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Due giorni nelle Langhe

Colline con alle spalle montagne innevate da cartolina. Sembrano quasi un mare i filari che si inseguono in ogni centimetro libero di terra. Castelli che escono dal passato e sovrastano piccoli borghi, ma che appena cala il sole si confondono nella nebbia. Le Langhe per me sono di colore giallo, come le foglie del Barolo, e rosso (quelle della Barbera), con i pampini incendiati dall’autunno. Ma, anche se ho visitato questo fazzoletto di basso Piemonte solo in novembre, scommetto a occhi chiusi che è uno di questi posti che dice la sua tutto l’anno. Deve essere bellissimo con le viti rigogliose e cariche d’uva d’estate, così come sotto la coperta bianca dell’inverno. Prima del corso dell’Ais, la provincia di Cuneo non mi aveva mai detto granché, nocciole a parte. Poi ho scoperto il Barolo e le Langhe sono diventate una tappa vinicola da conoscere al più presto. E così è stato.

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In realtà, il mio primo contatto con la zona risale alla maturità, quando mi sono trovata sotto il naso il prologo de La luna e i falò di Cesare Pavese. E con lui, luoghi come Bra, Barbaresco, Asti. Non conoscevo nulla di questo autore che spesso resta ai margini dei programmi scolastici, ma quel testo mi piaceva così tanto che scelsi comunque questa traccia (e andò bene, evvai). Quello che voglio dire è che queste colline, che oggi sono tempio del vino, ma ieri teatro della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza, parlano da decenni attraverso la letteratura. E così il primo incontro lungo la strada, oltre che con Asti e la sua zona… spumeggiante, è proprio quello che si fa con il borgo di Neive, piccolo, ma ricco di palazzi storici dei Sette/Ottocento e uno spirito già montanaro. Per chi ama la narrativa del 1900, a pochi chilometri c’è anche Santo Stefano Belbo, descritto nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Insomma, c’è decisamente da nutrire spirito e non solo, visto la bontà della cucina locale (un po’ meno per i vegetariani).

Saggezza a Neive

Saggezza a Neive

Cosa vedere

Noi abbiamo deciso di concentrarci sulla zona del Barolo, intesa in questo caso come luogo di produzione della Docg. Mi riferisco a quella manciata di borghi e comuni, in cui l’uva Nebbiolo raccolta in vigna, dopo un riposino di almeno 36 mesi, si risveglia con il nome di Barolo. E questo può accadere solo qui, nel giro di pochi chilometri. Noi ci siamo fermati a Serralunga d’Alba, paese sovrastato da un castello e che mi è rimasto impresso per la forma circolare: in cima al borgo i tetti formano una chiocciola avvolta dai vigneti.

Serralunga d'Alba

Serralunga d’Alba

Cuccuzzulo simile anche a Monforte d’Alba, con un grazioso centro storico e a La Morra, con gli incredibili scorci sul Monviso. Dal parchetto più scenografico che abbia mai visto (ve la butto là se viaggiate con prole) sembra di sfiorare con la mano le cime innevate delle Alpi.
Sempre in questo comune si trova anche la curiosa cappella di Sol Lewitt e David Tremlett, una botta di colore abbagliante. Si tratta di una chiesetta sconsacrata che i proprietari dei terreni hanno commissionato ai due artisti, che, mi sembra, hanno giocato comunque con i colori della natura circostante: il rosso, il giallo e il  verde delle vigne e l’azzurro del cielo.

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Poi c’è Barolo, la mia tappa preferita. E dire che all’inizio non ci volevo neppure andare. Sarà troppo turistico, mi ero detta in un impeto snob. Per fortuna Patrick mi ha riportata alla ragione e alla fine abbiamo passato ore nel borgo-simbolo del vino locale. Perché vale la pena andarci. Per fare tre/quattro assaggi nell’Enoteca Regionale del Barolo, ospitata nelle cantine dello stupendo castello. Con una tessera magnetica potrete scegliere fra alcune etichette di Barolo, divisi in base alla sottozona di provenienza, con relative spiegazioni. Manca forse un po’ di contatto umano, ma se ci si capisce qualcosa e si ha con sé una buona guida (non le ho trovate all’interno), è molto piacevole sedersi e degustare in santa pace. L’ultima sezione è dedicata alle annate più vecchie, da provare per capire l’evoluzione di questi tannini così indisciplinati.


Questo sotto, mentre ai piani alti del Castello dei Falletti, si trova il Museo del vino (WiMu). Anche qui la sorpresa è stata grande, perché l’esposizione è bella, divertente e istruttiva. Ogni sala dei tre piani è dedicata a un aspetto del vino dalla storia, al valore culturale, al lavoro in vigna. Un viaggio che non affronta tanto i lati tecnici/qualitativi del vino locale, quanto quello emozionale. In generale, fra giochi di luci, di suoni e momenti interattivi, quello che viene presentato è soprattutto il vasto immaginario che il mondo enologico si porta con sè. Bella anche la parte finale sulla storia del maniero e di Juliette Colbert, una donna che si è impegnata moltissimo per aiutare le altre donne, quelle più sfortunate, del suo tempo. Per una visita calcolate almeno due ore.

E poi, borghi a parte, la cosa più importante da fare è semplicemente guardare. Che sia da un finestrino o in sella a qualunque mezzo, queste colline vitate, così interpretate e modificate dall’uomo, sono il vero spettacolo da non perdere. Se non per infilarsi in qualche cantina.

Cosa bere

Inutile dire che le aziende vinicole sono ovunque, a ogni curva, sia dentro che fuori i paesi (in questo senso mi ha ricordato la Borgogna). Fra le uve, la star qui è il Nebbiolo, ma non solo. Anche Barbera, Bonarda e Dolcetto sono uve simbolo, così come, nell’universo dei bianchi, l’Arneis (interessante anche la Nascetta). Generalmente i produttori incontrati sono stati molto gentili, ma è ovvio che in due giorni la nostra lista non è stata lunghissima. Consiglio di prenotare prima, perché queste sono vere e proprie aziende sempre al lavoro e può capitare che se piombate all’improvviso in certi orari i titolari non abbiano tanto tempo da dedicarvi. In questo sito potete trovare già molti indirizzi, con relativi orari. Nei casi di aziende più grandi, sarà più curato l’aspetto della degustazione, con un servizio ad hoc. Nelle altre… beh chiamate. Faccio tre esempi di situazioni completamente diverse che potete trovarvi davanti.

1) Gigi Rosso. Il tradizionale

La cantina si trova a Castiglione Falletto ed è una realtà storica del territorio, che si tramanda da generazioni. Ci siamo presentati a sorpresa e il titolare ci ha gentilmente improvvisato una degustazione delle sue principali etichette, tutte impeccabili. Ci ha spiegato, con mappa alla mano, le differenze fra le zone e i disciplinari di produzione. Sapido e profumato l’Arneis e decisamente per appassionati del genere il Dolcetto, particolarmente corposo, con la sua bella scorta di tannini. Noi abbiamo comprato due bottiglie, ma non ci era stata fatta nessuna richiesta da parte del produttore: non è una cosa da poco qui. Non credo di esagerare se dicessi che un giro per cantine nelle Langhe dovrebbe iniziare da qui per farsi un’idea chiara dei vini locali, con un buon rapporto qualità/prezzo. Ah, c’è anche un agriturismo.

2) Flavio Roddolo. Il contadino

Non so se è la parola più corretta, ma è la prima che mi viene in mente se penso alla nostra visita alla cantina di quest’uomo ruvido, ma gentile, di poche parole, ma di molti fatti. Con il suo viso segnato del tempo mi è sembrato un anello di congiunzione fra noi e la terra e quei filari che conosce uno a uno. E’ l’espressione dell’uomo nato in Langa, forse, che sa che il vino viene buono in vigna, non (solo) in cantina. O almeno così mi è parso mentre ci indicava i ‘bricchi’, le varie tenute, aziende legate al territorio da sempre, dalla cima della sua.
Abbiamo telefonato in mattinata e siamo riusciti a strappare un appuntamento alle 17. Da quello che abbiamo visto dopo è stato un mezzo miracolo, perché Roddolo si affida ancora a un vecchio telefono fisso (di quelli grigi che una volta avevamo tutti in casa) e risponde solo se ha tempo (o se gli va). Nessuna segreteria, pochi aiuti e se è impegnato in cantina (“dove serve concentrazione, devo pensare su quello che faccio”) chi lo becca più. Ci ha guidato in modo asciutto fra le botti della cantina, presentandoci tutti i suoi vini con generosità, riserve comprese. Mi sono sembrati vini perfetti, in cui il tannino di queste uve è sempre giustamente addomesticato mentre i profumi inebriano il naso. Interessante anche il Bricco Appiani, un suo esperimento fuori zona a base di cabernet sauvignon (quattro viti nella guida dell’Ais 2016 per la bottiglia del 2008, comunque). Siamo usciti dalla cantina che era buio, scaldati dai 7 stupendi vini appena assaggiati, che fanno sciogliere anche la conversazione. In quell’ambiente spoglio ed essenziale, infatti, si è parlato dell’elezione di Trump, di cellulari e dei nuovi ricchi stranieri che comprano i vigneti. “Non si devono perdere le radici”, ha scosso la testa Roddolo. Lui che più di ogni altra persona mi ha trasmesso l’idea di essere tutt’uno con un luogo.

3) Fontanafredda. Il red carpet

Ma non lo dico mica con un’accezione negativa. Anzi. In questa enorme azienda che produce ogni anno circa 6 milioni di bottiglie e che ha praticamente la stessa età dell’Italia la visita è un vero piacere. Certo, lo spirito è di tutt’altro tipo e lo sicoglie subito entrando nella reception che è anche libreria e ristorante Eataly. Oscar Farinetti, infatti, è uno degli azionisti principali di questa realtà, che ha riscattato da qualche anno anche lo storico marchio Mirafiori, ceduto alla Banca Monte dei Paschi di Siena all’inizio del secolo scorso. Beh dicevo, noi abbiamo prenotato per la visita guidata delle 15.30, durata un’ora e mezza abbondante, passando per gli alloggi dei dipendenti, il ristorante stellato Guido, fino alla cantina. Anzi, più cantine, visto che ci sono ancora quelle reali, in una perfetta miscela di storico e nuove tecnologie. Poi si passa alla degustazione guidata di tre etichette (con un unico biglietto a 15 euro) nel piccolo anfiteatro predisposto per gli eventi: nel nostro caso abbiamo assaggiato un’Alta Langa (spumante metodo classico, in versione rosè), una barbera e un barolo (ancora giovincello). Tutto bello, di qualità e professionale. Un po’ più freddo, questo sì.

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Dove mangiare

Non avrete che l’imbarazzo della scelta, la cucina qui è molto tradizionale e, se amate il tartufo bianco, nella zona di Alba non potreste chiedere di più (una ‘grattata’ mediamente costa 35 euro). Noi abbiamo fatto scorta di vitello tonnato e tartare di manzo (serviti qui come antipasti), ma anche delle due paste tipiche, i ravioli dal plin (ripieni di carne) e i tajarin. Per i più impavidi c’è anche sempre la bagna cauda. Segnalo qualche posto: tutti sono facilmente reperibili sulle guide, mi limito a confermare che in effetti sono buoni e, per un pasto con un calice di vino, si spende circa 25 euro.

A Barolo abbiamo mangiato benissimo nel winebar Barolofriends: in posizione centralissima, proprio sotto il castello, è molto gradevole anche all’interno. Ottimi piatti anche nella frequentata enoteca More e macine a La Morra e alla Cascina Schiavenza di Serralunga d’Alba: un posto più tradizionale, ma di grande qualità.

Giappone con bambini

C’era tantissima curiosità – fra amici, parenti e colleghi – su questo nostro viaggio in Giappone con bambini. Sto parlando di Diego, 3 anni e mezzo, e Alice, 15 mesi, i miei nipotini. Da tempo con mia sorella avevamo immaginato di partire assieme e a un certo punto abbiamo fissato sul calendario una data: ottobre 2016. E così è stato. Anticipo subito che è andata benissimo: i bambini sono stati bravi e adattabili, mentre i genitori sono candidati all’Oscar per la sportività (e sono la dimostrazione che viaggiatori si è nella testa e non conta quanti biglietti aerei si comprano in un anno).

