E’ possibile che il posto del cuore sia anche quello di cui non ho mai scritto una riga? Come se quel luogo e quei giorni fossero rimasti a lungo a sedimentare, a vivere in uno spazio interiore. Poi un giorno, all’improvviso, devo scriverne, anche per non perdere quelle sensazioni così vive, anche dopo anni, nella mia testa. E quel giorno è oggi.
Sto parlando dell’Islanda, un viaggio che per me ha il sapore dell’incompiuto e chi mi chiama da un po’ di tempo per chiudere il cerchio. Quando sono stata la prima volta avevo a disposizione una settimana risicata, che è stata sufficiente per innamorarsi di questo paese, ma non abbastanza per sentirsi appagati. Ora so che tornerò, spero già quest’anno, ma intanto ecco la parte principale del mio viaggio, il Laugavegur. Quando mi avevano detto che era uno dei trekking più affascinanti del paese non sapevo bene cosa aspettarmi. Sono partita guardando le foto di Patrick, ma poco di più. Dopo una tappa a Reykyavik, città rilassata e giovane, e una nelle acque calde della Laguna blu, il cuore del viaggio sono stati quattro giorni in questa zona remota dell’Islanda, che sembra condensare nel giro di una cinquantina di chilometri tutti i paesaggi di quest’isola. Vulcani, fiumi, deserti, grotte di ghiaccio e vallate con colori che non sembrano di questo mondo. Ecco, l’Islanda è la porta d’ingresso di un altro pianeta, più giovane, fiabesco, ma anche un po’ incavolato.
Giorno 1- Landmannalaugar
Si arriva al rifugio dopo quattro ore di pullman da Reyakyvik. Tutti i passeggeri a bordo faranno trekking, si capisce bene dagli scarponi e dalle racchette presenti ovunque. Anche se è fine agosto, fuori non ci sono più di 10 gradi, ma su quell’autobus stipato fa caldissimo. Ho come al solito una certa paura per quello che mi aspetta: chi lo ha mai fatto un percorso così, di più giorni, dormendo in mezzo al nulla? Io non ho neppure mai avuto uno zaino, persino in campeggio ci sono andata col trolley, o un pile (se togliamo quelle cose incredibili degli anni Novanta). Il paesaggio conforta il giusto: l’autista indica un vulcano che nelle leggende è una porta dell’Inferno, Hekla, e attraversiamo cittadine che sembrano stazioni di servizio: i concetti qui coincidono forse. In lontananza c’è sempre del fumo che non proviene da fabbriche sparse, ma dalla pancia della terra. Ma avvicinandosi a Landmannalaugar inizio a scorgere le prime sagome su colline tondeggianti e verdissime: sono uomini con lo zaino, in un paesaggio fantasy. Al rifugio, dove ci sono anche delle piscine calde naturali (una favola per chi fa il sentiero in senso contrario), si lasciano i propri nominativi: si comunica a qualcuno, insomma, che si sta entrando nel parco. Un panino e si parte.
Il primo tratto è indimenticabile, soprattutto se si ha la fortuna di percorrerlo con il sole. Uno strappo in salita taglia un po’ le gambe, lo zaino inizia a essere un compagno scomodo, ma la strada è incredibile. Le colline sono morbide, sembrano ricoperte da uno strato di velluto. I colori si fondono come nella tavolozza di un pittore. Mi colpiscono soprattutto il rosa, ma anche il verde brillante e il grigio. Sul sentiero ci sono ancora tracce di neve, che si scioglie in fretta vicino a pozze di acqua che ribolle. Passo in punti vicini a queste ‘bocche’ e l’odore di zolfo è molto forte. Ci ho ripensato anni dopo, nella caldera di Santorini, camminando su un’altra terra nera. Il gruppo procede compatto, poi si sfilaccia e tedeschi e americani iniziano a scappare via. Io vado col mio passo, seguendo con lo sguardo le onde del sentiero, che è così bello da cacciare indietro ogni paura di non farcela. Questa prima tappa sono circa 12 chilometri, che scivolano via bene. Alcuni tratti sono completamente nella neve, mentre una spianata piena di rocce mi fa sobbalzare: c’è la tomba di un ragazzo morto in seguito a un repentino cambio di clima. Mi ricordo di quanto letto nella guida: qui può succedere in ogni momento. Dietro una curva, un po’ in basso, ecco il rifugio di Hrafntinnusker.
