C’è un posto speciale che mi viene subito in mente pensando al Giappone. E in queste ore ci penso parecchio visto che il mio primo viaggio, due anni fa, è iniziato proprio a metà gennaio. In realtà il luogo che racconto qui l’ho visitato all’inizio di aprile ed è uno dei più strani che io abbia mai visto. Soprattutto contraddice tutti quei personaggi che, senza avere mai messo piede in Giappone, seppelliscono i suoi abitanti sotto una pioggia di luoghi comuni: sono maniacali, troppo formali, un po’ falsi nella loro gentilezza. Girano vestiti come pazzi, mangiano solo pesce crudo a tutte le ore del giorno. Sono strani. Bene, tutte queste persone dovrebbero farsi un giro a Ishigaki, a sud della prefettura di Okinawa, l’arcipelago delle basi americane e, diciamolo pure, di Kill Bill. Penso che cambierebbero idea.
Dov’è Ishigaki e come ci si arriva
Nelle isole Yaeyama arriva la compagnia aerea low cost Peach. Gli aerei sono piccoli e un po’ troppo rosa per i miei gusti, ma sono molto nuovi e ci siamo trovati bene. Siamo partiti dall’aeroporto di Osaka e il volo (circa un centinaio di euro) è durato tre ore, di cui gran parte sull’oceano. Questo arcipelago è particolarmente isolato, amato dai sub e dagli appassionati di natura: l’isola di Iriomote è ricoperta quasi interamente da una foresta vergine. Dicono che ci siano gli spiriti, anche se mi preoccuperei più delle zanzare (da aprile a ottobre). Oltre a Ishigaki e Iriomote, c’è un’altra isola decisamente unica: Taketomi. Ne ho già parlato qui e consiglio di passarvi almeno una notte per sentirsi fuori dal mondo. Ci si arriva in pochi minuti con una barca che va davvero a razzo dal porto di Ishigaki.
Queste isole sono rimaste isolate a lungo. Tra il 1945 ed il 1972, come il resto della Prefettura di Okinawa, Ishigaki fu posta sotto il controllo dell’Amministrazione civile degli Stati Uniti per le Isole Ryukyu, dopo la sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale. Le isole sono poi state anche contese da Taiwan e oggi sono territorio giapponese. Arrivati al fiorito aeroporto, una navetta porta in centro in quarantacinque minuti.
Cosa vedere
I luoghi di frontiera mi affascinano particolarmente perché si fondono elementi e sembra di vedere più Paesi in uno. Anche Ishigaki è così: ci si trova su suolo giapponese, ma si respira uno spirito ‘da sud’ e, in generale, l’influenza cinese è notevole. Non posso definirla un’isola paradisiaca. Molte case sono grige e squadrate, proprio come sulle isole principali. Storia quasi zero. Ma c’è un perché. Vivere qui significa essere in balia dell’oceano e del vento. Tutti gli anni i tifoni si portano via pezzi di case, tetti, abitazioni intere. E’ dura sfoggiare il legno quando il rischio di tsunami è così alto. Ma ci ho messo un po’ per capire tutto questo.
Come descrive perfettamente Patrick in ‘Orizzonte Giappone‘, il nostro primo impatto non è stato dei migliori. Ishigaki ci è sembrata spoglia, quasi un po’ sporca e persino trafficata. Elementi questi che nelle mete più tradizionali del Paese sono impossibili da immaginare. Hotel-mostri troneggiano sulla spiaggia e per fare il giro dell’isola in autobus ci si mette ore. Sul tatami del nostro ryokan c’era una bella fila di formichine. Il sole? Le previsioni davano pioggia. Ecco, ci siamo chiesti, che diavolo ci siamo venuti a fare fino a qui?
Ma questa era solo la facciata.
Una cena cambia la prospettiva
Ishigaki l’ho iniziata a capire dopo cena. Per fortuna la Lonely Planet non ha sbagliato indirizzo e il Paikaji è stato proprio quello che ci voleva. Il menù è rigorosamente scritto in giapponese, per fortuna con qualche disegno a raccontare i piatti. E così abbiamo scelto riso al nero di seppia, tofu fritto nell’aglio (fantastico), insalata con il goya, un vegetale arricciato e un po’ amaro che mettono dappertutto, e orecchie di maiale, grande specialità locale. Insomma, una cena fantastica, di certo una delle migliori del 2014, che ci ha fatto deporre l’i-pad che avevamo usato per capire quanto sarebbe costato tornare a Osaka prima. Ah, un dettaglio. Ho scoperto in questo locale una cosa: il tradizionale tè verde qui viene servito sempre freddo, con una bella dose di ghiaccio. Altro che cerimonia del tè!