Ma ammetto che gli interrogativi all’andata erano tanti. Per me e Patrick dal punto di vista organizzativo: in che tipologia di posti pernottare, come regolarsi fra seggioloni nei ristoranti e pannolini.

C’era poi l’incognita dell’alimentazione e anche dell’itinerario, come trovare la quadra fra vedere più cose possibili, senza cambiare continuamente alloggio carichi di armi e bagagli. Su Internet abbiamo recuperato alcune informazioni prima di partire, ma la verità è che solo sul posto si trovano le risposte alle tante domande. E, assicurandovi che le creature si sono più che sfamate e al netto di qualche caduta di faccia (ma quella sarebbe successa ovunque, se le piccole pesti corrono alla velocità della luce in strada o in metro), credo che la meta sia più che consigliabile.

Ecco qui, dunque, un piccolo manuale di sopravvivenza realizzato dalla zia-blogger, organizzato per punti. A parlare è direttamente mia sorella Lia, con alle spalle viaggi in Europa e negli Stati Uniti, ma alla sua prima esperienza in Asia con prole a seguito. Prima di far parlare lei, faccio solo una premessa: i bambini, anche se alla loro prima volta in un viaggio così lungo, sono abituati a girare, a dormire fuori casa e ad assaggiare i cibi (poi vabbè, la pizza è la pizza).

giappone con bambini

Che volo scegliere e quanto costa

Il primo consiglio è di optare per un volo notturno e con pochi scali. Noi siamo partiti da Istanbul alle 23.30 con la Turkish Airlines (costo sui 550 euro, circa un terzo di meno per Diego). Se riuscite, al momento del check-in prenotate i posti in corrispondenza delle uscite d’emergenza, ma nella fila centrale, in modo da avere più  spazio. Per bambini fino agli 11 chili è disponibile anche una culla, ma lì bisogna vedere quanto è ‘lungo’ vostro figlio (nel nostro caso, ad esempio, Alice non ci stava e i genitori l’hanno tenuta in braccio per tutto il volo, ma noi siamo una famiglia di watussi, ndr).

Come compagnia ci siamo trovati globalmente bene, ma il menù per bimbi era adatto fino a un certo punto ed è stato utile avere portato qualcosa da sgranocchiare. Nel volo d’andata ci hanno dato omogeneizzati e latte al cioccolato,  ma al ritorno ad esempio no. Davvero carini, invece, i kit in regalo per i più piccoli.

Per quanto riguarda il passeggino, lo si può portare fino alla porta dell’aereo, nel finger, e lo si riprende quando si scende. A Osaka ce lo hanno fatto trovare già fuori, impacchettato, e con il nostro nome. Nello scalo, da Bologna a Istanbul nel nostro caso, bisogna ricordarsi di prenderlo. Ps. si comprano delle sacche apposite da viaggio in cui riporlo.

giappone con bimbi: i gadget in volo

I gadget della Turkish Airlines

Giusto, e i bagagli?

Noi ci siamo trovati bene con il passeggino leggero e l’onbuhimo,  una sorta di zainetto morbido. Nel caso, come il nostro, in cui i bambini siano due, è utile anche avere anche la pedanina che si attacca al passeggino visto che si cammina sempre molto. Rispetto ai trolley (che comunque avevamo) sono molto comodi gli zaini, soprattutto per i frequenti passaggi nelle stazioni. Noi ne avevamo uno anche per il cibo che avevamo portato dall’Italia.

In generale, il consiglio è di stare leggeri il più possibile in particolare per le molte stazioni e per le scale che sono ovunque, anche in alberghi e ristoranti (e spesso molto strette e ripide). E poi perché le case sono sempre molto piccole, soprattutto una volta che avrete srotolato i futon in quelle tradizionali. In compenso spesso c’è di tutto, come microonde e phon, quindi è stato possibile cuocere la pasta in casa. Se non volete portarla da casa, calcolate che un pacchetto da 250/300 grammi di Barilla costa intorno ai 2 euro (più economica quella giapponese) e comunque si acquista nei supermercati un po’ più  grandi.

Passeggino con Buddha

Passeggino con Buddha

Ecco un tema chiave: il cibo

Contrariamente a quanto ci si aspetti, in ogni ristorante, anche il più piccolo e imbucato, ti danno piattini e forchette per i bambini. Dall’impressione che abbiamo avuto, non sembra che i giapponesi  portino molto fuori i bambini a pranzo o a cena, ma c’è attenzione ai figli dei turisti (poi è ovvio che siamo stati in località molto note, non in angoli sperduti del paese). Noi abbiamo provato tutte le tipologie di locali e qualcosa da mangiare per loro l’abbiamo sempre trovata: dipende però se avete bambini abituati ad assaggiare anche a casa. In generale, mi aspettavo più sussiego nei nostri confronti, che non c’è mai stato.

In izakaya

In izakaya (con la guida dei Viaggiautori)

Qualche esempio di cibo. I tagliolini del ramen, tolti dal loro brodo che è molto grasso. Il tonkatsu, la cotoletta di maiale e  gli yakitori (spiedini di pollo) nella versione più  semplice, tipo polpettine o petto. E poi ancora, insalata di patate (ad esempio nelle izakaya, poi sotto specifico qualche indirizzo), crocchette di pesce o di patate, okonomiyaki, gyoza. Diego si è anche molto divertito a mangiare con le bacchette (e voleva usarle anche una volta tornato a casa!). In particolare loro andavano matti per gli edamame, i fagioli verdi di soia serviti ovunque, e i panini ripieni di azuki, i fagioli rossi. Questi ultimi si possono comprare nei tanti negozi stile boulangerie.

Insostituibili i combini, Family Mart e 7 Eleven sono i più diffusi, in cui si trovano latte, yogurt, pannolini, succhi di frutta porzioni di ciambella, banana bread e biscotti (con date di scadenza molto ravvicinate, quindi con pochi conservanti).

Per quanto riguarda quello che mi ero portata dall’Italia, avevo pasta, qualche sugo pronto,  mono-porzioni di olio, biscotti e omogeneizzati di frutta: possono essere utili, ma non ho usato tutto. Tornando invece ai ristoranti, non ci sono stati  problemi con il fumo (in Giappone è consentito fumare nei locali), anche grazie ai separè. E’ vero che gli spazi sono sempre piuttosto piccoli. Ma queste mini-sale ci hanno permesso di far sgambettare i bambini mentre cenavamo. In compenso, vestiteli ‘a cipolla’ perché possono esserci getti di aria condizionata molto forti. Ma questo vale anche per gli adulti.

E se devono andare in bagno?

Ci sono molti bagni pubblici, generalmente più puliti dei nostri e quasi sempre con fasciatoio (anche sui treni). Tornando indietro, partirei senza pannolini, pasta e frutta, forse solo con gli omogeneizzati. Sul fronte salute, abbiamo fatto l’assicurazione sanitaria Columbus, ma per fortuna non abbiamo esperienze da raccontare.

Alice in esplorazione

Alice in esplorazione

Qualcosa di oggettivamente più complicato

La cosa più faticosa sono gli spostastamenti in metro e le scale. Essendo un gruppo numeroso noi abbiamo usato molto anche le scale mobili (con qualche equilibrismo con il passeggino, aggiungerei io) ma bisognerebbe cercare gli ascensori che a volte sono un po’ distanti dal binario. Sicuramente è  stato più semplice spostarsi con una persona come Patrick  (Orizzonti lo conoscete già mi sa) che ci guidava cercando per tutti le linee della metro. I cambi sono oggettivamente  difficili, anche se non impossibili se uno ha il giusto tempo a disposizione (aggiungo io che mio cognato Gianluca è stato un santo e ormai manovrava passeggino e zaino voluminosi come io maneggerei due pacchetti di fazzoletti).

Aggiungo che, in caso di necessità, i bagagli si possono lasciare per diverse ore anche negli armadietti (lockers) a pagamento in ogni stazione.

Con lo zio-guida Patrick

Con lo zio-guida Patrick

Occhio ai trasporti dunque

Sì, ma in compenso i bambini di questa età non pagano la metro e anche il japan rail pass è  gratuito. Vi capiterà di prendere dei taxi (soprattutto a Kyoto): non ci sono stato problemi, ma ricordate che non ci sono seggiolini.

Giappone con bambini: in treno verso Nara

Giappone con bambini: in treno verso Nara

Un altro tormentone, il fuso orario

All’andata i bambini non l’hanno praticamente sentito, al ritorno di più, ma comunque sempre meno di noi. Come esempio, Diego è andato all’asilo già il giorno dopo il rientro.

Giappone con bambini: gli alloggi

A meno che non abbiate disponibilità illimitate, sono sempre piuttosto piccoli. Conviene cercare una sistemazione con il bagno privato (in ryokan e minshuku generalmente sono in condivisione al piano) e cucina. Spesso sono disponibili anche la lavatrice e asciugatrice. Positiva anche l’esperienza di Airbnb: l’appartamento era bello, con una cucina accessoriata e molto più spazioso della media. E’ chiaro che se c’è un intoppo ci vuole un po’ di più per risolverlo: nel nostro caso una notte è saltata la luce e fino al giorno dopo non è stato possibile far nulla. In compenso, la proprietaria è stata molto gentile a farci poi trovare un regalo, un gesto non scontato!  Noi abbiamo sempre dormito sul tatami (il pavimento tradizionale di paglia intrecciata), srotolando i futon. I bambini si sono molto divertiti a saltare e buttarsi sui piumoni. E, ovviamente, a dormire tutti assieme. E poi, no sbarre, no paura di cadute. In generale, hanno dormito più che a casa.

La scelta delle attività

I bambini si sono molto intrattenuti con quello che vedevano assieme a noi. E, anche in assenza di parchetti (che comunque non mi sono sembrati numerosi), tappe con molti spazi aperti come Takayama, in certi templi di Kyoto, Kamakura o a Nara è stato possibile farli correre e “scorrazzare” (ecco nei templi, occhio agli schiamazzi).

Giappone con bambini: Nara

Giappone con bambini: Nara

Giappone con bimbi: Nara

A Nara

Lato pratico a parte, cosa significa viaggiare a quest’età?

Alice è veramente ancora molto piccola, ma, almeno per quanto riguarda Diego, penso che il viaggio stimoli la curiosità e l’adattabilità. Poi mi ha colpito come non facesse caso ai tratti somatici diversi delle persone che ci circondavano: non c’erano differenze, ma solo altre persone, e bambini, con cui giocare.

In generale, poi, in Giappone sono stati tutti davvero gentilissimi, dalle amiche cariche di regali, allo sconosciuto in metro che si alzava sempre per farci sedere.

Incontri ravvicinati a Takayama

Incontri ravvicinati a Takayama

Giappone con bambini: qualche informazione in più

Ecco gli indirizzi che mi sento di consigliare con il famoso ‘ senno di poi’.
Per quanto riguarda locali e ristoranti, consiglio quelli di cui ho già scritto qui. Aggiungerei questo posto a Nara che non mi ha entusiasmato come cucina, ma assolutamente perfetto per i nostri baby-turisti: oltre al menù per Diego con wurstel a forma di polipo e bandierina giapponese, Alice ha rimediato il cuscino-seggiolone. Comodissimo. Voglio segnalare che persino in questo tempio del ramen di Meguro (ma che in Italia si avvicinerebbe quanto meno al concetto di osteriaccia) c’era un pratico seggiolone (e Diego si è slurpato i gyoza).

giappone con bambini: aspettando gli yakitori

Aspettando gli yakitori

Per quanto riguarda i pernottamenti, consiglierei assolutamente i due posti scelti a Takayama. Il primo, più caro, è una splendida minshuku. La stanza è più grande della media, pulita, i futon vengono preparati dal personale e, anche se il bagno è al piano, c’è comunque un onsen interno. E’ comodissimo anche per fare la doccia ai bimbi. Dall’altra parte della strada c’è il moderno e pratico Thanyaporn, consigliato soprattutto per i gruppi numerosi (noi eravamo in otto). Meno affascinante, ma con grande cucina e bagno enorme.