All’ingresso si lasciano giacche e scarpe, poi si accede al dormitorio. Nello stesso ambiente ci sono anche i tavoli per mangiare; la cucina è ben attrezzata, anche se ovviamente il cibo lo si porta da casa. Io mi aggiro con una polenta Knorr, un grande successo, anche se mi resta una gran fame: ma anche questa è la scuola del trekking. Così come il bagno all’esterno, con acqua rigorosamente fredda. Entro e studio la situazione, inizio a riconoscere alcuni camminatori che ho visto sul sentiero che ora esibiscono equipaggiamenti tecnicissimi. Io mi stringo nel mio pail rosa di Decathlon e mi faccio un tè sui tavoli fuori: davanti ai miei occhi la terra continua a fumare in un giorno che sembra non terminare mai. Il buio cala tardissimo, quando ormai dormiamo già tutti nei letti a castello.
Giorno 2- Álftavatn
Esco dal sacco a pelo controllando che il mio collo sia ancora al suo posto. Sono un po’ indolenzita, ma posso buttarmi sulla colazione. Ed è qui che entrano in gioco Bianca, Micheal e Katharina, tre tedeschi che diventeranno compagni di avventura fino alla fine del percorso. Bianca è una ragazza che viaggia sola – mi sbalordisce, poi negli anni mi sentirò io la strana a non averlo ancora fatto -, mentre gli altri due sono una coppia appena nata nella pancia di una nave partita dal Canada. Sono ricercatori e hanno fatto tappa in Groenlandia in un mare spaventoso (ma almeno è nato l’amore). E così lei, in jeans, l’ha seguito in questo trekking nel cuore dell’Islanda. E io che ci ho messo settimane a studiare cosa mettermi. Dopo avere preso il caffè (la scorta da casa di Nescafè si rivela presto un ottimo modo per fare amicizia), decidiamo di partire con calma e prima visiteremo la grotta di ghiaccio poco distante. Camminiamo su un manto innevato sotto un sole splendente: capisco solo dopo che eravamo proprio sopra la grotta, crollata (purtroppo ci fu una vittima) poco tempo prima. Ora sembra un orologio di Dalì sciolto e ripiegato su se stesso, ma resta un luogo potente, che incute rispetto. Il ghiaccio brilla e regna il silenzio, interrotto solo dall’acqua che ribolle nelle bocche della terra.
Ci rimettiamo sul sentiero principale e le colline intorno a noi sono ancora colorate, morbide e fatate. Non sembrano reali, mentre la fatica nei continui saliscendi è molto concreta. Ma questo percorso non è mai eccessivamente duro, anche se c’è un’insidia, cui penso fin dal mattino. Alcuni tratti vanno percorsi su piccoli ghiacciai: sotto quello che sembra un sentiero innevato, in realtà, ci sono alcuni metri di vuoto. Insomma, se quel misto di ghiaccio e neve decidesse di cedere proprio sotto i nostri passi, l’atterraggio non sarebbe di quelli morbidi.
Ma per fortuna tutto fila liscio e dall’alto iniziamo a vedere il rifugio sul lago: sembra vicinissimo, ma non sarà così, perché altre due ore ci separano dalla meta. La strada è quasi tutta in discesa e in alcuni punti le ginocchia vanno parecchio in crisi, fino all’arrivo nella vallata, dove sembra di camminare sul muschio. In Islanda più della metà delle persone crede che gli elfi esistano. Ecco, in quel tratto che ci separa dal lago inondato dalla luce dorata del tramonto, capisco perché. Dopo dodici chilometri entriamo in un rifugio nuovissimo: i soliti americani e canadesi sono già arrivati e stanno preparando da mangiare. Anche io non vedo l’ora, mentre i due tedeschi che viaggiano con me non temono il freddo e vanno a tuffarsi nel lago.
