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L'acqua alta

Dieci cose da fare a Venezia (se non è la prima volta)

Venezia è una città che non mi stanca mai e in cui cerco di tornare almeno una volta l’anno. L’ho vista in tanti momenti diversi: nel caldo del Festival del Cinema, tornando di notte dal Lido davanti a una distesa di luci galleggianti sull’acqua. L’ho visitata nelle giornate terse invernali, quando il cielo azzurro si srotola come una tela dietro palazzi senza tempo. L’ho vista fra i colori del Carnevale e sulle passerelle per l’acqua alta in una bolla d’umidità. L’ultima volta è stata poche settimane fa, a inizio primavera, e sono andata alla ricerca di angoli che ancora non avevo scoperto o che meritavano decisamente un secondo passaggio. Il momento che amo di più, però, resta l’arrivo col treno, quando ci si lascia alle spalle Mestre e all’improvviso si spalanca la Laguna. Venezia è lì che ti aspetta, dopo quel braccio di ferrovia. E sembra aspettarti da secoli.

Buongiorno #venezia. Sei sempre bellissima #venice #veneziagram

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1) Lo squero di San Trovaso

Lo squero di San Trovaso

Lo squero di San Trovaso

Di solito Venezia mi suggerisce atmosfere orientali, come se fosse una porta verso Est, anche per come ho ritrovato le tracce della Serenissima viaggiando nei Balcani o in Grecia. E invece questa ‘officina delle gondole’, lo squero di San Trovaso (uno dei pochi ancora in attività) mi ha fatto pensare al Nord, alle Dolomiti. In effetti gli operai che lavoravano qui venivano dal bellunese, per questo si trovano ancora abitazioni di legno tipiche della montagna. Dietro il ricovero per le barche si può visitare anche una chiesa particolare: è San Trovaso. Se vedete due ingressi uguali non avete bevuto troppo spritz: erano gli accessi separati in chiesa di due clan rivali. Dall’altra parte del canale, poi, c’è un simpatico bacaro, l’Osteria al squero: ottimo il crostino con baccalà mantecato.

2) San Barnaba

Nata a Bologna nel 1982, ha sempre pensato che scrivere fosse un buona idea per raccontare qualcosa di sé. Oggi è giornalista e viaggiatrice, due mondi accomunati dalla curiosità per ogni cosa che passa sotto il suo naso. Ultimamente è andata sempre più a Est, ma l'Islanda e i Paesi del Mediterraneo non smettono di chiamare appena è possibile saltare su un aereo anche per pochi giorni. E' una buona forchetta: la voglia di sperimentare in cucina è nel dna e in Giappone ha trovato l'estasi culinaria. Da anni si è aggiunta la passione per l'universo del vino. E così, da sommelier, va in cerca delle vigne del mondo.

La chiesa di San Barnaba

Non so se avete la fissa come me della saga di Indiana Jones, ma nel caso questa chiesa avrà un aspetto familiare. Avete presente la scena dell’Ultima Crociata in cui il fascinoso archeologo entra in una biblioteca (dove la x che è sempre il punto dove scavare)? Ecco, il campo in cui è girata quella sequenza in cui si vedono bene una chiesa bianca con facciata settecentesca e la piazzetta con i tavolini è proprio questo. Ps. le catacombe però a Venezia mica esistono, non cercatele!

3) Basilica dei Frari

E’ un vero scrigno di tesori e il monumento funebre di Antonio Canova merita l’ingresso in questo complesso francescano (chiude alle 17.30, si può anche fare un biglietto comulativo per le chiese da 12 euro). Lo trovate subito sulla sinistra appena entrati: il bianco della grande piramide di marmo contrasta con la porta nera socchiusa al centro. E’ l’accesso a un altro mondo, impossibile per noi -proprio come per l’uomo in generale – vedere al di là di quella porta. Molto belle anche le cappelle dell’abside: è decisamente un suggestivo bagno di arte sacra.

4) San Giorgio

Venezia vista dal campanile di San Giorgio

Venezia vista dal campanile di San Giorgio

Un’altra tappa in chiesa, ma questa volta per salire sul campanile di San Giorgio. Siamo nella piccola isola, proprio a fianco alla Giudecca, raggiungibile col vaporetto numero 2 da San Zaccaria (molo B). Rispetto a piazza San Marco, la coda è nettamente inferiore (se non assente) e da questo campanile la vista sui sestieri di Venezia è molto suggestiva. Si riconoscono bene la forma caratteristica della città e la disposizione delle tante piccole isole che compongono quella costellazione acquatica che è la Laguna. Occhio a quando suona la campana!

5) Il mercato di Rialto

Mercato di #rialto #rialtobridge #venezia #venice #veneziadavivere

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Di solito amo dormire a Cannaregio, per essere vicina alla zona del Ghetto ebraico (la mia preferita), ma l’ultima volta abbiamo trovato una buona offerta proprio a un passo dal ponte di Rialto (a proposito, ho scoperto che marzo è uno dei momenti migliori per quanto riguarda i prezzi e in generale il periodo fra il carnevale e Pasqua!) e abbiamo cambiato base. Alloggiare qui permette di visitare in mattinata il mercato che si sviluppa vicino al ponte-simbolo: fra le bancarelle di frutta e verdura, quelle più affascinanti sono quelle del pesce. Granseole, moeche, capesante: è un tripudio di colori in un vociare continuo. Non perdetevi la lapide con scritte le lunghezze dei pesci concesse nei secoli scorsi: è uno dei tanti tuffi nel passato che offre questa città.

6) Mangiare le moeche

Moeche fritte!

Moeche fritte!

Dopo averle viste al mercato, non potete non assaggiare questi granchi privi del guscio, disponibili soprattutto in primavera. La bontà si paga, ma se le provate nella Trattoria Antiche Carampane, non troppo distante dalla zona del mercato, ogni euro sarà ottimamente speso. Le moeche sono servite croccanti, insieme con altre verdurine. Provate anche i tagliolini con la granseola!

7) Casino Venier

Trucchetti al Casino Venier

Trucchetti al Casino Venier

Non è facilissimo trovare questo piccolo appartamento, che oggi ospita l’associazione Alliance Francaise (siamo dietro piazza San Marco). Suonate e salite verso il mezzanino: vi si aprirà un mondo uscito da un romanzo. Questo ambiente era un casino, un luogo mondano di gioco e divertimento, uno dei pochi rimasto così intatto (grazie a un ottimo restauro). Bellissimi gli stucchi, gli affreschi e i tanti piccoli artifici dell’epoca: come un buco nel pavimento per vedere il passaggio nella stradina sottostante o grate da cui usciva la musica suonata nella stanza vicina.

8) Libreria dell’acqua alta

Uscita di sicurezza. #libreriaacquaalta #venezia #venice

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La Libreria dell'acqua alta

La Libreria dell’acqua alta

Appena si entra, dopo avere attraversato un piccolo cortile, c’è una gondola stipata di libri. E poi altre barche e vasche da bagno, tutte cariche di volumi. E’ un luogo più suggestivo che comodo per  gli acquisti forse, ma sembra che alla Libreria dell’Acqua alta ci sia ogni libro possibile. Ci sono più sale piene oltre ogni modo, con tanto di punti pensati per fermarsi a leggere. Il mio preferito è quello davanti all’uscita di sicurezza: una porta aperta sul canale. E’ in Calle Lunga Santa Maria Formosa, 5176/B.

9) Un giro a Burano

Burano *latergram* #venezia #venice #burano

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Mi piacciono molto le isole della Laguna, in particolare la Giudecca, ma Burano è uno di quei luoghi che sembra galleggiare in una bolla. C’è un’atmosfera sospesa, un po’ malinconica, ma senza esagerare, grazie all’esplosione di colori che si offre ai visitatori. Tutte le case dei pescatori, infatti, sono dipinte con toni pastello: questa isola famosa per la lavorazione dei merletti è un piccolo arcobaleno. Considerate diverse ore per la visita: il tragitto in vaporetto è piuttosto lungo (la linea è la 12, che passa anche per Murano).

10) Pizzette a volontà

pizzetta con l’acciuga: felicità -#Venezia — Inviato da WhatsApp

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La cucina veneziana è fantastica e va provata, anche se non sempre è a buon mercato (oltre al posto già citato al punto 6, un consiglio per mangiare bene e non spendere troppo: La Palanca alla Giudecca). Ecco, le pizzette sono un’ottima opzione per pranzare con pochi euro in una città fondamentalmente un po’ cara e sentirsi in pace col mondo. Adoro in particolare quelle con l’acciuga, ma in generale questa versione veneta con la base di pasta sfoglia mi fa impazzire. Le mie preferite sono quelle della pasticceria Nobile (Cannaregio, 1818), frequentatissima dai veneziani, altrimenti amo molto anche quelle dell’Aciugheta, nel Campo Santi Filippo e Giacomo (molto vicino a San Marco). Ma quanto sono buone, da accompagnare con un’ombra di vino bianco ovviamente!

Laugavegur

Il Laugavegur in Islanda

E’ possibile che il posto del cuore sia anche quello di cui non ho mai scritto una riga? Come se quel luogo e quei giorni fossero rimasti a lungo a sedimentare, a vivere in uno spazio interiore. Poi un giorno, all’improvviso, devo scriverne, anche per non perdere quelle sensazioni così vive, anche dopo anni, nella mia testa. E quel giorno è oggi.

Sto parlando dell’Islanda, un viaggio che per me ha il sapore dell’incompiuto e chi mi chiama da un po’ di tempo per chiudere il cerchio. Quando sono stata la prima volta avevo a disposizione una settimana risicata, che è stata sufficiente per innamorarsi di questo paese, ma non abbastanza per sentirsi appagati. Ora so che tornerò, spero già quest’anno, ma intanto ecco la parte principale del mio viaggio, il Laugavegur. Quando mi avevano detto che era uno dei trekking più affascinanti del paese non sapevo bene cosa aspettarmi. Sono partita guardando le foto di Patrick, ma poco di più. Dopo una tappa a Reykyavik, città rilassata e giovane, e una nelle acque calde della Laguna blu, il cuore del viaggio sono stati quattro giorni in questa zona remota dell’Islanda, che sembra condensare nel giro di una cinquantina di chilometri tutti i paesaggi di quest’isola. Vulcani, fiumi, deserti, grotte di ghiaccio e vallate con colori che non sembrano di questo mondo. Ecco, l’Islanda è la porta d’ingresso di un altro pianeta, più giovane, fiabesco, ma anche un po’ incavolato.

Giorno 1- Landmannalaugar

Si arriva al rifugio dopo quattro ore di pullman da Reyakyvik. Tutti i passeggeri a bordo faranno trekking, si capisce bene dagli scarponi e dalle racchette presenti ovunque. Anche se è fine agosto, fuori non ci sono più di 10 gradi, ma su quell’autobus stipato fa caldissimo. Ho come al solito una certa paura per quello che mi aspetta: chi lo ha mai fatto un percorso così, di più giorni, dormendo in mezzo al nulla? Io non ho neppure mai avuto uno zaino, persino in campeggio ci sono andata col trolley, o un pile (se togliamo quelle cose incredibili degli anni Novanta). Il paesaggio conforta il giusto: l’autista indica un vulcano che nelle leggende è una porta dell’Inferno, Hekla, e attraversiamo cittadine che sembrano stazioni di servizio: i concetti qui coincidono forse. In lontananza c’è sempre del fumo che non proviene da fabbriche sparse, ma dalla pancia della terra. Ma avvicinandosi a Landmannalaugar inizio a scorgere le prime sagome su colline tondeggianti e verdissime: sono uomini con lo zaino, in un paesaggio fantasy. Al rifugio, dove ci sono anche delle piscine calde naturali (una favola per chi fa il sentiero in senso contrario), si lasciano i propri nominativi: si comunica a qualcuno, insomma, che si sta entrando nel parco. Un panino e si parte.

