto un divertimento. Sotto lo sguardo protettivo di mamma e papà. Ah dimenticavo: se non ci fossero stati loro, quel ponte malandato non l’avrei mai attraversato.

In gruppo la giungla fa meno paura

Alberelli nella giungla

Alberelli nella giungla

Il trekking nell'area protetta di Nam Ha

Il trekking nell’area protetta di Nam Ha

Dal Canada vengono anche i due ragazzi, biondissimi, che si uniscono, all’ultimo momento, al nostro trekking nella giungla. Meno male, penso subito, non saremo soli quando incontreremo serpenti e tigri (che con loro grande disappunto non abbiamo mica poi visto). Anche in questo caso mi affascina la spontaneità, l’entusiasmo. Non si curano come me delle zanzare ogni secondo. La loro presenza, mentre chiacchieriamo con la mitica guida Kit rende la fatica della salita un po’ più leggera. E dire che lo sforzo, con questo caldo, è tanto. Ma il bello viene la sera, quando la notte cala prestissimo sul villaggio custodito dalla giungla. Prima di andare a dormire dopo il solito pasto a base di carne piccante e riso glutinoso, davanti al fuoco e sotto le stelle affiorano frammenti di vita. Il freddo incredibile degli inverni di Vancouver, il divertimento nello scoprire che siamo fan di True Detective, che il personaggio preferito di Lost è Jack. Ma, mentre Kit racconta dell’incredibile nevicata sulla giungla di qualche anno fa, scopriamo che il loro lavoro è piantare alberi e lo fanno fino a ottobre. E così nei mesi invernali viaggiano, sono già stati due anni in Messico, nelle acque calde perfette per surfare. Quest’anno, il giro in Asia, dalla Thailandia al Vietnam. Quanto è lontano il loro mondo dal mio, con le ansie dei contratti e della stabilità, penso mentre il silenzio cala nella nostra capanna. Dove tutti assieme aspettiamo il mattino.

Cartoline dal Laos

E poi ancora, mi ricordo di tutto loro, in ordine sparso. Tipper, instancabile viaggiatrice e, se vogliamo, petulante signora australiana. Anche per lei, non più giovanissima, il viaggio era partito 5 mesi prima, dall’Iran. Tempra incredibile, del resto, come tutti gli australiani, che alle insidie della natura sono più che preparati. E poi i due nostri compagni nel surreale pullman notturno da Luang Namtha a Luang Prabang: un giovane giapponese originario delle zone ferite dallo Tsunami e una londinese di origine giamaicana. Altissima, nerissima, imponente: la vita nella City, ma il cuore nei Caraibi. Pare abbia scioccato i bambini dei villaggi. Con loro siamo stati caricati su un tuk tuk un’ora e mezza prima di prendere il bus che sarebbe partito… con un’ora e mezzo di ritardo. Con loro ci siamo accovacciati sui sedili strapieni di donne, pacchi, bambini e pure un monaco che sembrava tutto fuorché zen. E poi ancora un tizio (non mi ricordo il nome) che, appena arrivato in pensione, ha pensato bene di attraversarsi in auto l’Africa partendo dalla Svizzera. Storie incredibili, gente nel mondo. Alcune delle più simpatiche cartoline dal Laos.

Ps. C’è chi un viaggio di mesi, con un biglietto di sola andata, in questo momento l’ha appena iniziato. Ecco, questo post mi è venuto in mente anche pensando a Claudia di Travel Stories

Prime impressioni sul Laos

Luang Prabang

Luang Prabang fra sogno e realtà (foto di Persorsi, 2014)

Ero partita per il Laos rimuginando su cosa volesse dire Tiziano Terzani (nel libro ‘Un indovino mi disse’) quando scriveva che questo Paese era “uno stato mentale”. Tornata da quindici giorni davvero intensi di Asia profonda, credo di avere capito un po’ di più l’essenza di questa frase. Ma certe riflessioni sui luoghi e sulla gente richiedono il loro tempo prima di uscire. Vanno un po’ covate, cosa perfetta in queste serate bigie di Pianura Padana che così tanto stonano con i colori cangianti di Bangkok e con le vesti arancioni dei monaci di Luang Prabang. Ma qualcosa, intanto, del Laos la posso iniziare a dire.

Villaggio in Laos

Non si può andare in Laos senza visitare i numerosissimi (e diversissimi) villaggi tribali (foto di Persorsi, 2014)

Perché andare in Laos

Ce l’hanno chiesto tutti, appena messo piede là. E se a casa mi sento a disagio con amici e parenti “perché sono sempre via”, ecco, in Asia, un viaggio di sole due settimane fa strabuzzare gli occhi agli altri viaggiatori. Ma in molti erano anche stupiti del fatto che avessimo scelto questa sola meta, invece che spostarci qua e là zigzagando sui confini vietnamiti o cambogiani. Così vicini e comunicanti (oggi), ma tutte porte per Paesi in realtà dall’anima molto diversa. Com’è l’anima del Laos? E’ fatta di semplicità, di colori, di contrasti. Fra le palafitte di legno, fra i rifiuti e gli animali che razzolano in libertà a pochi centimetri dai bambini, danzano farfalle. Di tutti i colori e forme, sprigionano un incantesimo in luoghi in cui dove la modernità sembra essere passata solo sottoforma di cartacce. Il Laos è un piatto francese raffinato, che un ingrediente locale rende più esotico, che si mangia a pochi metri  da una poco raccomandabile bancarella di street food.

