Dov’è l’anima di una città? E’ la domanda con cui mi sono svegliata questa mattina pensando al mio prossimo viaggio a Berlino. Il punto è che mi trovo in quei giorni in cui si studia la guida, si guardano le immagini su Internet in piccole pause rubate al lavoro, in cui vado a cercare in altri blog qualche informazione. Da giovedì alla domenica. Poco più di tre giorni mi sembrano all’improvviso pochissimi per esplorare una città che vedo immensa sulla mappa. Leggo la Routard, la guida che viaggia con lo spirito più simile al mio, e cerco di capire questi quartieri così diversi, provo a individuare un itinerario. Quella manciata di musei imperdibili. Ma c’è qualcosa, in questo momento, che mi sfugge, mi disorienta: anche solo leggendo la Lonely Planet di qualche anno fa, Berlino sembra cambiare continuamente, è in perenne trasformazione. Mi scappa un’idea di questa città. Scrive la guida a proposito del quartiere in cui abbiamo scelto l’appartamento (con AirB&b), Prenzlauer Berg: “Come dappertutto a Berlino, anche qui si cerca di cancellare le tracce del passato”. Frase che trovo sconvolgente, perché se c’è una cosa che mi pare distingua la nostra vecchia Europa da altri Paesi in cui ho viaggiato, è proprio la presenza del passato, della Storia, scolpita in monumenti, edifici, strade. Tutte le città stanno cambiando di continuo, ma di solito hanno una precisa identità. Cosa mi devo aspettare da Berlino? Qual è l’essenza della città che devo affrettarmi a cogliere in soli quattro giorni?
Ci sono città in cui l’anima mi è parsa chiara. O almeno mi pare di averla intravista attraverso corde del tutto personali. Non pretendo di averle capite in pochi giorni, ma la loro personalità si è svelata. Vado in ordine sparso.
Sarajevo
A Sarajevo l’anima della città è negli occhi della gente. Scrutando le facce delle persone per strada ho pensato: questi, vent’anni fa, cosa facevano? Dov’erano assediati? La capitale della Bosnia poggia su una ferita. Le cicatrici sono i segni delle granate nelle strade, ancora dipinte di rosso per ricordare. Tutti qui ricordano. Ci sono le targhe con i morti sui muri, ci sono i palazzi devastati dai proiettili. E, secondo me, il senso lo cogli dall’alto, dalla cima della collina, in cui si appostavano i cecchini. Sarajevo mi sembra di averla capita guardandola da lassù, come adagiata in una conca, così perennemente vulnerabile. E ancora meglio quando, girellando per la Bascarsija, davanti ai minareti illuminati dalla luna, ho avuto la stranissima sensazione di trovarmi catapultata a Istanbul. L’Oriente non esiste più, l’hanno bombardato a Sarajevo, dice Rumiz. Ma questa città, fra le sue macerie, non ha mai smesso di sembrarmi ricca di vita. E una porta per mondi sconosciuti.
Luang Prabang
L’anima della città l’ho intravista seduta a una tavolino del Tangor, sulla via principale in cui la mattina si ripete il Tak Bat, la processione dei monaci buddisti. Forse era il cocktail che avevo tra le mani, ma mi sono lasciata trasportare dai suoni e dai colori. C’era quel vociare continuo delle città dell’Asia, con un rumore di fondo più o meno continuo di tuk tuk e motorini. Ma c’erano anche le lanterne che ondeggiavano sulla mia testa, colorate. Una leggerezza luminosa che è quella dei templi, delle vesti dei monaci. La gente che passava. Tanti turisti, molti francesi con voglia di colonia, ma anche gente del posto, in un flusso continuo. Un temporale sulla testa in agguato. Lentezza, come quella del Mekong, e mescolanza. E colori. (Ci sarebbe anche la vista sui due fiumi dalla collina del Phu si: ma quello l’aveva già scritto Terzani. Ve la faccio leggere in Un indovino mi disse).
Gerusalemme
Arrivando da Tel Aviv due sono state le immagini: la salita del pullman (che freddo in effetti la sera) e il clima di pesantezza generale. Qui si prendono tutti sul serio, abbiamo pensato alla sera un po’ affaticati dal puzzle religioso della città vecchia. Ma l’anima di Gerusalemme si trova proprio fra le mura più antiche, dopo i mercati, oltre il Santo Sepolcro. E’ davanti al muro del pianto. Di venerdì sera un’umanità pulsante, rumorosa si raduna qui. Soldatesse che cantano dopo avere posato le armi, figure spettrali con alti colbacchi arrivano di corsa. All’improvviso è solo un ondeggiare di teste e preghiere, in un ritmo che ha una potenza primordiale, ha in sé qualcosa di antico. Dietro il muro, le moschee. Noi turisti dietro un altro muro a guardare.
Marrakesh
Piazza Jemaa El Fna non è certo il posto più bello del Marocco, ma è in se stessa il Marocco. Lo è per la confusione che stordisce, per i colori, i furboni che cercano di strapparti qualche soldo, manco fossi un riccone americano. Lo è la sera, quando si alzano i fumi delle griglie e ci si mescola a questa umanità pulsante, imperfetta, per mangiare unti spiedini, brindando con té traboccanti di menta. C’è quello che vende i denti, c’è chi ti metterà un serpente al collo. Ma non ti peserà, perché fa parte delle regole del gioco trovarti al centro di questo cuore che batte e lasciarsi andare un po’.
La mia Bologna
Se dovessi portare un turista in un posto, uno solo, in tutta Bologna, dove andrei? Come cogliere l’essenza della città in cui si è nati e dove i muri, portici e scalinate raccontano qualcosa di noi? E’ la chiesa di San Luca, dall’alto del Colle della Guardia. Non è un caso che vegli sulla città. San Luca racchiude tutto: andare ad accendere un cero per chiedere qualcosa, magari l’esito buono di un esame, all’università. E poi ci sono i portici, i più lunghi del mondo: è bello salire nella quiete del bosco. Per vedere il centro storico dall’alto è meglio salire per l’Osservanza, ma San Luca è la prima cosa che vedi tornando a Bologna. E’ il primo segno che ti dice, volente o nolente, che sei tornato a casa.
2 Comments