Il vulcano Hekla, Islanda

Il vulcano Hekla

Il primo tratto è indimenticabile, soprattutto se si ha la fortuna di percorrerlo con il sole. Uno strappo in salita taglia un po’ le gambe, lo zaino inizia a essere un compagno scomodo, ma la strada è incredibile. Le colline sono morbide, sembrano ricoperte da uno strato di velluto. I colori si fondono come nella tavolozza di un pittore. Mi colpiscono soprattutto il rosa, ma anche il verde brillante e il grigio. Sul sentiero ci sono ancora tracce di neve, che si scioglie in fretta vicino a pozze di acqua che ribolle. Passo in punti vicini a queste ‘bocche’ e l’odore di zolfo è molto forte. Ci ho ripensato anni dopo, nella caldera di Santorini, camminando su un’altra terra nera. Il gruppo procede compatto, poi si sfilaccia e tedeschi e americani iniziano a scappare via. Io vado col mio passo, seguendo con lo sguardo le onde del sentiero, che è così bello da cacciare indietro ogni paura di non farcela. Questa prima tappa sono circa 12 chilometri, che scivolano via bene. Alcuni tratti sono completamente nella neve, mentre una spianata piena di rocce mi fa sobbalzare: c’è la tomba di un ragazzo morto in seguito a un repentino cambio di clima. Mi ricordo di quanto letto nella guida: qui può succedere in ogni momento. Dietro una curva, un po’ in basso, ecco il rifugio di Hrafntinnusker.

All’ingresso si lasciano giacche e scarpe, poi si accede al dormitorio. Nello stesso ambiente ci sono anche i tavoli per mangiare; la cucina è ben attrezzata, anche se ovviamente il cibo lo si porta da casa. Io mi aggiro con una polenta Knorr, un grande successo, anche se mi resta una gran fame: ma anche questa è la scuola del trekking. Così come il bagno all’esterno, con acqua rigorosamente fredda. Entro e studio la situazione, inizio a riconoscere alcuni camminatori che ho visto sul sentiero che ora esibiscono equipaggiamenti tecnicissimi. Io mi stringo nel mio pail rosa di Decathlon e mi faccio un tè sui tavoli fuori: davanti ai miei occhi la terra continua a fumare in un giorno che sembra non terminare mai. Il buio cala tardissimo, quando ormai dormiamo già tutti nei letti a castello.

L'arrivo a Landmannalaugar

L’arrivo a Landmannalaugar

Sul sentiero del Laugavegur:

Sul sentiero del Laugavegur: il percorso durante la prima tappa

Studiando la mappa

Studiando la mappa

Giorno 2- Álftavatn

Esco dal sacco a pelo controllando che il mio collo sia ancora al suo posto. Sono un po’ indolenzita, ma posso buttarmi sulla colazione. Ed è qui che entrano in gioco Bianca, Micheal e Katharina, tre tedeschi che diventeranno compagni di avventura fino alla fine del percorso. Bianca è una ragazza che viaggia sola – mi sbalordisce, poi negli anni mi sentirò io la strana a non averlo ancora fatto -, mentre gli altri due sono una coppia appena nata nella pancia di una nave partita dal Canada. Sono ricercatori e hanno fatto tappa in Groenlandia in un mare spaventoso (ma almeno è nato l’amore). E così lei, in jeans, l’ha seguito in questo trekking nel cuore dell’Islanda. E io che ci ho messo settimane a studiare cosa mettermi. Dopo avere preso il caffè (la scorta da casa di Nescafè si rivela presto un ottimo modo per fare amicizia), decidiamo di partire con calma e prima visiteremo la grotta di ghiaccio poco distante. Camminiamo su un manto innevato sotto un sole splendente: capisco solo dopo che eravamo proprio sopra la grotta, crollata (purtroppo ci fu una vittima) poco tempo prima. Ora sembra un orologio di Dalì sciolto e ripiegato su se stesso, ma resta un luogo potente, che incute rispetto. Il ghiaccio brilla e regna il silenzio, interrotto solo dall’acqua che ribolle nelle bocche della terra.

Ci rimettiamo sul sentiero principale e le colline intorno a noi sono ancora colorate, morbide e fatate. Non sembrano reali, mentre la fatica nei continui saliscendi è molto concreta. Ma questo percorso non è mai eccessivamente duro, anche se c’è un’insidia, cui penso fin dal mattino. Alcuni tratti vanno percorsi su piccoli ghiacciai: sotto quello che sembra un sentiero innevato, in realtà, ci sono alcuni metri di vuoto. Insomma, se quel misto di ghiaccio e neve decidesse di cedere proprio sotto i nostri passi, l’atterraggio non sarebbe di quelli morbidi.

Il sentiero sul ghiaccio (Foto di Patrick Colgan, 2010)

Il sentiero sul ghiaccio (Foto di Patrick Colgan, 2010)

Ma per fortuna tutto fila liscio e dall’alto iniziamo a vedere il rifugio sul lago: sembra vicinissimo, ma non sarà così, perché altre due ore ci separano dalla meta. La strada è quasi tutta in discesa e in alcuni punti le ginocchia vanno parecchio in crisi, fino all’arrivo nella vallata, dove sembra di camminare sul muschio. In Islanda più della metà delle persone crede che gli elfi esistano. Ecco, in quel tratto che ci separa dal lago inondato dalla luce dorata del tramonto, capisco perché. Dopo dodici chilometri entriamo in un rifugio nuovissimo: i soliti americani e canadesi sono già arrivati e stanno preparando da mangiare. Anche io non vedo l’ora, mentre i due tedeschi che viaggiano con me non temono il freddo e vanno a tuffarsi nel lago.

Islanda, sul Laugavegur: campeggio sul lago

Il campeggio sul lago

Alfavatn

Alfavatn

Giorno tre, Emstrur

Questo tratto del percorso è molto diverso dai precedenti. E anche il tempo è cambiato, purtroppo in peggio: nel giro di pochi chilometri dalla partenza inizia a piovere. Non è forte, ma comunque indossiamo i copripantaloni, mentre la terra inizia a diventare sempre più scura. Stiamo camminando in una zona vulcanica in un paesaggio particolarmente desolato. Anche nei tratti precedenti non abbiamo visto una casa e quasi mai animali (se non qualche pecora). Mai un albero. Anche in questo tratto silenzioso, interrotto da un fiume da guadare. Iniziamo tutti a toglierci le scarpe per passare, quando la fortuna si presenta sottoforma di autobus: incredibile, in questo tratto che passa più vicino alla civiltà passano addirittura mezzi a motore. Ci sbracciamo, l’autista capisce e ci tira su.

Laugavegur: la nebbia sul sentiero

Laugavegur: la nebbia sul sentiero

Dopo questo colpo di fortuna, deve arrivare pure la sfortuna, ovvio. Nel nostro caso si materializza come nebbia: una delle insidie peggiori durante questi percorsi. Per fortuna le pietre impilate come sculture orientali che segnano il sentiero sono ancora visibili, ma la strada diventa più spettrale, come la terra sabbiosa sotto i nostri piedi: è completamente nera. Inizio a valutare di ricorrere al gps: secondo i nostri calcoli dobbiamo avere già percorso i quindici chilometri previsti e non capisco dove sia il rifugio. Proprio mentre pensiamo di montare la tenda di Bianca, vediamo passare due figure nella nebbia. Sono altri escursionisti che ci svelano l’arcano: il rifugio l’abbiamo appena oltrepassato. Torniamo sui nostri passi ed ecco che scorgo tanti piccoli rifugi, proprio sotto la strada, completamente invisibili fino a poco prima.

I rifugi nella nebbia

I rifugi nella nebbia

Entriamo in una delle casette: la stanza è davvero piccola e mi colpiscono i vetri appannati per il cibo sul fuoco e il calore umano. Sotto le finestre c’è la cucina, un tavolo solo nel mezzo e su due pareti i letti a castello di legno. Per la prima volta sento la stanchezza, la mancanza di una doccia calda dopo quei chilometri nella nebbia. Mi infastidisce l’odore forte di quell’unico ambiente in cui si mescolano il sudore e l’odore del cibo che ognuno si prepara a modo suo. Le poltiglie chimiche degli americani, i pomodori e le cipolle degli israeliani, le polpette dei mici compagni tedeschi. Io ho la mia solita busta Knorr che mi pare il piatto più buono della terra. Ma la vita qui è fatta così, va presa per le cose semplici che si è chiamati a fare. Si cerca il proprio posto, si prepara da mangiare, si mangia, si lavano le pentole comuni e si va a letto. Intanto c’è qualche chiacchiera con i compagni di viaggio, ci si scambia impressioni su cibo e percorso. C’è sempre chi russa parecchio, ma in fondo, presto non lo si sente più.

Quarto giorno, Thòrsmörk

Partiamo alle sei perché vogliamo essere sicuri di arrivare per le quattro alla nostra ultima tappa. Da lì c’è poi chi prosegue per Skogar, la parte più impegnativa e potenzialmente pericolosa del percorso, ma per noi il cammino finisce a Thòrsmörk dove prenderemo un pulmann per tornare a Rykjavik. Per fortuna la nebbia sembra essersi levata, anche se il sentiero è ancora freddo e umido nelle prime luci dell’alba. E’ il tratto meno suggestivo di tutti, almeno fino al canyon che attraverseremo su un gioco di ponti. L’acqua romba dal basso: come sempre la natura parla a voce alta e mi fa sentire un dettaglio nell’ambiente circostante. In compenso, però, mi sento molto più forte di quando sono partita. Avevo paura di non farcela, di dover mollare tutto ad Alftavatn e invece sono quasi arrivata alla fine di questi cinquantacinque chilometri percorsi in mezzo alla natura selvaggia. Non l’avevo mai fatto prima, non l’ho più rifatto dopo. Ma in quel momento ho capito che bisogna sempre avere voglia di superare i propri limiti, in quell’anno della mia vita un viaggio così lo era.

Ci fermiamo per pranzare in un punto molto panoramico. Ad aumentare il solito senso di fiaba, vediamo i primi animali da giorni: ci vengono incontro dolcissimi cavalli. Sono più piccoli del normale e hanno una criniera particolarmente lunga e folta, sembra una chioma di capelli. Sono bellissimi, creature magiche. Scambiamo due parole con l’uomo che guida la fila e ci prepariamo alla parte più impegnativa: un altro fiume da guadare, il più grande di tutti con una corrente forte. Io sfodero i calzini in neoprene e i sandali di gomma comprati per l’occasione: l’acqua è gelida, punge e mi aiuto con la bacchetta per non scivolare. Katharina deve togliersi i jeans per non inzupparli e passa a gambe nude e con le infradito. Non lo consiglio, ma si può fare. Dopo questo simbolico passaggio si scivola verso la civiltà. All’improvviso compaiono gli alberi, ritorti, poi ci addentriamo in un vero e proprio bosco. Siamo vicinissimi al vulcano Eyjafjallajökull, quello che qualche anno fa bloccò i cieli europei per settimane dopo la sua violenta eruzione. E infatti sul sentiero ci sono pannelli con tutte le indicazioni da seguire nel caso in cui il vulcano decida di risvegliarsi. Ricominciamo a sentire gli uccelli cantare, fino al rifugio, un luogo idilliaco, in cui ci aspettano altri mansueti cavalli. E’ la fine del percorso. E’ un momento di pura felicità per la sensazione di avercela fatta e per la bellezza di quel percorso un po’ fiabesco che ci siamo appena lasciati alle spalle.

Un cavallo islandese

Un cavallo islandese

Uno dei fiumi guadati. L'espressione di Bianca e Khatarina la dice lunga

Uno dei fiumi guadati. L’espressione di Bianca e Khatarina la dice lunga

Informazioni utili

Il percorso escursionistico del Laugavegur si percorre normalmente da giugno ad agosto. A suo tempo ho visto che fino a settembre si riesce a dormire nei rifugi, ma non c’è più il guardiano che si occupa del riscaldamento. In generale, non sfiderei il clima islandese, che non lesina sorprese. I tre rifugi di cui parlo nel post sono stati prenotati prima via mail, pagando in anticipo. E’ decisamente opportuno farlo perché i posti non sono mai tantissimi (circa 60), poi ovviamente si può anche campeggiare con la propria tenda subito all’esterno (è vietato, invece, il campeggio libero durante il percorso). I rifugi hanno una cucina attrezzata e l’acqua è sempre potabile. In compenso ognuno si porta il suo cibo e se ne va con la spazzatura che ha prodotto (è importante saperlo per organizzare i bagagli, non ci sono bidoni sul sentiero). Capitolo bagni: sono sempre esterni, con acqua fredda, e la doccia è a pagamento. Detta così sembra l’inferno, ma per tre notti fuori vi assicuro che si può fare.