A Tokyo ci siamo trovati bene nell’Airbnb già descritto. Per quanto riguarda il quartiere ci sono pregi e difetti: da un lato ha una dimensione più popolare e residenziale, con un fantastico fornaio vicino alla metro.  Dall’altro, arriva qui una sola linea e la stazione non ha l’ascensore.

Ecco altri link con esperienze diverse dalla nostra sul viaggio in Giappone con bambini:

Sul Giappone ho scritto con Patrick anche una guida per la collana Viaggiautori

Qui invece trovate i miei altri post sul Giappone

Giappone con i bambini: Takayama

Giappone con i bambini: Takayama

Cartoline dall’Italia

Vi è  mai capitato di arrivare davanti al gate, di mettervi in coda con gli altri passeggeri e poi girare i tacchi e andarvene? A me purtroppo sì e, settimane dopo, se ci penso mi vengono ancora i brividi. Aereo per Atene in partenza, itinerario tiratissimo, ma fattibile, per il Peloponneso in testa e, niente, quel collo che inizia a diventare di legno. Un male già sbucato giorni prima, messo da parte (“tanto fra qualche giorno parto e mi passa”), fino a quando diventa il più scomodo dei bagagli. Niente, decido mestamente di restare a Bologna, per andare a farmi visitare. Non che non avessi già testato i medici greci in miei precedenti camei di viaggio (leggendario il punturone di cortisone a Corfù), ma magari questa volta anche no.

Dove voglio andare a parare? Che alla fine, per tentare di oziare come suggerito dall’ortopedica senza perdere completamente qualche giorno libero, abbiamo ripiegato sulla Toscana. Quella Toscana da cui tutto è partito lo scorso maggio, quando ho inaugurato il mio piccolo grand tour in giro per l’Italia. Sì, perché, come ho già scritto qui, la mia è stata un’estate strana, fatta di giri in cui mi sono goduta parecchio il nostro Paese. Alcuni li ho scoperti per la prima volta, in altri casi è stato  un piacevole ritrovarsi. La cosa più bella, poi, sono stati gli incontri. Provo a raccontarlo in questo post-flusso di coscienza: ecco le mie cartoline dall’Italia, itinerari possibili nel nostro Paese. Sono posti che ho visto nel corso di vari mesi, ma li propongo lo stesso perché credo che siano perfetti anche per la stagione autunnale.
Andateci in giro per il mondo, che è gioia pura, ma prendetevi del tempo anche per quello che è più vicino a casa. E per i vostri amici.

Arezzo

Il meteo aveva annunciato terrore e tragedia: un intero fine settimana di temporali. Ma noi a trovare Danilo e Yumiko ci siamo andati lo stesso e abbiamo fatto bene, perché Arezzo ci ha accolti con il sole. La Toscana è davvero una terra benedetta: camminare fra borghi, ulivi e chiese secolari mi emoziona tutte le volte. E i nostri Virgilio in terra aretina – anche se il Giappone era pur sempre l’argomento principale di conversazione – ci hanno svelato posti nuovi nonostante fossi venuta da queste parti già altre volte. Come Lucignano, dove andare a zonzo fra case di pietra, fino alla chiesa di San Francesco. Oppure la chiesa di Santa Maria del Calcinaio, gioiello (che ha un grande bisogno di essere tutelato, se passate firmate per il suo restauro) all’ombra di Cortona. E poi Monte San Savino, borgo pieno di insidie per i vegetariani. Se non fate parte di questo gruppo, dopo avere assaggiato la porchetta (servita calda e spessa) delle Delizie di Aldo, il mondo vi sembrerà un posto migliore.

Geometrie #lucignano #toscana #tuscany #igersarezzo #visitarezzo #italy #viaggioinitalia #whatitalyis

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Tre laghi in tre giorni? Si può

La direzione era la Brianza, dove ci aspettavano Cabiria e Raffaele. Ma abbiamo deciso di prenderla alla larga, iniziando a salire lentamente, un po’ a caso, con in macchina pochi bagagli e tante guide di cantine e ristoranti. Anche in questo caso, previsioni meteo apocalittiche, quindi perché non puntare sulle terme? Primo stop, Sirmione, lago di Garda. Il borgo, racchiuso dalle mure scaligere e completamente abbracciato dal lago, è incantevole. Detto questo, ci hanno provato in tutti i modi a peggiorarlo con quei negozi uguali dappertutto e gelaterie pensate per sfamare un’orda di giganti affamati. Ma, anche così, le terme da cui si sfiora l’acqua sono fra le più belle che io abbia mai visto e le consiglio sul serio, soprattutto per i suggestivi spazi all’aperto. Da lì abbiamo costeggiato il lago verso Malcesine, per salire sul Monte Baldo. Anche qui c’era da fare a sportellate con i turisti, soprattutto tedeschi: per montare in funivia (cara) ci siamo fatti un’ora di coda, ma devo dire che ne è valsa la pena. Dalla cima il paesaggio è maestoso, ci si sente affacciati su un fiordo, in un contesto che fa pensare al Nord d’Europa, dove il blu dell’acqua si mescola al verde intenso delle montagne.

Fiordo, mare o lago? Il Garda dal Monte Baldo #lagodigarda #malcesine #picoftheday #lakegarda

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Secondo stop, lago d’Iseo. A essere sincera è stato proprio un assaggio, per avvicinarci alla Brianza. Abbiamo visto solo Sarnico, la nostra tappa per la notte, in cui è stato bello trovare case e spirito completamente diversi dal Garda. Ci siamo goduti un giro in bici sulla riva fra cigni schiamazzanti, un calice di Franciacorta (che qui gioca in casa) e una cena strepitosa. Piccoli, grandi piaceri per chi, come noi, non ha azzeccato troppo i tempi (la settimana dopo c’è stato il boom di visite per l’installazione di Christo, prossima volta dai).

Ed eccoci arrivati a Verderio. Anche in questo caso abbiamo avuto guide fantastiche nello scoprire non solo verdissime colline e nuovi borghi (non so se si è capito che ho una leggera fissa per i paesini), come Montevecchia, ma anche un fiabesco mondo acquatico, il regno dell’Adda. Suggestioni letterarie si sono riaffacciate subito in questi luoghi che si tingono di azzurro e verde, fra sentieri nei boschi per ciclisti (pure quelli della domenica, va detto) e passeggiate sulle chiuse. Da qui ho scoperto quel ramo del lago di Como che mi mancava, la parte di Lecco. Rivista anche mesi dopo per Immagimondo, l’ho trovata una città con un bellissimo affaccio sul lago e dall’atmosfera vivace. Sulla cucina locale non posso dire nulla: ma sul simpatico iraniano Cardamomo in cui siamo andati a cena posso solo commentare… 10 e lode! Come alla compagnia del resto.

Barche sull’Adda

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Calabria

Fino a poco tempo fa per me era una regione sconosciuta. Poi, dopo essere arrivata con due aerei (!) a Lamezia Terme, la Calabria mi si è presentata con boschi, continui su e giù e squarci di mare azzurrissimo. Questa parte d’Italia strizzata fra due colossi turistici come la Puglia e la Sicilia ha veramente bisogno di rifarsi un po’ il look, di cambiare pelle nell’attrarre i visitatori, ma non ha nulla da invidiare ai luoghi più famosi del nostro Mediterraneo. Il punto è proprio questo: la Calabria era Magna Grecia, non una colonia lontana, ma proprio madre patria scelta dagli antichi greci. E ancora questo spirito si coglie, in tantissimi posti, purtroppo disseminati in punti piuttosto lontani, tanto che su quelle strade calabre mi sono sentita a volte una pallina del flipper.

Insisto su #badolato, un borgo calabrese che mi ha stregata. #calabria #cultieculturecalabria #borghitalia #picoftheday #whatitalyis

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Quello che più mi ha colpito è la palpabile presenza della storia e della stratificazione di questa terra di passaggio. Castelli normanni (bellissimo quello che domina Cosenza) si alternano alle torri saracene che scrutano la costa. Ci sono borghi sonnolenti come Badolato, opulenti e intatti come Gerace e colorati come Diamante, regno del murales e della granita al cedro. Ma è soprattutto il contatto con la mia amata Grecia che mi ha lasciato una grande voglia di tornare nella punta dello Stivale. Ad esempio a Stilo, dove si visita la Cattolica, una chiesa bizantina circondata dai fichi d’india che conserva stupendi affreschi e regala un’atmosfera che sa di Oriente. E poi c’è Bova, paese in cui una trentina di famiglie parla ancora un dialetto greco, fino a Reggio Calabria, dove il Museo archeologico nazionale custodisce reperti unici (e non solo i Bronzi di Riace). Io però ci sono rimasta un po’ sotto con il liceo classico, va detto.

Io un tuffetto qui a praia me lo farei. #golfodipolicastro #cosenza #turiscalabria

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Fra Parma e Piacenza

Una fetta di regione che conoscevo pochissimo era quella in cui abitano Paola e Gianni. Una terra che sa di confine quella ‘bassa’ in cui finisce l’Emilia e la lingua che parlo da sempre si veste di suoni nuovi. L’impatto con Fiorenzuola d’Arda è stato con i salumifici annunciati lungo la strada: mi sono sentita decisamente a casa, così come nelle stradine del centro dove si srotola una tranquilla vita di provincia (menzione speciale per la gelateria Meno Dieci, il proprietario è un vero artista). Ma sono state soprattutto le colline dei dintorni a farci sentire questa gita strappata nel giorno libero come una piccola grande fuga dalla città.

Angoli (e colori) di #fiorenzuoladarda. Dedicato a me e a chi come me sta ancora lavorando sabato 13 agosto #igersemiliaromagna #piacenza

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Il verde circostante è punteggiato da tanti piccoli castelli e le nostre guide speciali, che conoscono la nostra passione (o fissazione) per il vino, ci hanno portato proprio nella cantina che si trova all’interno di uno di questi. Così ho scoperto la Cantina Luretta, nel Castello di Momeliano a Gazzola, in un crescendo di sorprese. Prima dentro la suggestiva cantina, dove dalle luci soffuse affiorano oniriche e ironiche sculture, poi nella sala di degustazione, illuminata da una grande vetrata aperta sulle colline. Qui infatti ho avuto modo di ricredermi sui vini piacentini, che di fatto, Gutturnio a parte, conoscevo poi molto poco. Anche se a colpirmi più di tutti sono state le bollicine, a partire dallo spumante Brut Principessa (nella versione pas dosè da Chardonnay e Pinot Nero). Difficile credere, sorseggiando questi vini, di essere ancora in Emilia, ma tutto qua, per competenza e raffinatezza dei vini, fa impallidire zone ben più blasonate. Ah, per me è stata anche un’ottima occasione di assaggiare la Malvasia di Candia, fino adesso conosciuta solo sui libri dell’Ais. Una delle cantine più interessanti da parecchio tempo. In una delle giornate più belle dell’estate.

Toscana, di nuovo

Ed eccoci dunque in Val d’Orcia, di nuovo, per colpa del mio collo malandato. Ma non ci è andata poi così male, visto che a settembre le giornate da queste parte sono ancora incantevoli. Anzi, forse è proprio la stagione migliore, con gli alberi carichi di fichi che attendono solo di essere raccolti e mangiati. Questi luoghi intorno a Siena li conoscono in tanti (qui ne avevo scritto in chiave invernale), ma ho avuto l’ennesima conferma che non mi stancherò mai di questi casali in pietra dalle persiane colorate, dei tramonti sulle colline orlate di cipressi, delle campane dei monasteri che rintoccano da secoli, di un bicchiere di vino bevuto in piazze perfette, come quella di Cortona. Sono luoghi del cuore e non c’è nient’altro da aggiungere più di così.