L’anima del Paese è nello scorrere lento dei suoi fiumi, tanto più rassicuranti dei pullman che fanno paura. Sai com’è, manca l’asfalto sulla strada. E’ il contrasto fra il passo senza peso dei monaci buddisti e il ruvido bastone dello sciamano, fuori dalla porta di una casa visitata dalla malaria. E’ la bellezza delle case coloniali inondate dal profumo del frangipane che stride con le anonime città informi dove tutto sembra essere un po’ lasciato al caso. E’ questo lo stato mentale? Mi piace rispondere con un detto coloniale: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano crescere, i laotiani ascoltano il riso che cresce”. Per i francesi non era proprio un complimento, ma per me assolutamente sì.

La vita sul fiume, in Laos

Scoprire la vita che brulica sul fiume è l’esperienza più emozionante del Laos (foto di Persorsi, 2014)

Farfalle in Laos

Farfalle in Laos

Cosa c’è in Laos

Ovvio, in sole due settimane, la mia è un’impressione generale. Ma credo che il percorso scelto sia stata una buona sintesi fra la bolla d’incanto di Luang Prabang e una natura sconvolgente. Arrivati da Bangkok, siamo partiti dalla stupenda città Unesco per poi proseguire verso nord sul fiume. Non si può visitare il Laos senza fare un po’ di navigazione. Moltissimi scelgono il giro classico sul Mekong: dal confine thailandese fino a Luang Prabang per un totale di due giorni sul fiume (con tappa notturna a Pakbeng). All’inizio volevamo fare così anche noi, ma post e commenti molto discordanti (barche piene di turisti, paesaggio monotono e una diga cinese che sul finale interrompe la navigazione, solo per citarne alcuni) ci hanno fatto cambiare idea. Ora, io credo che se si ha paura di annoiarsi per qualche giorno passato a guardare lo scorrere dell’acqua e la vita lungo il fiume, non credo che il Laos sia il paese ideale da visitare. E così, abbiamo puntato sul Nam Ou, l’altro grande fiume del Nord del Paese, ancora navigabile all’inizio della stagione secca (per i laotiani inizia già ad ottobre).

L’esperienza è stata entusiasmante: con i nostri compagni di avventura di Green Discovery siamo arrivati in barca fino alla fricchettonissima Muang Ngoi Neua, raggiungibile sono in barca, e poi a Muang Kua, cittadina a un passo dal confine cinese dove provare il brivido su un lungo ponte sospeso. E poi su fino a Luang Namtha, anonima cittadina circondata da montagne e riserve naturali: è il punto di partenza dei trekking fra giungla e villaggi rurali. Dopo due giorni passati in questa specie di bosco al quadrato che è la foresta pluviale, non potevamo farci mancare il bus notturno per tornare a Luang Prabang (praticamente otto ore passate dentro uno shaker) e poi un volo di 45 minuti per la capitale Vientiane. Ed ecco qui il ritorno al traffico e ai tuk tuk. Ma dove è bello ritrovare l’immenso Mekong, che avevamo salutato centinaia di chilometri più a Nord.

Luang Namtha

Le montagne al tramonto che, come le risaie, circondano Luang Namtha

Il frangipane è un simbolo del Laos

Il frangipane è un simbolo del Laos

Laos: due informazioni pratiche, due

Per vivere al meglio (e senza troppi giorni davanti) queste esperienze, la giungla e la navigazione, ci siamo appoggiati a un’agenzia del posto: la Green Discovery. E’ una delle tante che sono fiorite in questi anni in Laos dove, nonostante l’arretratezza del paese, il turismo sostenibile ed ecologico (e l’unico secondo me con un futuro) è davvero in espansione. Cito questa perché ci siamo trovati bene: è un consiglio utile anche per sostenere economicamente i villaggi.

Perché andare in Laos? C'è anche il trekking nella giungla, per esempio

Perché andare in Laos? C’è anche il trekking nella giungla, per esempio

I voli interni. Io, è noto, ho paura di volare e temevo davvero di trovarmi inscatolata in vecchi mezzi stile guerra fredda. Non so se sono stata fortunata, ma gli aerei erano tutti modernissimi ed efficienti. Mi sento di consigliarli rispetto al trasporto su strada. Qualche botta di conti: il Luang Prabang- Vientiane, acquistato tre giorni prima, è costato 86 dollari. Il volo da Vientiane a Bangkok, con la Bangkok Airlines, invece, sempre acquistato sul posto a pochissimi giorni di distanza, è costato 97 euro. Non è la formula più economica, ma permette davvero di risparmiare tempo.

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