L'ironia islandese in bagno

L’ironia islandese in bagno

 

I bagagli. Io avevo uno zaino molto leggero (5-6 chili) perché il male al collo è una croce che mi porto dietro da anni. Avevo un sacco a pelo di Decathlon leggerissimo, tanto i rifugi sono riscaldati. Ho portato anche un cuscino ripiegabile, un asciugamano in microfibra, sandali di gomma, calzini in neoprene e un cambio di maglie e biancheria. Per camminare, a fine agosto, ho usato un pail, un wind stopper e una giacca a vento in goretex. Fondamentali gli scarponi, sempre in goretex: i miei sono della Aku, marca che consiglio vivamente, non ho mai visto una vescica. Servono anche guanti e cuffia per quando non c’è il sole e, ovviamente, una copertura per lo zaino in caso di pioggia. Non scordate la crema solare, le bacchette (o racchette) e una pila frontale.

Capitolo alimentazione. Io non ho scelto i cibi più tecnici, che si trovano però nei negozi a tema, ma cose molte semplici, come il cibo liofilizzato Knorr. Insomma, presente quelle polentine o risotti che molti di noi conoscono fin dall’infanzia? Ecco, sono leggeri e comodissimi. Utilissime anche le piccole confezioni di Parmigiano, pacchetti di krackers e brioches da riempire di Nutella la mattina (avevo i pacchettini piccoli che a volte danno al ristorante, presente?). Vale la pena portarsi il thermos, fare pause lungo il percoso con il caffè solubile è rigenerante. Ovviamente non possono mancare frutta secca e borracce (o camel back).

Il percorso. I 55 chilometri canonici si possono percorrere su 3 o 4 giorni, a seconda di fermarsi o meno ad Hraftinnusker. Secondo me conviene dormire tre notti fuori per non correre eccessivamente e godere anche del paesaggio. Il percorso che parte da Landmannalaugar è quello più consigliato visto che l’ultimo tratto è leggermente in discesa. Volendo si può anche camminare fino ad Alftavatn e farsi riportare indietro. Se proseguite fino a Emstrur, invece, poi dovete farvela tutta a piedi fino in fondo.

 

 

 

La vista della finestra della casetta

Le mie Fiji

E’ un pomeriggio bolognese di quelli in cui il cielo si piazza in modalità grigio topo con l’aria di volere restare così per giorni. Proprio come la pioggia. Clima ideale per ripensare alle Fiji, e non solo per farsi del male. In effetti nella nostra permanenza sull’isola di Tokoriki il sole non si è fatto vedere quasi mai e ci siamo fatti un’idea piuttosto precisa di cosa siano le piogge tropicali. Uno smacco, una volta che si vola fino a là, e pure nella stagione asciutta (settembre)? In realtà no. In fin dei conti, chi può avere il coraggio di lamentarsi dopo avere passato quasi tre settimane in Nuova Zelanda? La tappa alle Fiji era il coronamento del nostro viaggio di nozze. E lo è stato, anche sotto l’acqua. E, soprattutto, ha rappresentato la chiusura del cerchio: gli antenati dei Maori, infatti, arrivarono in Nuova Zelanda mille fa non dalla vicina Australia, ma proprio dalle isole del Pacifico. Loro navigarono a bordo di canoe, noi abbiamo volato per quattro ore da Christchurch, ma alla fine abbiamo concluso il nostro viaggio un po’ da dove è partito il loro. Più o meno.

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Delle mie Fiji ho scritto un articolo qualche tempo fa per il giornale per cui lavoro. Ogni settimana dedichiamo una pagina al viaggio di un lettore e quella volta ho raccontato il mio. Lo ripropongo qui, un po’ rimaneggiato (che bello, su Internet non ci sono problemi di spazio), pensando ancora una volta al regalo più bello che ci ha fatto il Pacifico: il recupero della calma (ammesso che io l’abbia mai avuta) e del tempo lento. E della gentilezza (questa sconosciuta,). Per tutto il resto c’è la Visa, vien da dire, ma da quanto ho capito esistono formule alternative al classico resort e più economiche che vorrei sperimentare in futuro. Ma non mi dilungo oltre, ecco il racconto.

La 'nostra isola' dalla barca

La ‘nostra isola’ dalla barca

L’immagine più classica che abbiamo del Paradiso è quella dell’isola con acqua trasparente e sabbia bianca. Palme. Tutto questo diventa improvvisamente reale alle Fiji, disseminate, come astri di una costellazione, in mezzo all’Oceano Pacifico. Ed è vero che ci si va quasi sempre in viaggio di nozze nella formula fissa del resort, con i suoi limiti e problemi, ma non si esaurisce tutto qui. Le isole di questo arcipelago sono tante e tutte diverse. Con un tratto comune: la lontananza da tutto. Ci si sente alla fine del mondo già dall’areo: veniamo dalla lontanissima Nuova Zelanda eppure il volo dura altre quattro ore.

Tutti arrivano a Viti Levu, l’isola più grande, con il suo aeroporto internazionale, planando su un universo d’acqua. Atterri ed è subito Pacifico: come comitato di accoglienza ci sono musicisti con ukulele e fiori fra i capelli e stampati sulle camicie. Quei fiori profumati, i tipici frangipane, te li trovi al collo poco dopo, raccolti nelle corone viste in film e cartoline. Sono questi allegri musicanti a spiegarti che il fuso orario è cambiato: ora regna il Fiji time, è tempo di relax e di mettere l’orologio in valigia. Questa isola, che sembra la ‘terraferma’ è punto di passaggio verso gli atolli, raggiungibili in barca, elicottero o idrovolante. L’economia si basa sul turismo, ma anche sulla canna da zucchero. Attraversando la città di Nadi, si scorgono i binari di un treno merci che sembra avere visto tempi migliori, che trasporta il raccolto delle piantagioni. Spiccano i colori di un tempio induista, ma poco di più, in mezzo a strade trafficate e case basse dall’aria precaria. Per un attimo mi ricorda Cuba, per la povertà, per quella sua aria un po’ vissuta e l’aria umida. Ci sono tantissime chiese, protestanti e cattoliche, e campi da rugby: è lo sport più diffuso qui.

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Ma tutto cambia quando ci si imbarca verso i resort: all’orizzonte solo cielo e acqua, interrotta da piccole strisce di terra. Ognuno naviga verso la propria isola. Si è naufraghi felici, quando si sbarca, scendendo con i piedi nell’acqua in assenza di un vero e proprio molo. La nostra si chiama Tokoriki. Un altro comitato di accoglienza ci aspetta sulla soglia: «Benvenuto a casa», ti dicono le donne del posto (e in mano ti ritrovi pure il primo drink). E in effetti per qualche giorno quella piccola isola diventa come una casa e gli ospiti, alloggiati nelle casette dal tetto di paglia, volti familiari.

La vista della finestra della casetta

La vista della finestra della casetta

Si va e si viene e ci si incontra nel vialetto fra bouganville e frangipani. Insieme si esplora il mare, che incanta i sub. L’oceano custodisce coralli, pesci colorati e, per gli amanti del brivido, tanti squali. Si nuota, si va in kayak, o si visita l’isola dirimpettaia in cui è stato girato il film Cast Away. Ed eccola che si prova un po’ di invidia per il naufrago cinematografico Tom Hanks che per mesi ha lavorato su questa spiaggia circondato da palme da cocco.

Cast Away island, Fiji

Cast Away island, Fiji. Non ho visto il film, ma essere lasciati qui non sarebbe poi così male

Ma la propria isola è il rifugio in cui si torna. Con i tramonti da assaporare dall’amaca, o le voci calde degli isolani che accompagnano la cena con le chitarre. E poi c’è lui, il mitico okulele, che mi riporta alle atmosfere di quei film che mi sono sempre piaciuti, come Da qui all’eternità. Tutti i membri dello staff vengono dai villaggi vicini e hanno una gentilezza innata. «Per noi il turismo è un lavoro – mi spiega un ragazzo del posto che fa davvero di tutto –. Ma a noi figiani viene naturale, perché da sempre siamo un popolo ospitale». Lo si sperimenta anche la sera quando ci si siede in cerchio su una stuoia bevendo yanggona (quella che in Polinesia si chiama kava): è una bevanda diffusa in tutto il Pacifico ottenuta da una radice polverizzata e mescolata ad acqua. Non manca mai in tutte le occasioni importanti e di solito la si assaggia su invito del capo tribù. Scalda anche noi ospiti che veniamo da tutte le parti del mondo, pure troppo. A mandarne giù un po’ troppo l’effetto è diciamo, rilassante.

Di sera si ride e la domenica si va in chiesa per la messa con il rito metodista, al quale partecipiamo con parte dello staff dell’albergo. Il celebrante, in sarong e cravatta, parla in figiano e non ci resta che seguire la musica. Quella non ha mai bisogno dei dizionari.

Pausa col cocco

Pausa col cocco al Tokoriki

Isole Fiji: informazioni pratiche

Quasi sempre i voli internazionali arrivano a Nadi, fra i principali centri delle Fiji, verso sera, quando ormai i collegamenti con le altre isole sono impossibili. E’ quindi altamente probabile che dobbiate pernottare qui, per poi imbarcarvi (sempre che non andiate in elicottero) la mattina successiva. Noi abbiamo dormito al Novotel, fra l’areoporto e la città, e non è stato male. Non credo esistano troppe sistemazioni di fascino in questa zona.  Ci si può anche avventurare in taxi in città la sera, ma abbiamo parlato con persone che non ce l’hanno troppo consigliato. Chissà, a voi provare.

Quando si arriva al porto si deve fare la coda per cambiare il voucher con un biglietto e intanto si imbarcano i bagagli, proprio come in aereo. Meglio arrivare un paio d’ore prima, le procedure da questa parte del mondo non sono mai molto veloci. Per arrivare alla ‘nostra’ isola di Tokoriki abbiamo impiegato circa un’ora e mezza.

Qualche dritta sul resort. Noi abbiamo scelto la formula del tutto completo: avevamo tre pasti al giorno, oltre la merenda con the/caffè e dolcetti. Si pagano invece tutti i drink e il vino al tavolo. Il Tokoriki è solo per adulti, quindi i bambini non sono ammessi. Abbiamo incontrato molta gente che tornava sull’isola dopo esperienze di anni passati: ottimo segno, ho pensato, ma non mi è sfuggita la vista di birre che si portavano da Nadi: può essere un consiglio per risparmiare un po’, almeno con le bevande in camera.

La chiesetta metodista di Tokoriki

La chiesetta metodista di Tokoriki

Il Tokoriki è un posto bellissimo, le persone che lavorano sono gentilissime e il numero dei clienti che tornano di anno in anno è alto. Ogni sera viene proposta una piccola animazione, ma è molto soft e si può tranquillamente tagliare la corda senza essere inseguiti. Due volte al giorno parte la barca per andare a vedere la barriera corallina e fare snorkelling: è una delle attività gratuite, mentre il diving e l’escursione in altre isole sono a pagamento. Per il resto è facile fare amicizia con la gente del posto, anche viste le dimensioni ridotte: sull’isola ci sono solo due piccoli resort e non si va certo troppo in giro. O si sta nel proprio piccolo tratto di spiaggia o si prende un kayak per raggiungere da soli i punti per le immersioni. Si fa una vita molto semplice, scandita dal rumore del mare e dall’ondeggiare dell’amaca. Ovviamente non mancano Spa e campi da tennis, ma non ho provato. Buonissima, invece, la cucina. Un indirizzo che consiglio assolutamente anche se piuttosto caro.