Quello che amo di più della #toscana sono i cipressi #tuscany #igerstoscana #agriturismo #cortona #countrysidelife

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Le Langhe

Fra le zone italiane più famose per il vino questa fetta di Piemonte ci mancava e così abbiamo voluto rimediare in un paio di giorni liberi. Siamo appena tornati, ne scriverò presto meglio, ma questa terra a forte vocazione agricola mi ha entusiasmata.

Trova l’intruso (il #monviso). #landscape #langhe #cuneo #piemonte #igerspiemonte #wine #vigneti #barolowine #travelpic

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Saranno stati i colori dell’autunno che incendiavano le colline, sarà lo spirito di certi produttori incontrati, così radicati nel loro territorio. Sarà la storia di certi vini, che hanno bisogno di tempo per affinare il carattere, proprio come gli esseri umani. Sarà per la bontà dei piatti, come la carne cruda e i dolci con le nocciole (il celebre tartufo bianco lo abbiamo solo annusato, per chi è meno in bolletta costa circa 35 euro a grattata). Sarà per gli echi letterari, in questi luoghi di castelli, battaglie e resistenza. E libri. Questo è quello che preferisco.

“C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”.

La luna e i falò, Cesare Pavese

Sashimi misto

Tre posticini in cui cenare in Giappone

In Giappone mangiare è musica, e di quella buona. Questo mio terzo viaggio autunnale mi ha regalato le consuete gioie del palato, ma soprattutto qualche nuovo indirizzo da consigliare (e in cui tornare). Sono posti trovati un po’ per caso, di quelli che svoltano una giornata complicata, e altri invece scelti per il nostro numeroso gruppo da amici che ci hanno organizzato una serata speciale. Qui racconto tre ristoranti, tre locali apparentemente molto diversi, ma che spiegano perfettamente cosa significa per me mangiare in Giappone e perché ritengo che il cibo condiviso sia una parte così importante del viaggio.

Kyoto – Tsuduri

Ero un po’ pensierosa prima di entrare in questa izakaya. Sai che novità, che io fossi pensierosa, potrebbe dire chi mi conosce bene. Ma il punto è che, quando abbiamo varcato la soglia scostando le tradizionali tendine blu, non avevamo idea di chi avremmo incontrato dall’altra parte. Ci aspettavano infatti Makoto e un’amica, due studenti di italiano interessati a fare conversazione con noi dopo averci “conosciuto” in modo virtuale attraverso la guida dei Viaggiautori. Con “noi” intendo anche i miei due nipotini e una coppia di amici che ci avrebbe raggiunti dopo tornando da Hiroshima. E poi la parola izakaya può significare tipi di locali molto eterogenei in Giappone: posti raffinati, quanto fumosi e caotici. L’unica regola generale è che si beve mangiando sempre qualcosa. In questo caso si è verificata la migliore delle possibilità: ci siamo trovati in una bella casa tradizionale, proprio davanti a un tempio illuminato dalla luce delle lanterne, in cui avevamo a disposizione una saletta intera.

Un piatto di sashimi

Un piatto di sashimi

In izakaya si beve sempre mangiando qualcosa

In izakaya si beve sempre mangiando qualcosa

Rompiamo il ghiaccio con una birra, mentre scorriamo il menù scritto a mano anche in inglese (mai darlo per scontato). Un po’ ci facciamo consigliare, un po’ ci lanciamo. Proviamo sashimi misto, freschissimo e saporito, e un cracker di granchio friabile spennellato con uovo. Buonissimo. Poi c’è un piatto a cui non so resistere: è una specie di cubetto di pancetta servito con la sua salsa e un uovo: mi ricorda molto la carne di maiale mangiata a Okinawa, davvero morbida e gustosa (e alla faccia di chi dice che in Giappone si mangia solo pesce crudo). Arrivano colorati piattini, creando quel puzzle variopinto che è una gioia per gli occhi sulle tavole giapponesi. La conversazione intanto prende quota e i nostri nuovi amici ci raccontano dei viaggi nel nostro Paese, della loro classe di lingua italiana, dell’insegnante originaria di Pescara. Si parla di lavoro, di Tokyo che ci aspetta il giorno dopo.

Passiamo al sake, freddo e piacevole come sempre, mentre arrivano anche cestini di tempura, tofu fritto, fish cake e insalata di patate che i bambini fanno sparire in un secondo. Il cibo è buonissimo, in piccole porzioni che è bello condividere, proprio come stiamo condividendo brandelli di vita, curiosità reciproca e lingua. Era una serata al buio ed è stata un successo. Questo appagamento misto a gratitudine in Giappone mi capita di provarlo sempre più spesso.

Tsuduri si trova in una laterale di una delle strade più importanti di Kyoto, Karasuma, all’incrocio con Matsubara dori.
Prezzo: circa 3mila yen a testa, bevande comprese e mangiando a sazietà.

Tokyo – Daikichi

Tutti i nati negli anni Ottanta lo conoscono. E’ Marrabbio, un nome una garanzia, un’icona del personaggio costantemente di cattivo umore con fascetta in testa e spatoline in mano (il gatto si chiamava Giuliano e amava le polpette). Ebbene, locali simili a quello del padre di Licia, piccoli, con una clientela affezionata e porte scorrevoli in Giappone ce ne sono a quintalate: noi ne abbiamo trovato uno nel nostro quartierino di Higashi Mukojima, o lato B della ben più famosa zona di Asakusa. Con la differenza che al posto di Marrabbio c’era un signore molto gentile che preparava yakitori.

Il locale dall'esterno

Il locale dall’esterno

La giornata era stata in salita dall’inizio. Alle 5.40 io e Patrick abbiamo lasciato Kyoto per raggiungere l’aeroporto di Osaka nel tentativo di recuperare un libro e un I-pad perduti. Manco a dirlo, missione compiuta. Poi ci siamo fiondati su un treno per Himeji, visitato il castello, per poi ri-fiondarci a Kyoto e, con una veloce coincidenza, prendere uno shinkansen per Tokyo. Impresa già non facile, figuriamoci in otto con tanto di valigie e passeggino. Morale della favola, scesi a Tokyo, mancava all’appello un cellulare. Nel parapiglia, mentre io recuperavo un nipote, si è persa la mia valigia. Spoilero subito che tutto sarà ritrovato nel giro di poche ore, ma arrivare a casa, in un appartamento di Airbnb in strade senza nome, carichi come dei muli, non è stato proprio un momento zen. E così, dopo una breve sosta, eccoci di nuovo fuori sotto la pioggia a capire dove cenare in un quartiere che ho amato molto – con le sue case basse e la dimensione popolare – ma priva di vere e proprie attrazioni turistiche. E così, sotto l’acqua e senza molte alternative, ci siamo avventurati da Daikichi, una catena specializzata in yakitori, spiedini di pollo.

Ci accoglie un locale in legno, molto intimo, che mi ricorda il clima conviviale delle nostre osterie a Bologna. Solo che qui in Giappone è tutto incredibilmente più piccolo. Un gruppo come il nostro che vaga alle 10 di sera in una zona poco turistica non passa inosservato e subito si danno tutti un gran da fare per trovarci un angolo abbastanza grande, a un passo dal bancone. Persino qui, mio nipote riceve il suo piattino speciale con baby forchette, mentre noi scegliamo i nostri spiedini. Nei posti specializzati in yakitori è bello fare più ordinazioni, mentre si beve birra e si chiacchiera, a volte pure con il cuoco. Come dice il nome stesso, vengono serviti solo varie parti del pollo, dalle semplici polpettine, alle interiora. Io e Patrick siamo i più spericolati e proviamo tutto, mentre il nostro simpatico Marrabbio prepara la carne sotto i nostri occhi, girandola finché non è cotta al punto giusto.

Yakitori!

Yakitori!

Così vicini, tutti siamo perfettamente presenti nella conversazione, che si scioglie, come la fatica di questa lunga giornata. Fra un’ordinazione e l’altra spazzoliamo gli edamame, i fagioli verdi di soia, e patate al cartoccio, servite nella stagnola col burro. Ancora una volta è il calore, della brace, di un luogo simpatico mentre fuori piove, che resta uno dei ricordi più belli di questo mio ritorno a Tokyo, che finisce tra inchini e saluti (e un karaoke dall’altra parte della strada).

Si trova vicino alla stazione di Higashi Mukojima (ecco la mappa).
Prezzo: molto variabile a seconda di quanto si ordina, ma non più di 2mila yen a testa direi.

Tokyo – Shinjuku Uoya Sho-ten

Tantissime immagini famose di Tokyo vengono da Shinjuku. Con i suoi neon, le strade affollate, look e colori di ogni tipo, è una delle zone che restano più impresse nella capitale. I locali sono tantissimi, spesso si trovano nei piani alti dei palazzi, svelati da insegne quasi impossibili da leggere da fuori. Per questo quando la nostra amica Rika ha detto di avere prenotato in una izakaya di pesce in questa parte così vivace della città sono stata molto contenta: non credo che da soli saremmo mai riusciti a individuare un posto valido e abbastanza grande per noi. Anche in questo caso abbiamo preso l’ascensore per salire diversi piani: una volta entrati, abbiamo lasciato le scarpe negli armadietti e ci siamo seduti in una stanza tutta per noi, separata lateralmente da porte scorrevoli.

Sashimi misto

Sashimi misto

Rika è una delle nostre amiche giapponesi che conosco da più tempo. E’ una studiosa di opera, che ha fatto la specialistica a Bologna al Dams musica. Sono rimaste negli annali le cene a casa nostra in cui i nostri colleghi partivano con imbarazzanti domande sui cartoni animati giapponesi e la scena di lei che beve la grolla dell’amicizia al nostro matrimonio. Siamo stati anche all’Arena di Verona a vedere l’Aida,  ma questa è la prima volta che la incontro in Giappone e mi fa un certo effetto. Si presenta assieme all’amica Seiko, che parla benissimo italiano e ci guida nella scelta del menu. Ordiniamo piatti di sashimi misto, la specialità della casa, e crocchette di patate per i bambini. Quello che arriva è il miglior sashimi che io abbia mai mangiato: i pesci sono serviti con un cartellino (in giapponese, quindi ci serve comunque una traduzione in diretta). Ci sono pesci bianchi, seppia, polipo, oltre il tradizionale tonno. Nelle izakaya è bello sperimentare e io e Patrick ci lanciamo: nell’allarme generale, a partire da quello delle nostre ospiti giapponesi, assaggiamo interiora di seppia. Hanno un colore rosato e sono un concentrato di mare e sapidità. Proviamo anche una ciotola di riso cotto nel tè verde.

Interiora di seppia

Interiora di seppia

La tavolata si amalgama, parliamo delle cose che abbiamo visto e che vedremo, come Takayama, la nostra prossima tappa. Come mi è capitato anche altre volte, le nostre amiche non ci sono mai state, sembra che i giapponesi non viaggino mai troppo all’interno del loro paese. Ma poi penso che Seiko è stata a Cagliari e in parti della Sardegna che mi sono completamente sconosciute e che è meglio che le mie generalizzazioni io le metta da parte. Come sempre, quando si viaggia.
Ah, c’è stato un finale tipicamente giapponese: Seiko ha regalato un piccolo portachiavi a forma di Totoro a mio nipote. Qui a mani vuote non si va via mai.

Indirizzo: rimando al link sopra.
Prezzo: circa 3mila yen a testa.

 

Una cena a Yokohama

L’olio sfrigola in cucina e il suono dei fornelli riempe i primi momenti di silenzio, quelli che si dissolvono subito, appena ci si siede a tavola. La mamma di Aya, la nostra amica giapponese che abita a Yokohama, si muove con sicurezza nel piccolo spazio a fianco alla sala da pranzo. E, di tanto in tanto, compare con nuove verdure in tempura: patate dolci, asparagi, funghi, melanzane. Un gambero, come gran finale. Madre e figlia si rammaricano di non avere preparato di più, proprio mentre in tavola arrivano anche soba freddi, da immergere nella salsa. Decisamente non ci sembra che il cibo sia poco, anzi.