Giorno tre, Emstrur
Questo tratto del percorso è molto diverso dai precedenti. E anche il tempo è cambiato, purtroppo in peggio: nel giro di pochi chilometri dalla partenza inizia a piovere. Non è forte, ma comunque indossiamo i copripantaloni, mentre la terra inizia a diventare sempre più scura. Stiamo camminando in una zona vulcanica in un paesaggio particolarmente desolato. Anche nei tratti precedenti non abbiamo visto una casa e quasi mai animali (se non qualche pecora). Mai un albero. Anche in questo tratto silenzioso, interrotto da un fiume da guadare. Iniziamo tutti a toglierci le scarpe per passare, quando la fortuna si presenta sottoforma di autobus: incredibile, in questo tratto che passa più vicino alla civiltà passano addirittura mezzi a motore. Ci sbracciamo, l’autista capisce e ci tira su.
Dopo questo colpo di fortuna, deve arrivare pure la sfortuna, ovvio. Nel nostro caso si materializza come nebbia: una delle insidie peggiori durante questi percorsi. Per fortuna le pietre impilate come sculture orientali che segnano il sentiero sono ancora visibili, ma la strada diventa più spettrale, come la terra sabbiosa sotto i nostri piedi: è completamente nera. Inizio a valutare di ricorrere al gps: secondo i nostri calcoli dobbiamo avere già percorso i quindici chilometri previsti e non capisco dove sia il rifugio. Proprio mentre pensiamo di montare la tenda di Bianca, vediamo passare due figure nella nebbia. Sono altri escursionisti che ci svelano l’arcano: il rifugio l’abbiamo appena oltrepassato. Torniamo sui nostri passi ed ecco che scorgo tanti piccoli rifugi, proprio sotto la strada, completamente invisibili fino a poco prima.
Entriamo in una delle casette: la stanza è davvero piccola e mi colpiscono i vetri appannati per il cibo sul fuoco e il calore umano. Sotto le finestre c’è la cucina, un tavolo solo nel mezzo e su due pareti i letti a castello di legno. Per la prima volta sento la stanchezza, la mancanza di una doccia calda dopo quei chilometri nella nebbia. Mi infastidisce l’odore forte di quell’unico ambiente in cui si mescolano il sudore e l’odore del cibo che ognuno si prepara a modo suo. Le poltiglie chimiche degli americani, i pomodori e le cipolle degli israeliani, le polpette dei mici compagni tedeschi. Io ho la mia solita busta Knorr che mi pare il piatto più buono della terra. Ma la vita qui è fatta così, va presa per le cose semplici che si è chiamati a fare. Si cerca il proprio posto, si prepara da mangiare, si mangia, si lavano le pentole comuni e si va a letto. Intanto c’è qualche chiacchiera con i compagni di viaggio, ci si scambia impressioni su cibo e percorso. C’è sempre chi russa parecchio, ma in fondo, presto non lo si sente più.
Quarto giorno, Thòrsmörk
Partiamo alle sei perché vogliamo essere sicuri di arrivare per le quattro alla nostra ultima tappa. Da lì c’è poi chi prosegue per Skogar, la parte più impegnativa e potenzialmente pericolosa del percorso, ma per noi il cammino finisce a Thòrsmörk dove prenderemo un pulmann per tornare a Rykjavik. Per fortuna la nebbia sembra essersi levata, anche se il sentiero è ancora freddo e umido nelle prime luci dell’alba. E’ il tratto meno suggestivo di tutti, almeno fino al canyon che attraverseremo su un gioco di ponti. L’acqua romba dal basso: come sempre la natura parla a voce alta e mi fa sentire un dettaglio nell’ambiente circostante. In compenso, però, mi sento molto più forte di quando sono partita. Avevo paura di non farcela, di dover mollare tutto ad Alftavatn e invece sono quasi arrivata alla fine di questi cinquantacinque chilometri percorsi in mezzo alla natura selvaggia. Non l’avevo mai fatto prima, non l’ho più rifatto dopo. Ma in quel momento ho capito che bisogna sempre avere voglia di superare i propri limiti, in quell’anno della mia vita un viaggio così lo era.