Noi ce lo siamo potuti permettere perché eravamo in viaggi di nozze. Del resto è anche in posizione numero 16 fra i migliori alberghi al mondo per gli utenti di Tripadvisor (qui un altro articolo dalla stampa locale delle Fiji).

Sull'amaca alle Fiji

Ah che brutta l’amaca!

Il Nins Bin, Kaikoura (Nuova Zelanda)

Mini-guida alla cucina della Nuova Zelanda

Il tempo passa e la nostalgia della Nuova Zelanda punge sempre un po’ di più. Dopo avere raccontato le città e i miei luoghi preferiti, proseguo con la cucina. Punto per altro controverso, visto che in Internet mi sono imbattuta in giudizi anche molto negativi. Io in realtà sono rimasta soddisfatta (anche se la leggerezza non è sempre di casa), soprattutto per un motivo: si vede che c’è voglia di sperimentare e migliorare la tradizione britannica, che per altro si ritrova nella cucina maori, come mi hanno confermato alcune persone che si sono trasferite laggiù dall’Europa. E poi è molto importante la contaminazione con i piatti asiatici, per non parlare dell’attenzione alle allergie alimentari o al mondo dei vegani: insomma, è difficile non trovare qualcosa che piaccia. Con una nota dolente: il cibo buono in questo paese costa. Nel senso che è dura mangiare a meno di 40 dollari in due, a volte anche solo con un piatto e un calice di vino. Insomma, si deve mettere in conto se si viaggia dovendo mangiare sempre fuori.

Ma quindi, che si mangia in Nuova Zelanda?

Le porzioni sono sempre generose. Qui siamo a Hobbiton, grazie Patrick per avere fatto da modello

Le porzioni sono sempre generose. Qui siamo a Hobbiton, grazie Patrick per avere fatto da modello

La colazione

E’ uno dei pasti principali da queste parti e davvero non si scherza con le quantità.  A farla da padrone, almeno nei menù dei locali e nelle guesthouse in cui abbiamo dormito, sono le uova. Sono cucinate in tutti i modi: spesso alla Benedict o strapazzate. Ovviamente non mancano i pancakes, quasi sempre preparati con bacon e banana caramellata. Sì, avete letto bene. Un po’ dolce, un po’ salato. Al terzo giorno di fila sentirete il forte bisogno di darci un taglio, ma sono ottimi. Mi sono imbattuta spesso anche nel french toast (sempre col bacon): buonissimo, ma anche in questo caso con il fritto mattutino io dopo un po’ alzo bandiera bianca. Per fortuna ho spesso trovato anche yogurt e muesli.

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Nelle guesthouse questi appena elencati erano ‘solo’ i piatti principali. Attorno a noi, su tavole imbandite, c’era poi un corollario di muffin, frutta fresca o cotta nelle spezie e marmellate varie con riccioli di burro (quello neozelandese è famoso) e pane caldo. Insomma, si siamo spesso alzati da tavola giurando di non volere mangiare mai più (promessa non mantenuta, figurati).
Qualche indirizzo.

Ad Auckland è bello iniziare la giornata da Federal  & Wolfe. Il locale è informale, ma un po’ hipster, il menù è scritto direttamente sui tavoli e nell’aria regna il profumo di caffè. Un buon motivo per venire è per vedere la gente del posto chiacchierare o leggere un giornale prima di andare al lavoro. Fantastico l’uovo alla Benedict (circa 18 euro).

Il french toast con rabarbaro, cocco e fiori di Federal & Wolfe

Il french toast con rabarbaro, cocco e fiori di Federal & Wolfe

Come guesthouse suggerisco la Cobden Garden Homestay a Napier. Non solo perché sembra davvero di essere rimasti agli anni Trenta, ma anche perché la padrona di casa si muove come una vera maga della cucina mentre il marito chiacchiera ravvivando legna nel camino (tutto quello che scrivo in questo post vale per l’inverno eh). La miglior colazione in tutta la mia Nuova Zelanda. E, francamente, l’immagine di Philip e Ryama che ci salutano dalla macchina augurandoci ogni bene non me la scorderò.

la cucina della Nuova Zelanda: super colazione a Napier

La tavola imbandita a Napier

Pranzo in un’azienda vinicola

Anche per chi non è fissato come me per il mondo enologico, difficilmente in Nuova Zelanda non passerà per una zona vinicola. E quello che ho visto nelle aziende è spesso straordinario: le tenute sembrano case da rivista, il vino è quasi sempre di altissimo livello e la ricettività è ottima, professionale e informale allo stesso tempo. In molte, poi, ho trovato i ristoranti migliori per pranzare e a prezzi un po’ di tutti i tipi (ovvio, economicissimi mai). E’ forse uno degli aspetti che più mi ha colpito in queste cantine, soprattutto rispetto alle nostre in Italia: il cibo e il vino sono legati strettamente e si valorizzano l’un l’altro. Per quanto riguarda il menù, una costante è stata la zuppa del giorno e pane fatto in casa da accompagnare a pepe e olio extravergine d’oliva (scoperta recente, ma molto valorizzata). Ecco un paio di indirizzi.

Isola del Nord- Hawke’s Bay. Black Barn Estate

Ci siamo arrivati di domenica, un po’ per il rotto della cuffia per l’orario, ma per fortuna siamo riusciti a provare questo ottimo ristorante della tenuta, vicino a Havelock North. Qui ho capito quanto la contaminazione con i sapori asiatici dia risultati eccezionali: il mio salmone con funghi shiitake, crème fraiche ed edamame faceva venire le lacrime agli occhi (come la vista sui vigneti, ognuno si emoziona come può). Ottimi ed elaborati pure e i dolci. Simpatica la degustazione dei vini e la visita nel bel negozio di artigianato e design per la casa.

Colori alla cantina Black Barn

Colori alla cantina Black Barn

Il salmone (crudo) strepitoso, da Black Barn

Il salmone (crudo) strepitoso, da Black Barn

Isola del Sud- Marlborough. Wairau River Wines
Uno stile diverso questa volta, in un locale bello, ma più informale. In questo caso abbiamo mangiato su tavoli di legno, sempre a fianco a stupende vetrate. Abbiamo ordinato la zuppa di cozze (chowder), favolosa con panna, scorza di limone, dragoncello, erba cipollina e perfetta con il Sauvignon blanc della casa.

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Pranzo con vista (e in Nuova Zelanda la vista è davvero spettacolare)

Il mio pranzo preferito dall’altra parte del mondo (se amate il pesce) è stato comunque molto diverso da quelli descritti finora. Siamo nell’Isola del Sud, nella East-coast, sulla strada panoramica che porta a Kaikoura, tappa obbligata per il whale watching. Qualche chilometro dopo avere lasciato il paese, sulla vostra destra troverete una roulotte dove viene cucinato l’astice. Non solo vi costerà molto meno rispetto a quello mangiato in ‘città’, ma gustare il povero crostaceo (che avrete scelto voi in base al peso) davanti all’oceano è stato incredibile. Inoltre con 20 dollari si possono anche aggiungere le buonissime cozze ‘giganti’ cotte nel vino bianco. Sui tavoli di legno bisogna sgomitare con i gabbiani imbizzarriti, ma ne vale la pena.

Ed ecco l'aragosta

Ed ecco l’aragosta

Tutt’altro sfondo, invece, sul lago Tekapo  all’Astro Cafè, bar che sembra un container se non fosse che le pareti sono vetrate. E c’è un motivo: la vista si perde a 360 gradi su colline lunari e il lago dall’acqua incredibilmente azzurra, quasi lattiginosa. Ma con i colori la natura in questo paese sembra sempre esagerare per stupire. Anche il cibo non è male: si vai dai panini alle fette di torta (come quella qua sotto). Ottima pausa anche solo per uno spuntino, ma che vento!

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Sempre come opzione pranzo, ovviamente non mancano i panini comprati per strada oppure le pie, pasticci di carne (spesso agnello) avvolti da pasta sfoglia che ricordano moltissimo quelli inglesi. Sono normalmente accompagnati da un purè di patate o zucca: sono ottimi per risparmiare un po’ e ben difficilmente dopo avrete ancora fame. I miei preferiti li ho mangiati a Murchison, paesino dallo spirito western della West Coast, al River Cafè. Per due porzioni di lamb shank pie, una fetta di torta salata, bibita e caffè abbiamo speso 36 dollari neozelandesi.

Se capitate d’inverno, poi, un panino fuori dal comune è quello con i bianchetti. Siamo sempre nella West Coast, dove impazziscono per questi pescetti (whitebait) e in stagione li servono dappertutto e a caro prezzo. Abbiamo trovato persino articoli sui giornali sull’inizio della pesca. Ma un sandwich con frittata di bianchetti in un bar di Hokitika costa pochi dollari.

La frittata di bianchetti

La frittata di bianchetti

La cena

Nel corso di quasi tre settimane in Nuova Zelanda abbiamo provato posti molto diversi, dall’etnico (giapponese, brasiliano e indiano, tutti ottimi), all’hamburger in luoghi dimenticati da Dio, alle zuppe liofilizzate in rifugio. Non ci siamo fatti mancare neanche la pizzeria italiana, a Te Anau: da Toni era l’unico posto aperto dopo le 21 e francamente l’unico difetto era il prezzo, più alto rispetto alla nostra media. Ma qui stiamo parlando di sapori neozelandesi e in generale tutti i ristoranti propongono pane e burro all’aglio, una zuppa del giorno, o di pesce o di legumi. Tanta anche la carne, dall’agnello al manzo (ma anche coniglio e anatra), spesso accompagnata da patate schiacciate o zucca. Nelle città ho trovato quasi sempre cozze o ostriche, di cui i local vanno molto fieri. E tanto fish and chips.

Pesce fritto da The crab shack (e dietro una zuppa di vongole), a Wellington

Pesce fritto da The crab shack (e dietro una zuppa di vongole), a Wellington

Franz Josef
In giorni di atmosfera cupa come quelli che abbiamo trovato nella zona del ghiacciaio l’Alice May è stato il rifugio ideale: caldo e simpatico. La donna che ha dato il nome al locale ha una storia speciale, a voi scoprirla sul posto. Abbiamo mangiato carne buonissima e il personale è davvero gentile: ci hanno portato il vino sbagliato, noi non  abbiamo protestato e loro, quando se ne sono accorti, ci hanno regalato una bottiglia. I neozelandesi sono così.

Citando la Routard, ecco lo speciale colpo di testa. Si chiama Ortega Fish e siamo a Wellington, la città più radical chic (vince facile), nonché capitale, della Nuova Zelanda. Questo locale è piuttosto piccolo, caldo, con luci basse. Il personale era un po’ più freddo del solito, ma c’è da dire che ci ho messo un sacco a ordinare e ho fatto diventare matto il ragazzo ai tavoli. E’ che era dura scegliere. Ora posso dire che è favoloso il ceviche di scampi, con avocado, coriandolo e lemongrass, davvero fresco e delicato. E poi i dolci; la crèpe all’arancia è stratosferica. Allora, festeggiavamo il compleanno di Patrick e ho voluto fare la splendida, ma occhio che sono partiti 170 dollari.

Finisco da dove sono partita, da Auckland. Cito un altro posto per amanti del pesce (ma ci sono anche gli hamburger), del resto la Nuova Zelanda è pur sempre un insieme di isole e la materia prima non manca. Allo Snapdragon ci troviamo al porto, in uni di quei locali hipster che mi piacciono tanto: pieno di legno, vinili e piante insomma. Siamo venuti per la nostra cena in questo paese fantastico, quindi difficile scordarla. Noi ci siamo lanciati sulle ostriche (costano molto meno che in Italia) e sul pesce con una specie di cous cous. Bella atmosfera e pochi turisti, ottima scelta.

Ostriche in Nuova Zelanda

Ostriche!