Tutto è un po’ già visto e tutto è un po’ nuovo in questo mio terzo viaggio in Giappone. L’itinerario è molto tradizionale, perché con me e Patrick ci sono anche mia sorella e mio cognato, i miei due nipotini e una coppia di amici. E, nonostante alcune tappe giù viste, è un viaggio pieno di prime volte, come Kamakura, da cui proveniamo e dove abbiamo lasciato un mare autunnale e una spiaggia spazzata dal vento. Anche pensando ai più piccoli viaggiatori della nostra insolita compagnia allargata, ci è sembrata fantastica la proposta di Aya di andare a casa sua: l’incontro con la sua bambina sembrava un imperdibile faccia a faccia con un rappresentante del paese alto come loro. E noi, che veniamo dall’altra parte del mondo, ci troviamo in questa casa a un passo da Tokyo, in una città famosa per lo skyline notturno e per essere stato il primo luogo in Giappone ad avere aperto le porte agli stranieri. Coincidenze.

Il Buddha di Kamakura

Il Buddha di Kamakura

Arriviamo in ritardo e scesi dal treno ci lanciamo su un taxi, fra passeggini richiusi al volo e sacchetti volanti. Perderemo anche una giacca, che poi puntualmente sarà ritrovata e restituita perfettamente pulita e piegata. Yokohama è molto grande, è la seconda città del Giappone: le strade salgono e scendono, mentre dal finestrino cerchiamo di capire cosa sia quell’enorme stadio illuminato il cui campo sembra coperto da non una coltre bianca. Solo da più vicino capiamo: si stanno allenando dei giocatori di golf e quella che sembra neve su un pendio è una distesa di palline. E’ pura quotidianità quella che ci scorre sotto gli occhi, sembra di essere penetrati più a fondo in questo mondo, fatto di sport, palazzi e gente che rientra a casa. Mi sento calata in una dimensione più intima, lontano anni luce dai neon della metropoli che pulsa a qualche fermata di treno più in là.

La casa è una villetta su due piani: sembra molto grande e infatti, per gli standard giapponesi lo è. Ed è per questo che ci troviamo tutti qui stasera, staremo più larghi. Aya ci sta aspettando in strada, ci si sente sempre così accolti qui in Giappone. I nostri amici, ma anche gli sconosciuti, mi fanno sentire sempre un’ospite speciale. Ci togliamo le scarpe ed entriamo in casa: non sono mai stata in una casa privata giapponese, penso mentre entriamo nella sala da pranzo, dove ci attende una tavola perfettamente apparecchiata. C’è anche un’ala ricoperta di tatami. Perfetta per il tè, penso, ma in realtà diventa presto parco giochi  e punto d’incontro fra i bambini che si studiano a vicenda. La mamma di Aya abbraccia ognuno di noi per poi riprendere il controllo dei fornelli: difficile comunicare a parole, forse, ma a sorrisi e inchini ci capiamo al volo.

la tavola apparecchiata per noi

la tavola apparecchiata per noi

Non abbiamo mai assaggiato una tempura così buona e un fritto così delicato. Facciamo il bis di soba, gli spaghettini sottili che piacciono molto anche i miei nipoti. Mia sorella e Aya iniziano a parlare dei figli, degli orari di lavoro, dell’asilo, del ritorno a casa il prima possibile, dopo quei mille incastri che conoscono le donne a ogni latitudine. Con Aya ricordiamo quando ci siamo conosciute, a Bologna, cinque anni fa. Lei era in città per studiare italiano e Patrick, sapendo della sua passione per il calcio, l’aveva portata allo stadio. La sera eravamo usciti insieme, fra osterie e vicoli di un centro storico illuminato dalla luna di settembre. Me lo ricordo alla perfezione quel momento, ancora non sapevo che il Giappone sarebbe diventato così importante per me. E ora siamo qui, in casa sua, con le nostre vite che hanno preso le loro curve e lei che parla italiano sempre meglio.

I soba di grano saraceno

I soba di grano saraceno

Arriva anche il marito, con un sacchetto contenente birre e qualche bevanda per noi. Quella che all’inizio sembra timidezza, in realtà  diventa presto gentilezza, che da queste parti è disarmante. E’ uno dei tratti di questo Paesi che amo di più, lo capisco una volta di più. I bambini rompono gli indugi e iniziano a giocare insieme. La sala si riempe di risate, mentre i due papà sollevano e fanno roteare a turno i bambini, non importa di chi, fra gridolini divertiti. Partono foto, video, giochi. Sono rapita da questa scena, che è pura vita, entusiasmo, incontro. Penso che i miei nipoti sono fortunati a conoscere un mondo così lontano e diverso così presto, e spero che anche da questa occasione germogli in loro la stessa voglia di viaggiare che io scoperto tanto dopo. Questa casa giapponese che ci ha aperto le porte stasera è la mia immagine più viva per raccontare che cosa ho fatto nel mio ultimo viaggio in Giappone. Non c’è modo migliore per intendere l’amicizia, per sentire i propri legami di famiglia. Essere stati tutti insieme, in un salotto di Yokohama, famiglia.

A casa di Aya

A casa di Aya

Ps. inutile dire che, come se non bastasse, Aya ci ha dato anche dei regali quando siamo andati via (e lì sono partiti i fazzoletti, io e mia sorella siamo irrecuperabili)  e, con la madre (ognuna con la sua auto) ci ha accompagnati alla stazione. Dopo averci cercato e scritto su un foglio la combinazione di treni più comoda e veloce, ovviamente. E avere aspettato, salutandoci con la mano, fino a quando non siamo spariti in fondo alla scala mobile.

Una caletta

Cres, l’isola dei fichi

Dalla strada

Dalla strada

Questa è un’estate strana. Non ci sono vere e proprie ferie, non c’è un viaggio pianificato da tempo, ma tanti piccoli giri. Tanti blitz, come li chiamo io, di circa quattro giorni, organizzati un po’ all’ultimo, in base a qualche suggestione letta sul web o alle offerte di Skyscanner. Ho visto molti luoghi in Italia per la prima volta, ho passato del tempo con nuovi amici, anche in angoli vicino a casa. Ma, intanto parto dall’ultima tappa, quella di Cres, una bellissima scoperta (grazie al blog Viaggi di ritorno! Mi è bastato leggere poche righe per capire che era il posto giusto per me).

La città di Cherso

La città di Cherso

Cres, o Cherso, è una delle isole del Quarnaro, davanti all’Istria e alla città di Fiume. Tecnicamente Croazia, ma con tanta Italia, a partire dai nomi degli abitanti. Uno dei motivi che mi hanno portata qui, infatti, è che si inserisce in una mia fissa che dura da un po’. Dare la priorità ai luoghi di confine, dove si mescolano le nazionalità, le lingue e che siano possibilmente decentrati. Meglio ancora se nel cuore del Mediterraneo, un filo rosso che torna in molti dei miei ultimi viaggi. Ma questo sproloquio lo rimando, oggi si parla di Cres.

L’isola dei fichi

Cres è un’isola molto grande, però gli abitanti sono pochissimi, poco più di 3mila. E’ praticamente una doppia isola, visto che è collegata da un ponte a Losinj, che però ha già un’anima completamente diversa. Cres è più selvaggia, più spartana, un vero concentrato di natura. Meno yacht e più barchette a vela e gente che getta la sua canna da pesca un po’ ovunque e a tutte le ore del giorno Quasi non ho visto negozi, se non nella cittadina principale, Cherso, appunto. In compenso è un’isola che regala paesini minuscoli sul mare e altri, ancora più piccoli, nell’entroterra, dove la cottura dell’agnello è un’arte. A proposito, l’allevamento delle pecore è una delle principali attività, così come l’apicoltura. E poi ci sono i fichi. Profumati alberi di fichi quasi ovunque. Gelati ai fichi, marmellata di fichi. E io, che pensavo che non mi piacessero, mi sono dovuta completamente ricredere.

Una caletta

Una caletta a Cres (foto di Persorsi, 2016)

L’isola si gira molto bene in auto. A volte la strada, che sale parecchio rispetto alla costa, regala scorci suggestivi sul mare, a volte si snoda in boschi pieni di ulivi, pini: macchie verdi intervallate solo dai muretti a secco e dai cartelli che indirizzano a qualche gostionica (osteria). L’essenza del posto sta nella sua semplicità. E’ uno di quei posti, che pure ad agosto, ti lasciano addosso un senso di libertà, soprattutto quella di mandare al diavolo l’orologio.

Valun

Noi abbiamo scelto di fare base in questo minuscolo borgo di pescatori sul mare e ci tornerei sicuramente. Il porticciolo, animato da taverne e ristoranti, è piccolo e molto accogliente. Ci sono le poste, un paio di alimentari e tutto il resto sono case color pastello che si affacciano sulle barche ormeggiate. A Valun ci sono due spiagge principali, entrambe di ciottoli bianchi, che brillano sotto l’acqua trasparente, affollata di pescetti anche a riva. Una, alla destra del paese, ha alle sue spalle un campeggio (sull’isola sono molto numerosi). Noi abbiamo scelto quella sulla sinistra, che si raggiunge con una splendida camminata lungo il mare di cinque minuti. La spiaggia compare dopo essersi lasciati dietro muretti a secco, pini marittimi e case costruite durante la dominazione italiana (il periodo fra le due guerre mondiali). Anche qui come in altri punti dell’isola, le spiagge sono strette e in giornate come la domenica si riempono in fretta. In questo caso si possono noleggiare anche lettini e kayak (poco distante c’è pure un chiosco), ma chi vuole può portarsi il suo materassino (consigliato sui sassi: lo vendono in paese per poche kune). Noi abbiamo preso il kayak due volte per esplorare anche calette vicine: in realtà quella più facile per ‘l’attracco’ era popolata da naturisti e abbiamo battuto in ritirata. Ma per chi fosse interessato… beh è davvero un bel punto, proprio davanti al paese.

Cres: il centro di Valun

Cres: il… centro di Valun

La spiaggia di Valun a Cres

La spiaggia di Valun (foto di Persorsi, 2016)

Lubenice

E’ la meta che da sola vale il viaggio. Il luogo remoto che riconcilia con il mondo e con cui si stringe un patto da subito: un pezzo di cuore resterà lì su quella scogliera. E’ il minuscolo borgo abbarbicato su un’altura, in cui vive una manciata di abitanti e molte case sono popolate da fichi (ancora loro): insomma, andiamo oltre il concetto di decadente, in alcuni vicoli regna proprio l’abbandono. Ma l’essenza di Lubenice è anche in questo: nella vitalità che riappare dietro un angolo nonostante tutto e che incanta i turisti. Resiste un museo dedicato all’allevamento delle pecore e una konoba strepitosa, in cui vi serviranno solo ragazzi giovani (da provare l’agnello cotto sotto la campana di ferro). La strada per arrivare fino in cima è molto stretta, fra muretti, qualche casa sparsa e boschi ombrosi.

Lubenice

Lubenice

Lubenice

Lubenice (foto di Persorsi, 2016)

Ma ne vale la pena, perché poi si arriva in un angolo speciale, soprattutto al tramonto, quando il mare è incendiato dal sole calante. All’inizio del paese parte anche il sentiero che porta alla spiaggia: per scendere serve circa un’ora (non oso immaginare la risalita). Noi ce la siamo presa comoda e siamo arrivati con la barchetta di Roberto, il proprietario della nostra pensione: comunque sia, anche la spiaggia è fra le più belle dell’isola e da poco distante si entra in stupende grotte (dall’acqua gelida) da cui filtra una surreale luce azzurra. Ma torniamo alle case di pietra aggrappate alla scogliera: gironzolate per il borgo, ascoltate il rintocco della campana, guardate le signore anziane chiacchierare dopo essere state nel piccolo cimitero. Assaporate il senso di pace, sentendovi lontano da ogni follia di questo mondo, follie così vicine, nel cuore del nostro Mediterraneo. Ad aggiungere magia al tutto, ci pensa la scrittrice Claudia Heckl: la sua abitazione si trova proprio sulla strada che sale a Lubenice venendo da Valun e ci si arriva seguendo il cartello con scritto gelato ai fichi. Sarete catapultati in un mondo fermo, con gatti che dormono al sole e piante aromatiche. Scrittrice tedesca trasferitasi a Cres, questa ospitale signora vi offrirà anche miele e sciroppi a base di erbe. Si può anche acquistare il suo libro autografato: noi nel dubbio abbiamo comprato tutto!