Ci fermiamo per pranzare in un punto molto panoramico. Ad aumentare il solito senso di fiaba, vediamo i primi animali da giorni: ci vengono incontro dolcissimi cavalli. Sono più piccoli del normale e hanno una criniera particolarmente lunga e folta, sembra una chioma di capelli. Sono bellissimi, creature magiche. Scambiamo due parole con l’uomo che guida la fila e ci prepariamo alla parte più impegnativa: un altro fiume da guadare, il più grande di tutti con una corrente forte. Io sfodero i calzini in neoprene e i sandali di gomma comprati per l’occasione: l’acqua è gelida, punge e mi aiuto con la bacchetta per non scivolare. Katharina deve togliersi i jeans per non inzupparli e passa a gambe nude e con le infradito. Non lo consiglio, ma si può fare. Dopo questo simbolico passaggio si scivola verso la civiltà. All’improvviso compaiono gli alberi, ritorti, poi ci addentriamo in un vero e proprio bosco. Siamo vicinissimi al vulcano Eyjafjallajökull, quello che qualche anno fa bloccò i cieli europei per settimane dopo la sua violenta eruzione. E infatti sul sentiero ci sono pannelli con tutte le indicazioni da seguire nel caso in cui il vulcano decida di risvegliarsi. Ricominciamo a sentire gli uccelli cantare, fino al rifugio, un luogo idilliaco, in cui ci aspettano altri mansueti cavalli. E’ la fine del percorso. E’ un momento di pura felicità per la sensazione di avercela fatta e per la bellezza di quel percorso un po’ fiabesco che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Informazioni utili
Il percorso escursionistico del Laugavegur si percorre normalmente da giugno ad agosto. A suo tempo ho visto che fino a settembre si riesce a dormire nei rifugi, ma non c’è più il guardiano che si occupa del riscaldamento. In generale, non sfiderei il clima islandese, che non lesina sorprese. I tre rifugi di cui parlo nel post sono stati prenotati prima via mail, pagando in anticipo. E’ decisamente opportuno farlo perché i posti non sono mai tantissimi (circa 60), poi ovviamente si può anche campeggiare con la propria tenda subito all’esterno (è vietato, invece, il campeggio libero durante il percorso). I rifugi hanno una cucina attrezzata e l’acqua è sempre potabile. In compenso ognuno si porta il suo cibo e se ne va con la spazzatura che ha prodotto (è importante saperlo per organizzare i bagagli, non ci sono bidoni sul sentiero). Capitolo bagni: sono sempre esterni, con acqua fredda, e la doccia è a pagamento. Detta così sembra l’inferno, ma per tre notti fuori vi assicuro che si può fare.
I bagagli. Io avevo uno zaino molto leggero (5-6 chili) perché il male al collo è una croce che mi porto dietro da anni. Avevo un sacco a pelo di Decathlon leggerissimo, tanto i rifugi sono riscaldati. Ho portato anche un cuscino ripiegabile, un asciugamano in microfibra, sandali di gomma, calzini in neoprene e un cambio di maglie e biancheria. Per camminare, a fine agosto, ho usato un pail, un wind stopper e una giacca a vento in goretex. Fondamentali gli scarponi, sempre in goretex: i miei sono della Aku, marca che consiglio vivamente, non ho mai visto una vescica. Servono anche guanti e cuffia per quando non c’è il sole e, ovviamente, una copertura per lo zaino in caso di pioggia. Non scordate la crema solare, le bacchette (o racchette) e una pila frontale.
Capitolo alimentazione. Io non ho scelto i cibi più tecnici, che si trovano però nei negozi a tema, ma cose molte semplici, come il cibo liofilizzato Knorr. Insomma, presente quelle polentine o risotti che molti di noi conoscono fin dall’infanzia? Ecco, sono leggeri e comodissimi. Utilissime anche le piccole confezioni di Parmigiano, pacchetti di krackers e brioches da riempire di Nutella la mattina (avevo i pacchettini piccoli che a volte danno al ristorante, presente?). Vale la pena portarsi il thermos, fare pause lungo il percoso con il caffè solubile è rigenerante. Ovviamente non possono mancare frutta secca e borracce (o camel back).
Il percorso. I 55 chilometri canonici si possono percorrere su 3 o 4 giorni, a seconda di fermarsi o meno ad Hraftinnusker. Secondo me conviene dormire tre notti fuori per non correre eccessivamente e godere anche del paesaggio. Il percorso che parte da Landmannalaugar è quello più consigliato visto che l’ultimo tratto è leggermente in discesa. Volendo si può anche camminare fino ad Alftavatn e farsi riportare indietro. Se proseguite fino a Emstrur, invece, poi dovete farvela tutta a piedi fino in fondo.
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