Verso Dubai

Un anno di viaggi: il 2015

Mancano pochissime ore alla fine del 2015. E’ un momento, questo, che di solito per me è un po’ inquieto fra scadenze e organizzazioni (sempre all’ultimo minuto) del Capodanno. Ma questa volta è diverso, perché l’anno che sta finendo mi ha regalato emozioni incredibili e ricordi indelebili. Ci  sono state luci e ombre come per tutti, ma l’intensità di certi giorni è stata davvero un regalo. In più ho realizzato un sogno: arrivare dall’altra parte del mondo, a respirare un po’ di libertà in Nuova Zelanda. Grazie 2015 e soprattutto alle persone che hanno “viaggiato” con me.

Le colazioni di Berlino

Febbraio- Le colazioni di Berlino

Titolo La prima volta nel Mar Rosso

Aprile- La prima volta nel Mar Rosso

 

sorsi di Toscana #castigliodellapescaia #igers #igerstoscana #vino #happiness

Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

countryside summer #dozza #imola #igersbologna #ig_bologna #igersemiliaromagna #panorama #countrysidelife

foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:

 

Amiche a Milano Marittima

Maggio- Amiche a Milano Marittima

Nell'Abel Tasman, in Nuova Zelanda

Settembre- Nell’Abel Tasman, in Nuova Zelanda

In Val d'Orcia

Ottobre – In Val d’Orcia

A Bangkok

Novembre – A Bangkok

Dal minuscolo paesino di San Giorgio, dove si cuoce il pane nel forno a legna e si fanno presepi di lana. La vista è questa #schenna #merano #altoadige #altoadigesüdtirol #meran #gewurztraminer #wine #vino #bicchieredivino #mercatinidinatale

Dal minuscolo paesino di San Giorgio, dove si cuoce il pane nel forno a legna e si fanno presepi di lana. La vista è questa #schenna #merano #altoadige #altoadigesüdtirol #meran #gewurztraminer #wine #vino #bicchieredivino #mercatinidinatale

Infine questa: la mia foto dell’anno. A Malpensa alla fine di agosto verso Dubai e poi verso la Nuova Zelanda. Il momento perfetto: storditi di felicità (e sonno) e avvolti dal calore di amici e parenti il giorno dopo il nostro matrimonio. Non stavamo per iniziare un viaggio come gli altri e lo sapevamo bene. Tre settimane facendo la cosa che amiamo di più: viaggiare insieme.

Verso Dubai

Verso Dubai

Buon 2016 a tutti, viaggiatori. Non conta la meta, ma la voglia di andare.

I libri del 2015

Il 2015 da sfogliare: i miei libri di viaggio

E’ la prima volta che scrivo di libri, ma mai come quest’anno mi sono dedicata alla lettura di viaggio e così eccomi qui. In questi mesi ho pensato che, prima di scrivere, a volte serve leggere chi la sua voce l’ha già trovata e quindi ho fatto scelte un po’ diverse sugli scaffali delle librerie. Poi, come al solito, le cose succedono un po’ prima che ce ne accorgiamo e, alla fine della fiera (e dell’anno), mi sono resa conto che quasi tutti questi libri erano scritti da donne. Nessuna scelta femminista consapevole la mia, ma forse qualcosa dentro di me mi ha spinta in questa direzione. Con l’eccezione di Paul Theroux, scrittore quasi mitologico per me.

Questi titoli di libri di viaggio dovevano essere consigli per i regali di Natale, ma sono arrivata lunga. Le parole, però, erano lì, in parte già scritte negli scorsi mesi, e dunque ecco il mio 2015 di libri.

Mangia, prega, ama. Una donna alla ricerca della felicità.

Senza Fondo, devi imparare a scegliere i tuoi pensieri, proprio come ogni giorno scegli i vestiti da mettere. E’ in tuo potere…. Il resto lascialo perdere. Se non domini i tuoi pensieri, allora sarai sempre nei guai.

Libri di viaggio: Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert

Mangia, prega, ama: dal libro di viaggio di Elizabeth Gilbert è stato tratto un famoso film

In Italia si impara il piacere, il prendersi cura gli uni degli altri, ci sono gli amici, il senso del bello. In India si esplora il fondo del proprio cuore, è una discesa verso il basso, ma alla fine si cacciano i demoni dei sensi di colpa. A Bali ci si riconosce e, con un po’ di fortuna, si (ri)trova pure l’amore. Questo il percorso di Elizabeth Gilbert nel suo racconto autobiografico: la storia della ricerca dell’equilibrio dopo un divorzio straziante e in quel periodo di svolta che sono i trent’anni. Ed è soprattutto un racconto di viaggio, durato un anno, fra paesaggi ed esseri umani, tutti con qualcosa da insegnare, per chi ha sempre voglia di imparare. Il film, che ormai avranno visto pure i sassi, è la classica pellicola americana ben fatta, ma fitta di stereotipi. Italiani che gesticolano, India un po’ per frasi fatte e Bali come paradiso hippy. Il trionfo del pittoresco. Il libro, invece, offre un sincero racconto di se stesse, dei momenti di crisi, della difficoltà di vivere una vita che ci somigli. E tutto anche grazie al viaggio, che aiuta, come dico sempre io, a ossigenare il cervello, a mettere le cose nella loro prospettiva più giusta.

Cosa mi ha lasciato questo libro. Che i periodi di crisi sono necessari prima delle grandi, positive trasformazioni. Dovremmo pensarci, ogni volta che ci sentiamo alla canna del gas. E che, certo, ci vorrebbero un lavoro favoloso e tanti soldi per realizzare un sogno come questo. Ma alla fine quello che serve davvero è una buona dose di coraggio: saremmo tutti in grado di fregarcene e partire?

Wild

Ero sola. A piedi nudi. Avevo ventisei anni ed ero orfana. Ero stata già tante cose. Ma una donna che cammina da sola in zone selvagge per migliaia di chilometri, non ero mai stata nulla di simile prima. Non avevo niente da perdere a provare. Guardai verso sud, al deserto da cui venivo, al territorio selvaggio che mi aveva temprata e bruciata, e considerai le mie opzioni. C’è n’era una sola, lo sapevo. Ce ne era sempre una sola. Continuare a camminare.

Reese Witherspoon in Wild

Reese Witherspoon nel ruolo di Cheril Strayed nel film Wild

E proprio la parola coraggio non poteva che essere l’inizio della riflessione sull’omonimo libro di Cheryl Strayed. Anche in questo caso ho visto prima il film, tratto da un volume che negli Stati Uniti è diventato in breve un bestseller. La pellicola è fedelissima al testo, rispettandone spirito e struttura a flashback. Se l’inizio dell’avventura per la Gilbert era tormentata, quella di Cheryl, è ancora più drammatica.

Il Pacific Crest Trail (Foto tratta da www.pcta.org)

Il Pacific Crest Trail (Foto tratta da www.pcta.org)

Il cammino, a piedi, lungo il Pacific CrestTrail diventa un’urgenza per superare, con la fatica fisica, un dolore devastante. La protagonista, che sente di non avere più nulla da perdere dopo avere dovuto dire addio alla madre, scomparsa bruscamente, compie una specie di espiazione percorrendo quasi 3mila chilometri con uno zaino enorme sulle spalle. Nella natura Charyl ricerca la bellezza perduta in un periodo buio della vita, fatto di eccessi e droghe (anche qui c’è un divorzio). Fino a capire che la vera sfida è proprio quella di vivere, nonostante tutto. Vivere anche per chi non c’è più, senza sentirsi in colpa. Sullo sfondo della rinascita interiore c’è soprattutto un paesaggio maestoso, che spazia dal deserto con i serpenti a sonagli, ai ghiacci, alle foreste. Panorami sconfinati, in cui gli uomini, camminatori, possono stringere incredibili rapporti di amicizia.

Cosa mi ha lasciato questo libro. Che in mezzo alla natura si impara a togliere il superfluo, i pesi che ci portiamo sul cuore, pensando solo a quello zaino che ci sfianca i muscoli, ma alleggerisce la mente. Nella natura si tocca il punto più profondo di sé: è un incontro ravvicinato che può sconvolgere, ma che prima o poi va fatto.

Clamore in Asia

In più occasioni la Città degli angeli mi ha regalato scoperte interessanti, e spesso inaspettate. In mezzo a quel guazzabuglio di grattacieli e sopraelevate, tra centri commerciali di lusso e inni alla modernità, edifici storici e templi sacri, mi sono ritrovata a sorridere con il cuore.

ebook di viaggio: La copertina di Clamore in Asia

La copertina di Clamore in Asia

Un assist imperdibile, per una storia più vicina a noi. Claudia Moreschi un giorno di novembre si è trovata su un aereo per Bangkok con in mano un biglietto di sola andata. E così in Asia – fra Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam – ci ha passato cinque mesi. Ma quel gesto, quello zaino fatto prima di partire per l’ignoto, non è frutto del caso, ma nasce da un atto di ribellione e da un senso di insoddisfazione che Claudia spiega benissimo nelle prime pagine. Dopo di che si parte assieme a lei, attraverso un racconto che si colloca a metà strada fra la guida, con molti consigli sui luoghi da visitare, e un diario carico di impressioni. Una buona lettura per chi ha voglia di scoprire il Sud est asiatico, ma ancora non si è deciso a partire e sdoganare, in un Paese come il nostro, che viaggiare da soli non è roba da svitati.

Cosa mi ha lasciato questo libro. Che non sempre certe cose capitano a scrittrici americane o persone molto distanti da noi e che tutti possiamo cambiare le regole del gioco. Destinazione paradiso diceva una canzone. Di certo, nel caso di Claudia parliamo di destinazione libertà. A volte non basta una vita per trovarla, quindi, francamente, non è una cosa da poco.

Nel bianco

Qui, al sessantesimo parallelo, affacciata sull’Oceano Artico in questo mese di aprile che in niente somiglia alla primavera come io la conosco, ho distanziato un sacco di cose, compresa me stessa, o almeno quella che credevo di essere. Perché ogni vero viaggio presuppone la disponibilità ad accettare l’imprevisto, qualunque esso sia, anche quello di non sapere più di preciso chi si era prima di partire.

Libri di viaggio: Nel bianco di Simona Vinci

Libri di viaggio: Nel bianco di Simona Vinci

Un altro viaggio in solitudine, perché la scrittura richiede silenzi. Quella di Simona Vinci è una sfida vinta con le proprie paure, ma forse non con la Greonlandia. Una terra dura, ai margini del nostro mondo, dove la fine dell’infanzia spesso apre inquietanti interrogativi sul proprio futuro quando si è circondati da una natura così ostile. L’autrice trascorre alcune settimane da sola in una cittadina raggiungibile sono in elicottero vivendo sulla sua pelle le difficoltà di comunicazione in un mondo in cui l’inglese è per pochi, l’alcol è un baratro in cui precipitano uomini e donne e le uniche chiacchiere si fanno con i medici all’ospedale. O in una scuola, incontrando i giovani del posto, quasi uniche voci in un’umanità congelata, come la natura circostante. Se il bello del viaggio spesso sono gli incontri, in Groenlandia gli Inuit sono un rebus, mentre la natura impone i suoi ritmi. Amo come la Vinci collega spazi apparentemente distanti: le bianche distese sopra il Circolo polare artico a tratti ricordano quelle della bassa bolognese, un  vasto orizzonte piatto. Sono collegamenti che zampillano sempre nella mia testa, ogni volta che sono in viaggio. Io che la casa me la porto sempre un po’ dietro.

Cosa mi ha lasciato questo libro.  La verità  è l’onestà del viaggiare, che non è sempre una bella parentesi, in cui tutto all’improvviso ci piace. Il viaggio è come il resto della vita, anche se vissuta per un po’ da un’altra parte, e alterna alti e bassi. Mi insospettisce chi torna dicendo che è stato tutto stupendo: è in qualche momento di insofferenza, di sconforto, di paura che iniziamo a scrivere le emozioni del viaggio dentro di noi.

La bastarda di Istanbul

Mentre camminavano su e giù per le stradine tortuose, ogni quartiere sembrava ad Armanoush così diverso dal precedente da farle pensare che Istanbul fosse un labirinto urbano, una serie di città dentro la città.