Lubenice

Lubenice (foto di Persorsi, 2016)

Lubenice

La spiaggia di Lubenice (foto di Persorsi, 2016)

Lubenice

La spiaggia di Lubenice (foto di Persorsi, 2016)

Il gelato ai fichi (foto di Persorsi, 2016)

Il gelato ai fichi

Beli

Anche Beli è un piccolo borgo abbarbicato sul mare, da cui si scende per una bella (e attrezzata) spiaggia di ciottoli, con alle spalle un campeggio. In compenso ci troviamo in un’altra zona dell’isola, chiamata Tramuntana: nome che rende molto l’idea sul vento che vi si può trovare. Anche in questo caso il paese, da cui ammirare gli scorci di mare, si gira a piedi in pochissimo e non manca la gostionica dallo spirito montanaro in cui trovare riparo dal caldo.

Il borgo di Beli (foto di Persorsi, 2016)

Il borgo di Beli

Anche la spiaggia, in fondo a una ripida discesa, è graziosa. Si può noleggiare il kayak mentre i più avventurosi (e quindi io non faccio parte del gruppo), possono cimentarsi in una zipline da cui volare sul mare. Dietro la spiaggia, due bar e un minimarket, il centro diving: bella atmosfera anche qui, in una delle spiagge più vicine al traghetto. Un’ultima cosa, per chi è in fissa con il mondo dei volatili: a Beli si trova il centro scientifico-ecologico per la tutela dell’ambiente, in cui saperne di più sulla presenza dei grifoni. Sono una specie di avvoltoi, che ancora nidificano a Cres, che si cerca di preservare dall’estinzione (qui, ho trovato molte informazioni). Ne abbiamo visto uno in volo dall’auto: era davvero enorme!

La spiaggia di Beli

La spiaggia di Beli (foto di Persorsi, 2016)

La spiaggi di Beli

La spiaggi di Beli (foto di Persorsi, 2016)

Mangiare a Cres

Mangiare a Cres è un’autentica guduria. Non solo per le tarverne di pesce sul mare, ma anche per le trattorie di collina specializzate in agnello. So che su questo tema rischio di urtare parecchia gente, quindi mi trattengo, ma in generale la carne ovina ha un ruolo importante nella cucina locale.

L’angolo del pesce

Grigliate e pesce fresco del giorno non mancano mai a Valun. Ottima la grigliata proposta da MaMaLu, con patate ed erbette. Molto abbondante, occhio quando ordinate, che poi sale pure il conto. Per i primi, invece, andate al San Marco: un’altra taverna proprio sul mare, in cui ho mangiato uno straordinario risotto al nero di seppia. Si sale di livello (e di prezzo) al Na Moru: i piatti sono più ricercati e i tavolini, proprio, sull’acqua, sono molto romantici. Si spende come in Italia (se non di più), ma ne vale la pena. Bello e più economico il ristorantino sulla piazza, la konoba Tos Juna sotto il pergolato. Impossibile non notarlo perché ci sono all’esterno delle scritte in glagolitico, l’antica lingua locale. Ottimo il pesce del giorno.

L’angolo della carne

Di Lubenice ho già parlato sopra, quindi mi concentro sulla gostionica Bukaleta, famosa tanto fra i turisti quanto fra i locali. L’agnello è servito in tre versioni: impanata, ai ferri e al forno e servito in grandi fiamminghe. Buonissime anche le patate al forno e l’insalata di pomodori. Non fatevi scappare gli gnocchi, con gulash: eccezionali. Ci siamo tornati due volte, non abbiamo saputo resistere! Si trova nel minuscolo paesino di Loznati, a pochi chilometri dalla cittadina di Cres. Non esagero a dire che è uno dei ristoranti migliori in cui io abbia mai mangiato. E di tentativi ne ho fatti.

Mangiare a Cres: agnello impanato

Agnello alla gostionica Bukaleta (foto di Patrick Colgan, 2016)

Mangiare a Cres: gli gnocchi della gostionica Bukaleta

Gli gnocchi, foto di Patrick Colgan

Informazioni pratiche

Cres si raggiunge con un traghetto comodissimo che parte da Brestova, in Istria (circa 40 euro andata e ritorno con l’auto). Il tragitto è molto veloce: in quindici minuti si è dall’altra parte. Nel primo weekend d’agosto non abbiamo praticamente trovato coda: il minimo per salire con l’auto sulla nave, e abbiamo preso uno dei primi, quello delle 8.15. Per chi parte da Bologna e similari: noi ci siamo messi in macchina alle 3.15 di mattina, quindi siamo arrivati in cinque ore, compresa la colazione in autogrill (e alba su Trieste, wow). Occhio: arrivando dall’Italia si passa per la Slovenia, per cui bisognerebbe comprare la vignetta da attaccare sul finestrino. Noi l’abbiamo presa direttamente in una degli ultimi autogrill prima di Trieste.

Pernottamento a Cres

Abbiamo deciso la nostra meta con largo anticipo… ben due giorni! Quindi, dopo qualche email e chiamata infruttuosa, ci siamo affidati a Booking per trovare un posto libero, cosa non proprio scontata a inizio agosto. La scelta è caduta sulla Pensione del simpatico Roberto: l’appartamento era molto piccolo con bagno a parte (comunque privato). Forse 70 euro per un monolocale di 20 metri sono un po’ troppi, ma in fondo parliamo del mese di agosto. In più la bellezza delle terrazze comuni vale il prezzo: da quella più in alto, fra fichi e ulivi, la vista sul golfetto di Valun è splendida. La gita in barca (con un’altra coppia), l’abbiamo pagata 60 euro per stare fuori tutta la mattina (io mi sono pure fatta appendere dietro a un canotto, una specie di tubing, vabbè). Occhio ai saluti d’addio: Roberto e la moglie (dopo averci regalato la marmellata di fichi, ancora loro) ci hanno salutato con un cicchetto di nocino alle 10 di mattina. Ah, l’ospitalità balcanica.

L’ultima notte l’abbiamo invece prenotata in loco, guardando i cartelli fuori dalle pensioni. Siamo così finiti al Palac, proprio sul porto. La struttura è più simile a un albergo con tanto di colazione (stesso prezzo per una bella stanza in mansarda).

Nelle backwaters in Kerala

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Quando andare in Kerala

A quasi due settimane dal ritorno è arrivata la prima avvisaglia. I primi segni inequivocabili di nostalgia. Sensazione che mi assale anche adesso pensando all’ultimo viaggio in India del Sud, in cui abbiamo visitato Mumbai, Tamil Nadu, Karnataka e soprattutto il Kerala. Ed è questo placido stato dall’anima tropicale che voglio raccontare, a partire dall’esperienza più bella e coinvolgente: la navigazione nelle backwaters. Inizio con una premessa: chi va in aprile deve sapere che è la stagione limite per viaggiare a bordo delle barche tradizionali. Un po’ per le temperature elevate, un po’ perché il monsone è in agguato (arriva a giugno). Ma, anche se il periodo ottimale sarebbe da ottobre a marzo, io mi sono trovata benissimo per una serie di ragioni: i prezzi sono più convenienti (la cifra poi dipende anche dalle compagnie); il ‘traffico’ in acqua è minore e, anche se fa caldo, comunque di notte in barca c’è l’aria condizionata di sopravvivenza. Insomma, in questo contesto turistico più tranquillo, io consiglio fortemente di trascorrere almeno due notti a bordo. E’ un po’ caro considerando i costi dell’India, ma ne vale totalmente  la pena.

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Il consiglio: navigare almeno due giorni

Lagune, canali orlati di palme, risaie sullo sfondo. E la vita che scorre sull’acqua che sembra un film per chi ha la fortuna di guardare, e sbirciare, dalla barca. Scene di quotidianità si srotolano sotto gli occhi e quel mondo colorato e agreste trasmette un senso di serenità che raramente ho provato in India. Il tempo sembra sospeso nelle backwaters, una rete di acqua dolce, vasta migliaia di chilometri di canali, che si estende fra la costa e l’interno. Queste acque, che creano anche alcuni laghi, sono attraversate da varie imbarcazioni, fra cui le kettuvalam; sono le grandi barche tradizionali (lunghe anche quindici metri), realizzate con legno di cocco e bambù. Oggi sono trasformate, in certi casi almeno, in vere e proprie case galleggianti dotate di camere da letto e servizi. L’esperienza di navigazione può essere molto varia a seconda del punto di partenza (ad esempio a Cochin, la porta a nord, o Kollam, l’accesso meridionale). Il vero quartier generale, però, è Alleppey, cittadina che non merita soste particolari se non per salpare. E così abbiamo fatto anche noi, scegliendo la compagnia Lakes & Lagoon: consigliatissima. Il tour è iniziato all’ora di pranzo e si è concluso due giorni dopo, subito dopo colazione. Lo staff a bordo era composto da tre persone: uno è il cuoco, che nel nostro caso si è prodigato in meraviglie gastronomiche (ahimè, abbiamo scoperto solo alla fine, anche per rimpinguare la mancia: mille rupie gli avevano fatto storcere un po’ il naso. Tant’è).

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Cosa si vede

Appena si accendono i motori, la barca comincia a scivolare lentamente fra i canali. Ci si accomoda in  veranda e inizia lo spettacolo. Il silenzio è rotto solo dal rumore dei panni sbattuti contro i gath -le scale che scendono nell’acqua. Tutti stanno vicino alla riva, sarà anche per via del caldo. Lavano piatti, lavano vestiti. Soprattutto si lavano loro, le donne con i loro lunghi capelli neri, gli uomini in sarong, o i bambini che si tuffano ridendo. L’altro rumore è il vento. Un soffio leggero, che muove le palme cariche di cocchi, interrotto solo dal battito d’ala di qualche uccello che plana sull’acqua. Imbocchiamo un canale dopo l’altro, solo ogni tanto percepiamo la vicinanza della città avvistando qualche ponte trafficato o sentendo un tuk tuk.

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

In questo placido mondo, infatti, dove tutti si spostano in barca, compresi i bambini che vanno a scuola, ogni tanto fa la sua incursione la contemporaneità sotto forma di variopinti manifesti elettorali, di piccoli cantieri e, soprattutto di feste. Siamo scesi in uno di questi villaggi, in uno dei giorni conclusi di Pooram: il più famoso si tiene a Thrissur, una cittadina nel nord del Kerala, ma anche qui il tempio è addobbato con migliaia di bandierine colorate che ondeggiano. Il paese è stipato di gente (come sempre in India), che continua ad andare e venire dalle barche. Tutto mi ricorda le sagre delle mie zone: i bambini vestiti a festa, le bancarelle che vendono un po’ di tutto, i gelati che sciolgono tra le mani. Le donne sedute sul bordo del fiume ad aspettare l’inizio della processione, la musica a tutto volume: appena farà buio, arriverà anche l’elefante bardato in modo tradizionale. Ecco questo nella mia infanzia non c’è, penso, mentre guardo decine e decine di persone sfilare con pesanti lanterne in mano. Come pesanti sono i sacchi di riso, portati sulla schiena da smilzi uomini in sarong: il raccolto è appena finito e ora si festeggia, nel cuore dell’estate. Purtroppo non vedremo l’elefante, la star esce solo quando cala il buio e per noi è tempo di salpare di nuovo per attraccare vicino a un pontile da cui rifornirsi di corrente elettrica. E’ in questo punto tranquillo, dove si arriva a toccare le palme, che aspettiamo il tramonto e le prime luci che tremolano sull’acqua. Mentre il cuoco di bordo ci prepara la cena, osserviamo gli uomini che chiacchierano sull’argine, qualcuno che torna a casa e le donne che lavano i piatti, chine sull’acqua.