Da Ishigaki a Kabira Bay
E per fortuna siamo rimasti. La città di Ishigaki va visitata in una mezza giornata, con calma. Dietro l’apparenza un po’ caotica, in realtà si scoprono botteghe di artigianato molto originali. E poi ci sono i negozi di camicie hawaiane: ovviamente le abbiamo comprate pure noi. Su una delle vie principali si trovano una serie di baretti stile francese ed è simpatico mettere i piedi su fiori disegnati sulla strada mentre si sbircia dentro i cortili delle case più tradizionali popolati dagli shiisa. E poi c’è la passeggiata fino al porto: si trovano alcuni locali carini. In uno si possono provare ottimi hamburger (!) e poco più avanti c’è una fantastica pasticceria: sono tornata più volte per una specie di bombolone ripieno di crema fresca e mango. Non vale molto fermarsi sulle spiagge cittadine; meglio, per i tuffi, esplorare l’isola e arrivare fino a Kabira Bay. Non finirò mai di ripetere che conviene dotarsi di patente internazionale, indispensabile per noleggiare un’auto: noi ci siamo dovuti spostare in pullman e taxi, limitandoci un po’.
Anche la baia, comunque, si è rivelata a prima vista al di sotto delle aspettative. La nostra guesthouse era deserta, e con armi e bagagli abbiamo ripiegato sull’unico bar aperto a pranzo nel piccolo centro. Le alternative erano pasta o pizza, figuriamoci. La pizza (con il goya) comunque non era male. Ma alla fine, anche qui era solo questione di tempo. La casa, con le sue scricchiolanti scale di legno, era antica e affascinante e la vista sulla baia meravigliosa. La marea cambia continuamente colore e forme a questa spiaggia dalla sabbia candida e dall’acqua azzurro chiaro, da tropici. Il vento ogni tanto piegava una palma davanti alla finestra facendoci sentire piccoli e fuori dal mondo. La nostra padrona di casa canticchiava cucinando e ridendo a crepapelle con la nipotina venuta dall’Hokkaido e, ecco la lontananza dallo stereotipo più tipico, era un po’ sbadata: una mattina l’abbiamo dovuta svegliare noi, per fare colazione presto prima di un’immersione. Il mare quello sì che è bellissimo e si nuota circondati da una vegetazione selvaggia. Siamo partiti con l’agenzia Umicoza: non c’era molto sole e l’acqua richiedeva una muta bella spessa, ma decisamente il diving è un’attività importante sull’isola. Le mante, ahimè, non le abbiamo viste, ma conoscere dei giapponesi fricchettoni in barca valeva il viaggio.
La località è come il resto dell’isola: non si può dire che sia un posto da sogno (l’abbiamo anche visitata fuori stagione eh), ma è stato bello camminare con la calma dei luoghi un po’ isolati, dai ritmi lenti, con le pennellate delle bouganville dietro i muretti. Il vento non ha lasciato tracce di storia, ma girellando in un tempio con vista sul mare (mentre qualcuno era rimasto a casa perché aveva esagerato con la grappa locale la sera prima) mi sono trovata a pensare ai motivi che ci spingono a viaggiare, soprattutto così lontano. A quella voglia di esplorare i luoghi di confine, i puntini sulle mappe. E’ vero che non tolgono il fiato come certi monumenti o posti da cartolina, ma poi diventano nostre cartoline personali inimitabili.
Oltrepassando il tempio shintoista di Ishigaki ho pensato che il viaggio vero forse, soprattutto rispetto al normale concetto di vacanza, è approdare in Paesi meno belli del nostro, dove il bello, qualunque cosa esso voglia dire, non è immediato, ma va cercato, svelato, trovato dietro i dettagli della vita quotidiana. Ed è spesso in quei dettagli che scatta l’amore per un posto. E anche lì è stato così. A completare l’opera ci ha pensato la birra bevuta nel piccolo locale di legno azzurro di una ragazza che mi ha sorriso sulla porta invitandomi ad entrare. Mi sono fermata per un aperitivo inaspettato e ho scoperto che aveva aperto quel bar solo il giorno prima. E’ stata un nuovo inizio anche per me.