Ponte di Galata, Istanbul

Ponte di Galata, Istanbul (Foto di Patrick Colgan)

Esco un attimo dal seminato, ma forse neanche troppo perché Elif Shafak mi ha portato per mano nella sua Turchia, in un viaggio ideale nel suo mondo colorato tutto al femminile e nei miei ricordi legati a questa città emozionante. Di Istanbul si sentono i rumori, i profumi delle spezie, che danno il nome a ogni capitolo. E’ un universo al femminile, con protagoniste complicate, tutte parte di una stessa famiglia che si intreccia nel tempo e nella storia. Quattro piccole donne in una casa ottomana, in cui gli uomini muoiono presto e le mogli e le madri tessono i fili del destino. Il racconto si snoda fra i luoghi più suggestivi della città, fino agli Stati Uniti, passando per l’irrisolta questione armena. Variopinto, caotico, commovente.

Cosa mi ha lasciato questo libro. Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo. Non me la sono inventata io questa, ma è così. E il dramma umano si mescola a quelli della Storia. Ma la vita pulsa in questo libro a tratti ironico, a tratti amaro, e le radici, anche quelle scomode, sono fili rossi che ci  guidano anche nei peggiori labirinti.

Dark Star Safari

La parola swahili safari significa viaggio, e non ha nulla a che fare con gli animali; una persona in “safari” è semplicemente via, non raggiungibile e fuori portata. Ed essere fuori portata, in Africa, era precisamente quello che volevo. Il desiderio di sparire mette in cammino molti viaggiatori.  Se ne ha fin sopra i capelli di essere costretto ad aspettare, a casa o al lavoro, il viaggio è l’ideale: fai aspettare gli altri, una volta tanto.

La mia Cape Town

La mia Cape Town

Non posso non metterlo, è il mio libro dell’anno. Paul Theroux ha sconvolto per sempre la mia idea di viaggio e racconta in un modo così vivido e perfetto che mai come fra le sue righe mi sembra realmente di essere stata in certi posti. In questo libro lo scrittore attraversa l’Africa per il lungo: dall’Egitto a Città del Capo. In mezzo, spostandosi quasi solo via terra tra ambasciate addormentate e squallide frontiere, trova spazi sconfinati, meravigliosi  e struggenti e un’umanità disperata, a tratti dantesca, in cui non mancano incontri commoventi. La narrazione, in questo paese perduto, mantiene sempre una mano leggera, condita di una sottile ironia, anche nei momenti più drammatici.

Il viaggio di Theroux, compiuto in età già avanzata, si snoda anche nei ricordi: in quell’Africa lui ci ha vissuto, molti anni prima. Un paese che a tratti ritrova uguale e lo ringiovanisce, a tratti indietreggiato, cosa che lo riempe di frustrazione. Io che amo infinitamente la Mia Africa di Karen Blixen, ho trovato un modo diametralmente opposto (e non solo per il periodo storico) di narrare, con tratti quasi giornalistici e a volte supponenti, sempre di grande amore, questo travagliato continente.

Cosa mi ha lasciato questo libro.  Theroux si insinua nella vita di chi si credeva viaggiatore lasciando la convinzione di non avere capito niente. Dopo questo libro mi è cresciuta la voglia di attraversare le frontiere a piedi, di privilegiare gli spostamenti via terra, con i ritmi lenti. Certo, lui può allontanarsi da casa per mesi, pure anni, ma il concetto non cambia: il viaggio è fatto da uomini e incontri decisivi, che vanno accolti senza pregiudizi e mente libera, perché ci daranno insegnamenti importanti. Le persone come insegnanti, senza accorgermene sono tornata al primo libro della Gilbert.

Gli altri libri di viaggio consigliati dai blogger

(con l’hashtag #libriaNatale)

* I dieci libri di Trip or Treat?*

*I dieci libri di In ogni viaggio*

*I cinque libri di Mi prendo e mi porto via*

*I libri consigliati da Orizzonti*

Cinque cose da fare a Merano

In questo periodo Merano fa pensare soprattutto ai mercatini di Natale e in effetti anche io qualche giorno fa mi sono bevuta i miei gialli bombardini scegliendo qualche costosissimo regalino o ammenicolo casalingo e piangendo lacrime di coccodrillo dopo svariate fette di Sacher. Ma questo risvolto natalizio è solo una parte del mio quinto blitz in Alto Adige, in un angolo che continua a meravigliarmi. Forse sto diventando un’abitudinaria, ma mi piace avere un posto amico, di cui sto imparando a riconoscere i profili e che inizio a sentire famigliare. In più questa montagna che nasconde un’anima mediterranea per il suo particolare microclima è particolarmente adatta a persone come me, escluse dal popolo degli sciatori, ma amanti di passeggiate e ciaspolate, della storia e della buona tavola.

E mercatino di #natale sia. #rovereto #mercatinidinatale #trento #igerstrentino

Una foto pubblicata da letizia (@letidzia) in data:


A Merano la metà di dicembre è un periodo strano, perché in teoria siamo in alta stagione, ma di fatto fra il ponte dell’Immacolata e Natale c’è una specie di pausa in cui diversi alberghi sono chiusi. Moltissimi masi, poi, sono in attività soltanto in primavera ed estate. In questa mia ultima spedizione, tra l’altro, sono partita con i nipotini ed era importante fare cose semplici: la vera scoperta è stata che quelle cose, in fondo, erano perfette anche per me. Ecco dunque qualche consiglio su cosa fare a Merano se vi trovate nei paraggi in questo periodo prenatalizio. Per chi ha voglia di un ripasso, nelle puntate precedenti avevo già parlato del giro per cantine lungo la strada del vino (quello vale tutto l’anno) e il Salewa Base Camp a Merano 2000, punto di partenza per tutti gli impianti sciistici (questo è per i matti che vogliono dormire in tenda a 2.300 metri… come me!).

Dormire a Schenna

In realtà il nome italiano è Scena e mi piace molto perché esprime l’essenza del posto: quello di essere una specie di terrazzo aperto su Merano. Siamo a due chilometri dalla cittadina, ma di fatto si sale da 300 a 600 metri: dall’albergo in cui eravamo noi, proprio sotto il Castello, ci faceva costante compagnia una stupenda vista sul gruppo Tessa. Considerando che non c’era neve e il paesaggio aveva i classici colori invernali un po’ spenti, non oso pensare quanto sia bello nelle altre stagioni. In altre parole, era già tutto stupendo così, con cieli limpidi da sembrare finti, c non vedo l’ora di tornare con gli alberi da frutto in fiore o durante la vendemmia. Una delle caratteristiche principali, infatti, è che si è circondati a perdita d’occhio da frutteti e vigneti, attraversati da panoramici sentieri per passeggiate. Quella che porta a Merano, ad esempio, è semplice, ma si cammina in una pace interrotta solo dal suono delle campane. Di sera la vallata è punteggiata di luci: i paesini sembrano comporre un presepe permanente e l’atmosfera è fiabesca. Oltre la vista, le case affrescate e i balconcini di legno, poi, Scena è anche un po’ più economica di Merano, raggiungibile in autobus in un quarto d’ora. Anche la montagna fatta con i mezzi pubblici è stata una novità, ampiamente promossa.

Case parlanti a #schenna #merano #mercatinidinatale #altoadige

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A piedi fino a #merano fra le #vigne che dormono #schenna #meran #altoadige #altoadigesüdtirol #vino #wine

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Visitare San Giorgio

E’ la frazione di Schenna e di fatto parliamo di una manciata di case e pensioni che ruotano attorno alla suggestiva chiesa circolare di San Giorgio. All’interno ci sono affreschi medievali uniti a dettagli barocchi. Non credo ci sia luogo più suggestivo per una messa di Natale. Abbiamo avuto la fortuna di trovarla aperta in occasione dell’avvento contadino, una variante agreste dei mercatini. I prodotti erano esposti in una stalla, fra dolci e marmellate, mentre il pane veniva cotto nel forno. L’abbiamo mangiato caldo con un calice di vino affacciati sulla vallata baciata dal sole, stato forse il momento più bello. E’ un piccolo borgo che vale il viaggio.

Aspettando l’#inverno #altoadige #altoadigesüdtirol #schenna #merano #meran #nofilter #montagna #vitainmontagna

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Andare alle terme

Anche chi non ha la fissa del benessere avrà modo di ricredersi. Quelle di Merano sono fra le mie terme preferite, così racchiuse in una scatola di vetro: di giorno sono invase di luce, mentre la sera i toni sono soffusi e rilassanti. Amo molto le vasche all’aperto, con vista sulle cime. L’ultima volta i colori del cielo mi hanno ricordato quelli netti del presepe, quando cambiano dal giorno alla notte: il vapore che si alza dall’acqua calda verso il cielo che diventa viola è uno spettacolo che consiglio di vedere. Parlando di prezzi, per l’ingresso giornaliero ci aggiriamo sui 20 euro, esclusa la parte delle saune che va fatta senza costume e si paga a parte. In compenso ci sono sconti per famiglie. E’ importante portarsi tutto, dal telo alle ciabatte perché il negozio di costumi non è proprio a buon mercato.

Meraviglioso #termemerano #Merano #Italia #Italy

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Scoprire il Museo della montagna di Messner

Il nostro famoso scalatore, una volta finito di avventurarsi sulle vette himalayane, le ha ricreate a Castel Firmiano (siamo più vicini a Bolzano qui, ma ne vale la pena). Sembra che abbia cercato di catturare lo spirito della montagna, così lungamente cercato, per racchiuderlo in un museo in cui salire e scendere, come sulle vette. Il museo per altro è diffuso, dislocato in sei sedi fino al bellunese, ma quello che ho visto io, la montagna incantata, è davvero suggestivo. Tutta l’ambientazione, a tratti labirintica, a tratti all’aria aperta, ricostruisce la vita in quota: si trovano documenti di storia locale, anche sulla travagliata annessione di queste zone all’Italia, fotografie e strumentazioni alpinistiche. Molto belle le stanze che racchiudono statue buddiste di provenienza orientale. Un bel concentrato di montagna che indaga il rapporto dell’uomo con la natura. Sempre una sfida, a volte una conquista. E’ chiuso il giovedì.

#messnermountainmuseum #firmian in #bozen

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Mangiare alla Birreria Forst

Mi piace tornare in questo ristorante-giardino su Corso Libertà, tempio della birra locale. Si mangia in una veranda affacciata su un cortile fra le case tradizionali, con interi alberi fra i tavoli. Di sera l’atmosfera diventa più soffusa e ovattata, mentre di giorno è un posto adatto a tutta la famiglia o a gruppi di amici. Ho provato vari piatti fra quelli tipici proposti dal menù e i miei preferiti sono la rosticciata di patate e speck e il trionfale stinco di maiale con patate. Per gli amanti del genere, è davvero impressionante e perfetto con la birra della casa in edizione natalizia. Ci si aggira sui 30 euro a testa, ma i prezzi delle varie portate, alcune di selvaggina, variano molto. Sono tutte piuttosto abbondanti, una delle cose che ho più apprezzato la prima volta che sono andata, è che mi hanno frenato gli stessi camerieri nelle ordinazioni riportandomi alla ragione. Da allora scelgo con più cautela.

Cosa fare a Merano? Magari assaggiare la rosticciata di speck e patate!

La rosticciata di speck e patate

 

 

 

 

 

 

Angkor Wat al tramonto

Tre giorni fra i templi di Angkor

Un giorno, addentrandosi nella foresta, dove si faceva compagnia cantando tra sé e sé la Traviata, come racconta nelle sue lettere, Mouhot d’un tratto, in mezzo al fogliame fitto, sotto gli alberi giganteschi, si sentì guardato da due, quattro, dieci, cento occhi di pietra che gli sorridevano. Ho sempre cercato di immaginarmi che cosa avesse provato in quel momento; un momento per il quale era valso il suo viaggio, e la sua morte.