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Le backwaters del Kerala

Fra le visite che si fanno abitualmente c’è anche quella alla chiesa di Santa Maria, nel bel paesino di Champakulam. Si tratta di un edificio coloniale, in stile portoghese, di calce bianca e lilla (molte chiese sono violette qui). Si tratta della chiesa più antica del Kerala e all’interno è colorata da vivaci dipinti su legno. Da queste parti cristiani, indù e musulmani sono abituati a vivere a stretto contatto, la commistione culturale e religiosa scorre nelle vene di questo stato comunista da oltre cinquant’anni. La chiesa è preceduta da un lungo porticato, si entra lateralmente, dopo essersi tolti le scarpe: tutto ricorda l’ingresso nei templi o nelle moschee, così come la presenza dei ventilatori. Gli uomini e le donne sono divisi e ovviamente lo capisco solo a messa iniziata: le funzioni qui sono celebrate due volte al giorno e sorrido ascoltando le musiche della celebrazione, che ricordano più quelle di un film che quelle religiose. Il prete è girato, tutti cantano. La fede è sempre una cosa seria, da queste parti.

Qualche informazione pratica. Il costo di due notti in una kettuvalam è di circa 200 euro a testa, compresi i pasti, di alto livello. Diciamo pure che il cuoco ci ha rimpinzato di cibo, spuntini (tipo banane fritte) e deliziosi succhi di frutta fresca. Dalle 8 di sera ci veniva accesa l’aria condizionata in camera, e il letto e il bagno sono stati fra i più puliti trovati in India.

Il secondo giorno pieno ci siamo fermati solo una volta per una sosta a piedi, una visita in più a un villaggio l’avrei fatta volentieri, ma alla fine ci siamo rifatti con un giro in canoa con un signore del posto. E’ stata un’altra stupenda esperienza a contatto con i locali, con i bimbi che sorridono e salutano, con le donne ritrose, gli uomini che fissano con aria curiosa e un po’ di sfida. Abbiamo vissuto quel mondo da un’altra prospettiva, più bassa. Più a pelo dell’acqua, e quindi toccando il cuore di questo paese.

Le backwaters del Kerala, India

Le backwaters del Kerala, India

 

 

Il viaggio in treno per Ooty

Quella fissa del treno per Ooty

Questo post è di quelli che nascono da una domanda: ma ne è valsa la pena, con tutti i posti che ci sono al mondo, di andare fin là? Alla fine, a una settimana di distanza, la risposta è sì. Ma ecco la cronaca del nostro viaggio della speranza verso Ooty, cittadina colorata appollaiata a 2.200 metri sulle Nilgiri Hills. A proposito, siamo in India, nello stato del Tamil Nadu.

La mia storia con Ooty inizia leggendo alcune guide (i miei riferimenti di solito sono Routard e Lonely Planet, a cui si aggiunge in questo caso la stupenda Polaris curata da Pierpaolo Di Nardo). Il fatto è che l’India aveva iniziato a chiamarmi e mi sono intestardita ad andarci ad aprile anche se era evidente che avrei trovato un caldo pazzesco: il termometro sfiora costantemente i 40 gradi e di peggio c’è solo maggio, in cui l’aria comincia a gonfiarsi di umidità in attesa dell’imminente monsone. E così, imbastendo il nostro itinerario nel Sud (Patrick è già stato in Rajasthan e abbiamo voluto cambiare), Ooty, con il suo clima  fresco e le piantagioni di tè sembrava la meta perfetta per dei pazzi che vanno in India fuori stagione. Quella che è nata come una Hill Station degli inglesi durante la dominazione britannica, infatti, in questo periodo è presa d’assalto da allegre e chiassose famigliole indiane e, anzi, per trovare alloggio c’è da sgomitare.

E poi c’era quel treno. Quel trenino a scartamento ridotto che impiega cinque ore per risalire dalla ridente località di Mettupalayam fino a Ooty: cinque ore per 46 chilometri e una decina di fermate intermedie. Quei vagoni ‘del west’ mi hanno fatto capitolare: dovevo salirci, anche se presto hanno iniziato a fioccare gli intoppi. E in questo post di racconto quello che le guide (e pochissimo Internet) vi diranno. 

Sul treno

Sul treno

La vera sfida è salire sul treno

Ooty si può raggiungere in auto dalla pittoresca città di Maysore (nello stato del Karnataka, poco distante da Bangalore), ma il modo più caratteristico è arrivarci con il trenino patrimonio Unesco che parte da Mettupalayam e sale passando per Conoor  e varie località isolate di montagna. Questo treno, cui è dedicato anche un piccolo museo nella stazione di partenza, nell’Ottocento era stato un miracolo di ingegneria e, miracolosamente proprio, funziona ancora, sospinto da una locomotiva sbuffante. Inoltre, è molto economico: il biglietto costa 15 rupie (pochi centesimi dunque) ed è molto gettonato dalle famiglie con bambini. Insomma, è un po’ il Gardaland locale.

Proprio per questo motivo, oltre al fatto che è molto piccolo, i posti vanno prenotati (in alta stagione) almeno tre mesi prima: quando ci siamo affacciati alla biglietteria in un pomeriggio di aprile, non c’era disponibilità fino alla fine di luglio. E dire che avevamo provato, con una serie di mail e telefonate (!) in India, a prenotare da casa tre settimane prima, ma non c’era stato niente da fare (anche perché la lentezza e burocrazia indiana hanno fatto la loro parte e da quelle telefonate non abbiamo ricavato un bel niente). E così, frugando su siti stranieri, abbiamo capito quale era l’ultima spiaggia per salire su quel treno: presentarsi alle quattro di mattina in stazione per intercettare una manciata di biglietti che vengono venduti sul posto.

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La stazione di Mettupalayam

La stazione di Mettupalayam

Per riuscire in questa impresa bisognava dormire a Mettupalayam, una cittadina polverosa e caotica, il posto più lontano dal concetto di turismo che io abbia mai visto. Insomma, un luogo che sarebbe dimenticato da Dio e dagli uomini ha la fortuna di avere un sito patrimonio Unesco e niente, non c’è un cartello, un bar con wifi (o almeno, non l’abbiamo trovato). Niente, solo due strade che si incrociano in cui si accalcano uomini su ogni mezzo di trasporto, mucche, cani, polli. Insomma, India profonda: non era poi troppo diverso dalle aspettative, ma di certo due stranieri qui sono guardati come marziani. E così ci siamo sentiti anche noi dopo essere stati catapultati fuori dall’auto di un driver scrupoloso quanto taciturno (e forse con una gran fretta di tornare a casa visto che abbiamo impiegato sei ore ad arrivare da Cochin, per meno di 250 chilometri).

Ci avevano consigliato di partire presto per evitare il traffico più estremo, ma così siamo arrivati alle tre in questo luogo di confine, brutto e con tanto di manifestazione politica in corso. Non avevamo cibo con noi, ma abbiamo lasciato perdere: abbiamo fatto scorta di acqua e succhi in un piccolo supermercato e abbiamo aspettato l’alba. In qualche modo.

E’ l’India, ci sei voluta venire tu.

E’ vero.

Non eri tu che ti lamentavi a Varkala perché era troppo turistica?

Sì, ero io.

Dopo un tempo sembrato infinito, l’alba è arrivata e ci siamo avventurati in strade buie, schivando mucche addormentate, fino alla stazione. E anche se siamo stati i primi ad entrare, sul binario c’erano già diciotto persone in attesa: per lo più famiglie che avevano dormito lì. Per un paio d’ore sono stata anche io nel dormiveglia seduta in terra, a un passo da rane saltellanti e scacciando zanzare, fino a quando il vociare e la (solita) calca non sono diventate insopportabili.

Alle sei, quando è arrivato il capostazione, è scattata una vera corsa al biglietto: bambini mandati avanti in grado di intrufolarsi, gente che saltava platealmente la coda, urla di quelli in attesa. Alla fine siamo stati agguantati da un poliziotto e messi su un vagone pensato per dieci persone, ma che si è presto riempito fino  a dodici, con i bambini tenuti in braccio. Ci siamo così strizzati fra famiglie indù e una islamica: sono stata costola contro costola con una donna in niqab. Mi sono chiesta come potesse respirare con quel caldo (mica c’è l’aria condizionata) e quella ressa. Nel frattempo i venditori di cibo passavano con riso, curry, pakora e nel nostro vagone tutti hanno mangiato di continuo, con le mani ovviamente!

Treno a vapore per Ooty: una fermata intermedia

Una fermata intermedia

La stazione di Conoor

La stazione di Conoor

Il viaggio in treno

Nel delirio più totale, il treno parte, fra i saluti di chi resta a terra. Lasciamo in fretta il piccolo centro abitato e ci inoltriamo nella vegetazione fitta. In prossimità delle curve, alcuni uomini si sporgono con una bandiera: se è verde, via libera, il treno può proseguire. Il vero spettacolo probabilmente è quello interno: ogni volta che i vagoni si infilano in una galleria, le famiglie cominciano a urlare, come in un parco di divertimenti. Lo stesso avviene quando passiamo su spaventosi ponti nel vuoto: non ho idea di cosa siano fatti quei passaggi che si aprono, senza parapetti, su cascate e strapiombi. Altri urli, io mi attacco alla portiera: incredibile, ma anche stavolta il treno prosegue.

Durante il viaggio sul treno a vapore per Ooty ci sono circa una decina di stazioncine in cui comprare chai fumante e spuntini: bambini e genitori vanno e vengono, fra foto ricordo, blitz in bagno e lanci di cibo alle scimmie che hanno capito che il treno è una vera manna. Mentre comincia a brillare il verde delle foglie di tè, purtroppo il panorama sempre più idilliaco non viene risparmiato dal lancio di vaschette, bottigliette di plastica, carte. E’ un gesto plateale, come se fosse la cosa più naturale del mondo lanciare rifiuti. Ma forse in India è la cosa più naturale del mondo. Il viaggio prosegue fra urli e piccole soste, mentre l’aria cambia fuori dal finestrino. Le famiglie sono incuriosite dalla nostra presenza (siamo solo quattro occidentali in tutto il treno) e ci chiedono da dove veniamo. Venezia è Italia? Sì.

Dal finestrino del treno

Dal finestrino del treno a vapore per Ooty

Dopo una sosta a Co0noor di mezz’ora, arriviamo infine a Ooty, al 46esimo chilometro. La cittadina si spalma su una specie di conca e spicca per le sue case dai colori pastello. Traffico indiavolato e sporco a parte, mi ricorda Lizzano in Belvedere e località simili del mio Appennino: Ooty offre pensioni, gite e trekking, barche sul lago, giardini botanici lasciati in eredità dagli inglesi, negozi di cioccolato e di maglie di lana. Ma il nostro primo pensiero, dopo due giorni quasi di digiuno, è cercare un pranzo abbondante. Ed è quello che faremo, salendo sul primo, saltellante, tuk-tuk che vediamo.

Treno per Ooty: qualche informazione in più

A Ooty abbiamo alloggiato due notti all’albergo Willow Hill (circa 25 euro a notte con colazione). E’ un luogo con alcuni punti di forza e qualche svantaggio. Partiamo dal primo gruppo: le stanze di legno, in stile cottage, sono carine e abbastanza pulite, il ristorante discreto e la vista bellissima. E’ uno dei pochi posti in India in cui ho apprezzato calma e silenzio e c’è pure Sky per vedere qualche film di Bollywood (non ridete, ne ho visto uno divertentissimo, anche questo è India). Tasti dolenti. E’ pensato soprattutto per turisti indiani automuniti: è un po’ isolato e un tuk-tuk chiede sempre qualcosa in più per arrivare (circa 150 rupie invece di 80), non c’è wifi, nè la possibilità di fare il bucato. Ma in generale, mi sento di consigliarlo.

Se a Ooty cercate un wi-fi c’è, in pieno centro, il bar Willy’s: si paga, ma il posto è molto simpatico e pieno di giovani.