Tiziano Terzani, Un indovino mi disse

Volevo raccontare il cibo cambogiano (e lo farò), ma scorrere le foto dei templi di Angkor mi ha fatto cambiare idea. Quelle pietre parlanti hanno scompigliato le carte in tavola, mi sono rimaste così impresse, in quel gioco di rosa e verde scolpito dal tempo, che mi ritrovo invece a scrivere la mia esperienza nel sito archeologico. Anche se in certi momenti mi sono maledetta per avere deciso di visitare la Cambogia in soli sei giorni — di cui uno passato a navigare e uno in minivan per fare qualcosa tipo 400 chilometri — davanti allo spettacolo dei templi strappati alla giungla di Siem Reap non c’è stato un momento in cui io mi sia pentita della scelta. Ne valeva la pena eccome, perché, pur dovendo sgomitare tra i turisti e con le orecchie assordate dai clacson dei tuk-tuk, questi templi hanno una magia e un’imponenza che mai ho visto nella mia vita. Richiederebbero silenzio, un ospite sconosciuto da queste parti, per come lottano contro i secoli, semplicemente resistendo. Sembrano la porta di passaggio per entrare in un’altra dimensione, tra terreno e ultraterreno, fra presente e passato. Queste, insomma, le sensazioni generali, ma ecco come, nella pratica, abbiamo organizzato la visita.

I circuiti di visita

Il biglietto valido per tre giorni costa 40 dollari e consente l’accesso ai siti dall’alba al tramonto (circa le sei). In questo modo si possono visitare i templi in diversi momenti della giornata e coglierne le diverse sfumature di luce. E, più prosaicamente, si evita di stramazzare dal caldo sulle pietre dosando l’esplorazione dei monumenti. Dopo averci molto pensato, non abbiamo noleggiato la bici, ma abbiamo concordato il prezzo di 18 dollari per il primo giorno con Mister Rothmony, il driver di tuk-tuk suggerito dalla nostra guesthouse. Ho trovato il prezzo onesto, visto che si è rivelato gentile, affidabile e nelle scorribande fra le rovine ci teneva l’acqua in fresco in un piccolo frigorifero. Non siamo diventati fighetti, ma il caldo è davvero un inseparabile compagno di viaggio. Tornando a Rothmony, come molti guidatori di tuk-tuk è un personaggio interessante: fino a pochi anni fa si occupava di sminare le zone contaminate. Insomma, la sua nuova vita in compenso è una passeggiata. Da Siem Reap alla zona dei templi servono almeno venti minuti, un po’ di più se si è diretti al Grande circuito. A proposito dei circuiti. Noi ci siamo affidati alla guida Polaris specificatamente dedicata ad Angkor e alla Rough Guide (una new entry nella nostra libreria). Ne è uscita una buona sintesi, fra i dettagli approfonditi forniti da Claudio Bussolino (con stupende foto di Edoardo Agresti) e la lettura più agile della seconda: incrociando le dritte abbiamo dedicato la prima giornata al Grande Circuito, seguendo un criterio più o meno cronologico. Quella che segue è una selezione di alcuni templi, alcuni per altro famosissimi, ma che mi sembrano imperdibili, soprattutto quando il caldo vi farà sragionare insinuando la tentazione di mollare tutto (anche in questo il venticello che rianima appena saliti dal tuk-tuk invoglia rispetto alla bici, io avviso).

Avevo preso un tuk-tuk composto da una motocicletta e una piccola carrozza a due ruote. Era un mezzo di trasporto lento, arioso e tranquillizzante. Ong, il guidatore, non sapeva molto di Angkor,
ma mi portò in giro tutto il giorno.
(Paul Theroux, Un treno fantasma verso la stella dell’Est)

Le danzatrici apsara, Angkor Wat

Le danzatrici apsara, Angkor Wat (foto di Persorsi, 2015)

Primo giorno

I templi del Grande circuito sono anche i più antichi (alcuni precedenti all’anno Mille), per questo è una buona idea vederli per primi e andare in crescendo nella visita. Il modello è molto simile in tutti: vari recinti di pietra più o meno integri custodiscono le cinque torri (quinconce) tipiche dell’arte khmer per rappresentare il monte Meru, dove vivono gli dei. Prima si attraversano i resti di biblioteche per poi notare le prime decorazioni con motivi indù o le nicchie con le immortali danzatrici apsara. Questo è più o meno lo schema tipico dei templi, che però varia sempre, a seconda dei gusti del nuovo sovrano di turno che se ne faceva costruire uno personale. Il primo incontro è con l’affascinante Pre Rup, su cui si può salire e godere della vista sulla giungla circostante. La distesa verde a perdita d’occhio, animata dal canto degli uccelli, attorno a questi enormi blocchi di pietra è uno degli aspetti più toccanti della visita. Mi è anche capitato di risentire quell’insetto già avvertito nella giungla laotiana che produce un fortissimo ronzio. E’ impressionante come risuona nelle orecchie.

Il Pre Rup ad Angkor

Il Pre Rup (foto di Persorsi, 2015)

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In questa prima visita è affascinante anche il Neak Pean  perché si raggiunge da una lunga passerella sull’acqua (nella stagione delle piogge) e dà l’idea di come in passato moltissimi templi fossero raggiungibili solo in barca. Una volta sul posto non si vede moltissimo, se non un cavallo e i serpenti naga che affiorano dal bacino, ma resta una tappa suggestiva (specie nella stagione umida, quando c’è molta acqua). Segnalo in questo primo giro anche il Preah Khan. Si arriva da un ponte animato da demoni e dei alle prese con la zangolatura dell’oceano di latte (un mito ricorrente). Sembra che giochino al tiro alla fune con il serpente Vasuki, ma in realtà stanno cercando di recuperare l’amrita sul fondo del mare che dona l’immortalità.
Superata la balaustra ci si immerge in un labirinto di pietra. Fuori dalle porte e dalle cornici di finestre sbilenche incombono massi crollati e ci si addentra in spazi angusti fra raggi di sole abbagliante e coni d’ombra in cui i possenti muri assumono toni muschiati e verdastri. Difficile pensare a questi luoghi enigmatici e decadenti come a centri di potere in quelle città antiche. Ma le rovine sono trasformazione e questi posti diventano libri aperti sulla storia dell’umanità.

 Secondo giorno

Siamo partiti alle 4.45 dalla Guest house per raggiungere Angkor Wat, punto di partenza del piccolo circuito (che poi di piccolo ha il giusto visto che i templi sono moltissimi, benché più ravvicinati. In tutto siamo stati fuori più di sette ore). L’arrivo all’aurora, per quanto gettonatissimo dai turisti, conserva la sua magia. Si accede alla vasta area del tempio mentre gli occhi si adattano al buio. Lo spettacolo delle torri che si svelano pian piano mentre spunta il sole (alle spalle del complesso, rassegnatevi al controluce) è emozione pura. Il pubblico da stadio appostato con reflex, selfie stick e Gopro alle spalle, può irritare, ma non intacca la bellezza del luogo. Il tempio all’esterno è maestoso e surreale, uno di quei luoghi che incutono rispetto e in cui è difficile credere che ce la giochiamo tutta qui sulla terra la nostra partita.

Angkor Wat all'arrivo all'alba

Angkor Wat all’arrivo all’alba (foto di Persorsi, 2015)

La visita all'alba non è per pochi intimi

La visita all’alba non è per pochi intimi (foto di Persorsi, 2015)

Tempio che vai, spirito che trovi. Eccoci al Bayon, famoso per gli occhi di pietra che osservano il visitatore da lontano. Il posto ribalta la prospettiva: non sei tu a guardare il monumento, ma è lui che guarda che te. I sorrisi dei Lokesvara sono un rebus, ma infondono pace (se non fosse per le orde di turisti, in certi orari possono far venire un attacco di bile, soprattutto quando iniziano a sfamare le scimmie che vagano fra i sassi. Ma siamo turisti anche noi, è la regola del gioco. Questo è il tempio più scenografico, soprattutto quando si sale sulla terrazza e ci si trova a tu per tu con quegli occhi che scrutano, ma non giudicano. L’irreale è sconfinato nel reale, siamo piccoli, rispetto all’enormità delle domande.

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Al Ta Prohm cambia ancora l’atmosfera. E’ un po’ banale, ma rende l’idea: è il luogo che più evoca avventure alla Indiana Jones, fra liane e templi indiani maledetti. In realtà l’unico rischio qui è di trovare i famigerati pullman di turisti (e qualche zanzara). Nonostante il recente restauro, il sito è inghiottito dalla vegetazione e rende ancora più selvaggia l’ambientazione. E’ uno dei pochi templi in cui il percorso è obbligato, ma questo consente di passare per tutti gli scorci più suggestivi. Qui a dominare sono gli enormi alberi, fra cui i ‘fichi strangolatori’, che hanno scalzato con le loro radici le pietre secolari. Le hanno avvinghiate, come vene, come tentacoli, come lunghe dita. In alcuni casi le ramificazioni fanno parte dell’architettura, spesso sono vere e proprie architravi. Come al solito, ad averla vinta è la natura.

Ta Prohm

Ta Prohm

Ta Prohm

Ta Prohm

Terzo giorno

Nel nostro caso è stato po’ il ripasso. Dopo l’alba, questa volta siamo tornati al tramonto per vedere i siti con un po’ meno gente. Soprattutto il Bayon si era rivelato quasi inavvicinabile alle 9 del mattino e una seconda visita era necessaria, anche per cogliere il gioco di luce restituita delle pietre. I muri si colorano di una tonalità più calda, fra il rosa e il dorato, rispetto ai toni grigiastri e verdi delle prime ore del giorno. Come in un film già visto, si possono osservare meglio i dettagli: insomma, avendo tempo consiglio davvero un secondo passaggio per apprezzare al meglio questi siti così vasti da stordire il visitatore. Bisogna rinfrescare gli occhi per godere al meglio di questo spettacolo. Che  una volta entrato negli occhi, resta lì e non credo ne uscirà più.

Nel Bayon

Nel Bayon

 

 

Lanterne a tutto spiano

Le luci di Bangkok

Le imbarcazioni sul fiume

Le imbarcazioni sul fiume

Questa volta parto dalla fine. Dalle ultime ore del mio ultimo viaggio fra Thailandia e Cambogia un anno esatto dopo il Laos e il mio primo contatto con Bangkok. E proprio a Bangkok torno in questo post, una città che sono davvero felice di avere visto una seconda volta e di avere capito un po’ di più. La strada è ancora lunga in questa metropoli sconfinata, che non conosce mezze misure, ma anche grazie ad Andrea e Kevin e a piccoli e grandi viaggiatori, ho scoperto alcuni angoli che ho amato moltissimo. Del resto sono sempre i dettagli a fare la differenza e una passeggiata notturna nel profumato mercato dei fiori o una cena sul fiume in un localino illuminato dalle lanterne mangiando piatti che non so se sarei capace di riordinare sono proprio quei dettagli che cambiano passo al viaggio.

Ma torno a quell’ultima sera thailandese, l’ultima prima di andare in aeroporto. Il lato negativo è che abbiamo mancato la festa di Loy Krathong, (presente tutte quelle lanterne lanciate in aria o rilasciate in acqua?), per un pelo. Noi ripartivamo il 24 notte e la giornata clou era proprio il 25. Un effetto collaterale dei viaggi organizzati all’ultimo: sapevamo che saremmo andati in Cambogia via terra per raggiungere Siem Reap, ma su tutto il resto abbiamo improvvisato. E così ci è scappata la data. Ma qui arriva il lato positivo. Per tutti i giorni prima della festività che coincide con la luna piena fra i mesi di ottobre e novembre, infatti, a Bangkok hanno organizzato il Bangkok River Festival, articolato in alcuni luoghi della città, ovviamente lungo il Chao Phraya. E i punti cittadini sono fra i più suggestivi, almeno per chi come me Bangkok la conosce ancora poco, come il Wat Pho o il Wat Arun. Parto dal primo.

 

Ci imbarchiamo a Sathorn Taksin (quella con la bandiera arancione) e qui inizia lo spettacolo. Il fiume è inondato di colori. Barche di legno piene di luci collegano il molo e gli alberghi. Molti sono veri e propri ristoranti fluttuanti. Tutto questo mentre altre imbarcazioni legate alla festa, sette in tutto,  sfilano con tanto di musica a volume irragionevole. Da quello che ho capito, non conoscendo una parola di thailandese, uno speaker sulla riva le descriveva una per una. Sono realizzate da artisti locali e mescolano immagini allegoriche a quelle religiose, è uno spettacolo vederle sfilare avanti e indietro lungo il corso d’acqua. Nel giardino davanti allo stupendo tempio che ospita il grande Buddha sdraiato, aperto anche di notte per l’occasione (e l’opportunià di vederlo senza resse è stata preziosa e commovente), un’altra sorpresa: tanti piccoli stand con esposte tipicità thai. Ragazze in abiti tradizionali mostrano stupende composizioni floreali, piatti particolari, dolci. Mi ha ricordato quell’atmosfera di festa e condivisione che si respira nelle nostre sagre, anche se sotto questa lontana luna asiatica.

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Ma anche noi possiamo partecipare. Alcuni volontari della festa, infatti, invitano anche gli stranieri a realizzare i loro krathong. Piccole ‘imbarcazioni’ realizzate con materiali naturali, come foglie di banano e legno di cocco, che poi si riempiono di fiori gialli e viola. Ultimo tocco, incenso e una candela. In seguito questa vera e propria offerta al fiume, dopo una preghiera al Buddha, viene affidata allo scorrere dell’acqua. Realizzare la nostra, guidati dai ragazzi del posto, è stato davvero magico, anche se la festa vera e propria era il giorno dopo, ho sentito di fare anche io la mia parte, di viverla lo stesso.

Al Wat Pho

Al Wat Pho

Al Wat Pho

Al Wat Pho

Qui in realtà viene anche l’esperienza tragicomica, da aggiungere alla mia personale galleria intitolata ‘rispetto a me Fantozzi era un dilattante’. Potrei farci un post sulle mie perle in giro per il mondo, ma venendo a questo momento posso solo dire che, unendo foglie di banano con la puntatrice, sono riuscita nell’impresa di ‘graffettarmi’ (pinzarmi, come si dirà?) un dito. Ricordo solo il male incredibile e Patrick che, fulmineo, mi toglie in stile Jack Shepard di Lost il ferro dal dito prima di scoppiare a ridere. E i thailandesi sgomenti che, urlando, mi procurano in tutta fretta disinfettante e cerotti, pure quelli di scorta. Non credo abbiano mai visto una cosa così, ma magari si ricorderanno di me. Ho terminato comunque il mio krathong e l’ho accompagnato con lo sguardo fino all’ingresso in acqua. E’ stato indimenticabile e, se pure col pensiero fisso al mio dito, un momento magico per cui ho provato molta gratitudine.

Il mio sudato kratong (faccia un po' tirata post graffetta)

Il mio sudato kratong (faccia un po’ tirata post graffetta)

L'Ama

E, visto che ormai si era fatta ora di cena, ecco l’ennesima sorpresa. Proprio a un passo dal pacifico Buddha, sotto alcune di quelle case basse di Bangkok che mi piacciono tanto, ecco l’Ama, il posto perfetto per noi. Un incrocio colorato di atmosfera hippie e hipster: in due parole, insomma, il mio ideale. I ragazzi del locale erano tutti giovanissimi e i prezzi, poi, incredibilmente bassi. Il menù, semplicissimo, varia dal pad thai ai noodles, al curry. Io ho preso anche il mitico cocco, aperto per essere bevuto. Come spesso accade, il posto preferito lo trovi per caso. Un motivo in più per tornare.

Nel villaggio Maori

Nuova Zelanda: incontrare i Maori si può?

Una rappresentazione Maori

Una rappresentazione Maori al museo di Auckland

Fra le domande più gettonate al ritorno della Nuova Zelanda c’è questa: ma come sono i Maori? Seguita subito da una seconda: ma sono come gli Aborigeni australiani?  Confesso che trovo entrambi i quesiti un po’ strani, per due motivi. Il primo è che i Maori non sono qualcosa di avulso dal resto della popolazione locale: sono la popolazione locale, o almeno, gli abitanti arrivati per primi. Sull’altro punto, che dire: io in Australia ci sono passata solo per un giorno e davvero non so rispondere. Ma se il riferimento è l’isolamento di cui spesso si sente parlare a proposito degli Aborigeni, allora la risposta è no. Per i Maori non vale nulla di tutto questo. Anche se, è vero, non sono così numerosi come i neozelandesi di origine anglosassone e l’approccio con la loro cultura tradizionale spesso è filtrato da esperienze un po’ ‘turistiche’.

Quello che ho capito dei Maori

Gli antenati dei Maori sono arrivati in Nuova Zelanda circa mille anni fa. Sono partiti dalle isole del Pacifico e, a bordo di canoe, hanno seguito costellazioni e maree navigando controvento fino a quel nuovo paese così diverso, che hanno chiamato la Terra dalla lunga nuvola bianca. Questa frase, che sentirete ripetere fino allo sfinimento durante un viaggio in Nuova Zelanda, è proprio la traduzione della prima impressione avuta da quegli uomini venuti dalle Cook: Aotearoa.  Per loro le due isole si chiamano così. Eccolo quindi un primo contatto con i Maori: la loro lingua è molto presente e tantissime città o località portano il nome dato loro dalla popolazione autoctona. Ma dicevo che sono arrivati mille anni fa, per primi. Nella terra che hanno trovato, così vasta rispetto alle loro piccole isole nell’Oceano, c’erano solo piante e uccelli. Nessun mammifero, solo volatili dall’aspetto per noi oggi stravagante visto che erano quasi privi di ali. Del resto, non c’erano predatori da cui difendersi. Uno di questi è per l’appunto l’animale simbolo del Paese, il Kiwi: un ‘polletto’ notturno oggi protetto e tutelato che si può vedere quasi solo in centri di visita. La storia dei Maori continua indisturbata praticamente fino all’Ottocento, quando arrivarono gli Europei, soprattutto britannici e irlandesi. Dico solamente che il trattato di Waitangi, quello che doveva sbrogliare la questione della sovranità, è ancora controverso e proseguono anche in questi giorni le cause per nuovi affidamenti delle terre. Nel frattempo la vita va avanti e i maori oggi sono rappresentati in Parlamento (i seggi dedicati sono sei, ma non mancano i detrattori di questa regola) e hanno radio, televisioni e scuole in cui si porta avanti la loro lingua. Da quanto ho capito, questa valorizzazione non c’è sempre stata, ma negli ultimi anni il bilinguismo si è sempre più diffuso. C’è poi un’altra cosa: i Maori sono spesso protagonisti nello sport. Inutile ricordare il loro ruolo nel rugby, soprattutto quando si parla di All Blacks.

Dove incontrare i Maori

Per conoscere molti aspetti della cultura locale è piuttosto esaustiva la visita al Te Papa (che viene tradotto tipo scrigno del tesoro) di Wellington. All’interno del più grande museo della Nuova Zelanda, un’ampia parte è dedicata ai Maori e si trovano pochi, ma interessanti reperti. Come le pietre verdi, che hanno un significato profondo di legame con la terra e vengono raccolte dalle donne della famiglia. Le pietre chiamano, ci ha spiegato la nostra guida, e a quel punto vanno comprate (vengono lavorate nella costa ovest). Anche loro fanno parte di quegli oggetti che le donne conservano di generazione in generazione come filo rosso in una casa. E poi c’è un moderno Marae, la sala in cui si tengono tutte le cerimonie. Di solito si trovano nei paesi o villaggi e si può entrare solo su invito della comunità locale, ma questo del Te Papa è un’eccezione. In queste costruzioni, in cui vengono riproposti divinità e antenati della tribù, la gente si incontra per matrimoni, funerali o, ad esempio, quando qualcuno ritorna a casa dopo un lungo viaggio. Il senso di comunità è davvero fortissimo. Questo Marae colpisce per i colori sgargianti, un po’ kitch, ma mi è rimasta nel cuore la descrizione che ne ha fatto la nostra guida, metà maori. “All’inizio non mi piaceva, ma ora lo trovo bellissimo. Mi sento a casa anche quando sono lontana”. Sentirsi a casa da queste parti mi è sembrato un fatto cruciale. La casa è un tesoro, appunto.

Foto di tjrehmann (https://www.flickr.com/photos/trehmann/6599021529) Con Creative commonshttps://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/

Foto di tjrehmann, da Flickr – Licenza Creative commons

Anche alla Galleria Nazionale di Auckland ci sono reperti che ben illustrano la storia: a partire dai ritratti di Charles Goldie, a una stupenda canoa da guerra originale. In più, a determinate ore della giornata, si può assistere anche allo spettacolo di un gruppo di Maori: tra canti e una Haka, raccontano la mitica scoperta della Nuova Zelanda.

A Rotorua

Fin qui ho raccontato di esperienze ‘teoriche’. In effetti, per quanto i maori si incontrino per strada e in tante attività – ci sono anche aziende vinicole maori-, l’esperienza durante un viaggio di poche settimane è spesso costituita da visite guidate e contesti ‘turistici’. Il caso più rappresentativo è certamente quello di Rotorua, una zona sacra per la popolazione locale. Del resto la zona, attivissima dal punto di vista geotermale, non si fa mancare nulla in quanto a spettacoli naturali. In vari siti si cammina fra geyser, fumarole, pozze di acqua colorata (in base alle componenti chimiche) in un mondo surreale. Insomma, un luogo che sembra davvero dialogare con un mondo ultraterreno.

Rotorua

Rotorua

A Rotorua si può visitare un villaggio Maori ben ricostruito, il Tamaki: si parte verso il tramonto, a bordo di pullman, dove verranno spiegate dall’autista le regole di ingresso. Una volta dentro, si assiste in gruppi alle varie abilità tradizionali tribali: dall’arte di intrecciare felci, alla lotta. Poi si cena nel grande spazio comune assaggiando carne e verdure cotte in modo tradizionale (il famoso banchetto hangi), anche se i piatti restano spiccatamente britannici. Segue uno spettacolo musicale: i maori cantano straordinariamente bene e si accompagnano alla chitarra, di recente importazione, creando quelle melodie che fanno tanto Pacifico. Di queste rappresentazioni, che sono per altro piuttosto care (circa 90 dollari a testa tutto compreso, ma è praticamente la cifra standard in Nuova Zelanda), mi è rimasta soprattutto una cosa: come le persone coinvolte siano davvero entusiaste di quello che fanno. Mi è sembrato che, per quanto in un contesto molto turistico, siano davvero felici di far conoscere la propria cultura così unica, tenerla viva. Secondo me ci riescono.

Nel villaggio Maori

Nel villaggio Maori

Carne e verdure cotte in modo tradizionale sotto terra

Carne e verdure cotte in modo tradizionale sotto terra

Insomma, i Maori si vedono, si incontrano (a uno abbiamo pure rigato la fiancata dell’auto per sbaglio, l’ha presa bene), anche se fare la loro conoscenza è senz’altro più difficile rispetto agli anglosassoni. Quello che mi è rimasto, però, è che la parte forte, quella profonda, identitaria, della cultura neozelandese è sicuramente la loro. Viaggia parallela a quella portata dagli inglesi, ma quando si cercano radici e origini entrano in gioco loro. Basta visitare i luoghi più importanti (e non) per trovare ovunque pannelli ricchi di spiegazioni su come era vissuto quel posto dai Maori. Come dicevo, è molto probabile che il nome sia ancora quello dato da loro. C’è sempre una leggenda a spiegare meglio le cose: come il fatto che le insopportabili sandfly siano state mandate dagli dei per far ricordare agli uomini, circondati da tanta bellezza naturale, che erano mortali, non divini. A me questa cosa piace un sacco. Così come mi è piaciuto vedere, nella città simbolo dell’Art déco, Napier, anche i motivi maori sulle case anni Trenta. La loro presenza è sempre molto importante, la loro traccia resta anche in un Paese che sembra troppo giovane per avere memoria. E, anche grazie ai Maori, non è così.

Motivo Maori in un edificio Art déco

Motivo Maori in un edificio Art déco