C’era un modo per evitare di pernottare a Mettupalayam? Probabilmente sì, se si fa il giro al contrario e prendendo il trenino pomeridiano per scendere. In questo modo si arriva in città alle 17.30 e si fa ancora in tempo a viaggiare per lo meno fino a Coimbatore, molto caotica, ma forse più attrezzata. Oppure, per chi come noi veniva da sud, dal Kerala, forse basta contrattare con il driver di arrivare più tardi, in modo che Mettupalayam sia solo una tappa per dormire e nulla di più. Il nostro albergo, comunque, il Soorya International, è comunque un indirizzo consigliabile. Altri ancora salgono sul treno direttamente a Coonoor, a metà del tragitto.

Gli orari del museo a Mettupalayam: 6-10 la mattina e 15.30-18 il pomeriggio. E’ gratuito.

Altri link utili

 

In Giappone durante la fioritura dei ciliegi

Due settimane in Giappone: la nostra guida

Quando viaggio ho sempre con me un quadernetto su cui appunto un po’ di tutto. Quanto ho speso in un ristorante, l’orario di un autobus, un piatto, un pensiero che mi attraversa all’improvviso su quello che sto scoprendo. Fino a poco tempo sapevo che questi appunti sarebbero stati utili per un post sul blog, o anche solo per ricordare per sempre quegli attimi così preziosi e intensi vissuti in viaggio. Ma ancora non sapevo che mi sarebbero serviti anche per scrivere una guida del Giappone. Io che di solito le guide le leggo, le sfoglio, le sottolineo, le riempio di ‘orecchie’. E ora eccone una scritta da me, insieme con il mio compagno di viaggio preferito. In poche parole, un sogno che si avvera. Una strada cercata e finalmente imboccata. Ma andiamo con ordine.

La copertina della guida del Giappone Viaggiautori

La copertina della guida

Qualche mese fa, Cabiria, Paola, Raffaele e Gianni hanno coinvolto me e Patrick nell’avventura dei ViaggiAutori per raccontare il Giappone: sono due i miei viaggi in questo Paese e otto quelli di Patrick, che mi ha portato inizialmente per mano alla scoperta di questo mondo che avevo a lungo sognato (e ne ha già scritto nel libro Orizzonte Giappone). L’idea di fondo di questo progetto mi ha subito entusiasmato, anche perché non l’ho mai trovata fino adesso: proporre una guida concentrata sull’itinerario, sulle informazioni pratiche per organizzare il proprio viaggio, che solo chi è già stato più volte in un paese può offrire. Un concentrato di tutte quelle cose sperimentate sulla nostra pelle in passato, quando è toccato a noi pianificare prima di partire, selezionando le tappe fra le pagine sterminate di altre guide o saltabeccando sui siti Internet incrociando informazioni. Contando chilometri. Perché in circa due settimane non puoi vedere tutto, devi focalizzarti su alcune destinazioni per assaporarle un po’.

Ed è proprio lo scopo di queste 106 pagine, in cui abbiamo inserito quello che ci sembrava importante raccontare del Giappone. O per lo meno, del Giappone che piace a noi, aggiungendo la voce di amici giapponesi e di Danilo e Yumiko di Viaggiappone che ci hanno regalato alcuni contributi. Come l’abbiamo pensata? Offrendo la nostra esperienza, i nostri tentativi (qualche dubbio sulle mete, mentre eravamo là ai confini dell’Asia, infatti, ci è venuto). Lo spazio sembrava non bastare mai, ma alla fine è nata questa guida tascabile che, senza pretesa di esaustività, è frutto soprattutto di una cosa: una grande passione. Una grande passione per il viaggio, una sete di scoprire che non si placa mai, e per la scrittura, che già sfoghiamo sul blog, il nostro vero punto di partenza. Quindi l’emozione è enorme nel vedere concretizzata sulla carta quello che abbiamo vissuto. Abbiamo scritto nel tempo libero, rinunciando a uscite con gli amici, a ore di sonno, ma ci siamo divertiti, confrontati, e speriamo di avere fatto del nostro meglio. Sappiamo bene che in giro di guide ce ne sono tante e ben fatte, ma ecco cosa c’è nella nostra.

Due itinerari possibili, da fare circa in 14 giorni e da scegliere in base alle proprie inclinazioni. Un percorso racconta un Giappone molto ‘classico’, focalizzato sulle città (antiche e nuove) e su luoghi-simbolo come il Monte Fuji. L’altro si concentra sul lato più spirituale e sognante del Paese, fra luoghi sacri e più remoti. Nella guida troverete la spiegazione dettagliata su come acquistare il Japan Rail Pass, fondamentale strumento per viaggiare in treno (per noi il modo migliore ed economico); troverete una mini-guida alla cucina (e non è vero che in Giappone si mangia solo pesce crudo, sfatiamolo questo mito!); troverete consigli sui locali e ‘chicche’ proposte da chi in questo Paese ci è nato. E, in fondo, anche alcune tappe in più per chi ha la fortuna di viaggiare per più giorni. E trovate soprattutto la risposta a una domanda che ci rivolgono spesso: cosa vi piace tanto del Giappone? Ecco la risposta è tutta scritta qui.

Nella guida trovate le nostre scorribande gastronomiche

Nella guida trovate le nostre scorribande gastronomiche

Insomma, dopo la Thailandia di Cabiria e Andrea, si torna in Asia con il Giappone. Ed è proprio vero che il viaggio, una volta fatto, non finisce mai.

Dove si compra?

Per ora la guida del Giappone si compra solo on line, ma in versione cartacea, sul sito www.viaggiautori.it e costa 12 euro.

L'acqua alta

Dieci cose da fare a Venezia (se non è la prima volta)

Venezia è una città che non mi stanca mai e in cui cerco di tornare almeno una volta l’anno. L’ho vista in tanti momenti diversi: nel caldo del Festival del Cinema, tornando di notte dal Lido davanti a una distesa di luci galleggianti sull’acqua. L’ho visitata nelle giornate terse invernali, quando il cielo azzurro si srotola come una tela dietro palazzi senza tempo. L’ho vista fra i colori del Carnevale e sulle passerelle per l’acqua alta in una bolla d’umidità. L’ultima volta è stata poche settimane fa, a inizio primavera, e sono andata alla ricerca di angoli che ancora non avevo scoperto o che meritavano decisamente un secondo passaggio. Il momento che amo di più, però, resta l’arrivo col treno, quando ci si lascia alle spalle Mestre e all’improvviso si spalanca la Laguna. Venezia è lì che ti aspetta, dopo quel braccio di ferrovia. E sembra aspettarti da secoli.

Buongiorno #venezia. Sei sempre bellissima #venice #veneziagram

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1) Lo squero di San Trovaso

Lo squero di San Trovaso

Lo squero di San Trovaso

Di solito Venezia mi suggerisce atmosfere orientali, come se fosse una porta verso Est, anche per come ho ritrovato le tracce della Serenissima viaggiando nei Balcani o in Grecia. E invece questa ‘officina delle gondole’, lo squero di San Trovaso (uno dei pochi ancora in attività) mi ha fatto pensare al Nord, alle Dolomiti. In effetti gli operai che lavoravano qui venivano dal bellunese, per questo si trovano ancora abitazioni di legno tipiche della montagna. Dietro il ricovero per le barche si può visitare anche una chiesa particolare: è San Trovaso. Se vedete due ingressi uguali non avete bevuto troppo spritz: erano gli accessi separati in chiesa di due clan rivali. Dall’altra parte del canale, poi, c’è un simpatico bacaro, l’Osteria al squero: ottimo il crostino con baccalà mantecato.

2) San Barnaba

Nata a Bologna nel 1982, ha sempre pensato che scrivere fosse un buona idea per raccontare qualcosa di sé. Oggi è giornalista e viaggiatrice, due mondi accomunati dalla curiosità per ogni cosa che passa sotto il suo naso. Ultimamente è andata sempre più a Est, ma l'Islanda e i Paesi del Mediterraneo non smettono di chiamare appena è possibile saltare su un aereo anche per pochi giorni. E' una buona forchetta: la voglia di sperimentare in cucina è nel dna e in Giappone ha trovato l'estasi culinaria. Da anni si è aggiunta la passione per l'universo del vino. E così, da sommelier, va in cerca delle vigne del mondo.

La chiesa di San Barnaba

Non so se avete la fissa come me della saga di Indiana Jones, ma nel caso questa chiesa avrà un aspetto familiare. Avete presente la scena dell’Ultima Crociata in cui il fascinoso archeologo entra in una biblioteca (dove la x che è sempre il punto dove scavare)? Ecco, il campo in cui è girata quella sequenza in cui si vedono bene una chiesa bianca con facciata settecentesca e la piazzetta con i tavolini è proprio questo. Ps. le catacombe però a Venezia mica esistono, non cercatele!

3) Basilica dei Frari

E’ un vero scrigno di tesori e il monumento funebre di Antonio Canova merita l’ingresso in questo complesso francescano (chiude alle 17.30, si può anche fare un biglietto comulativo per le chiese da 12 euro). Lo trovate subito sulla sinistra appena entrati: il bianco della grande piramide di marmo contrasta con la porta nera socchiusa al centro. E’ l’accesso a un altro mondo, impossibile per noi -proprio come per l’uomo in generale – vedere al di là di quella porta. Molto belle anche le cappelle dell’abside: è decisamente un suggestivo bagno di arte sacra.

4) San Giorgio

Venezia vista dal campanile di San Giorgio

Venezia vista dal campanile di San Giorgio

Un’altra tappa in chiesa, ma questa volta per salire sul campanile di San Giorgio. Siamo nella piccola isola, proprio a fianco alla Giudecca, raggiungibile col vaporetto numero 2 da San Zaccaria (molo B). Rispetto a piazza San Marco, la coda è nettamente inferiore (se non assente) e da questo campanile la vista sui sestieri di Venezia è molto suggestiva. Si riconoscono bene la forma caratteristica della città e la disposizione delle tante piccole isole che compongono quella costellazione acquatica che è la Laguna. Occhio a quando suona la campana!

5) Il mercato di Rialto

Mercato di #rialto #rialtobridge #venezia #venice #veneziadavivere

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Di solito amo dormire a Cannaregio, per essere vicina alla zona del Ghetto ebraico (la mia preferita), ma l’ultima volta abbiamo trovato una buona offerta proprio a un passo dal ponte di Rialto (a proposito, ho scoperto che marzo è uno dei momenti migliori per quanto riguarda i prezzi e in generale il periodo fra il carnevale e Pasqua!) e abbiamo cambiato base. Alloggiare qui permette di visitare in mattinata il mercato che si sviluppa vicino al ponte-simbolo: fra le bancarelle di frutta e verdura, quelle più affascinanti sono quelle del pesce. Granseole, moeche, capesante: è un tripudio di colori in un vociare continuo. Non perdetevi la lapide con scritte le lunghezze dei pesci concesse nei secoli scorsi: è uno dei tanti tuffi nel passato che offre questa città.

6) Mangiare le moeche

Moeche fritte!

Moeche fritte!

Dopo averle viste al mercato, non potete non assaggiare questi granchi privi del guscio, disponibili soprattutto in primavera. La bontà si paga, ma se le provate nella Trattoria Antiche Carampane, non troppo distante dalla zona del mercato, ogni euro sarà ottimamente speso. Le moeche sono servite croccanti, insieme con altre verdurine. Provate anche i tagliolini con la granseola!

7) Casino Venier

Trucchetti al Casino Venier

Trucchetti al Casino Venier

Non è facilissimo trovare questo piccolo appartamento, che oggi ospita l’associazione Alliance Francaise (siamo dietro piazza San Marco). Suonate e salite verso il mezzanino: vi si aprirà un mondo uscito da un romanzo. Questo ambiente era un casino, un luogo mondano di gioco e divertimento, uno dei pochi rimasto così intatto (grazie a un ottimo restauro). Bellissimi gli stucchi, gli affreschi e i tanti piccoli artifici dell’epoca: come un buco nel pavimento per vedere il passaggio nella stradina sottostante o grate da cui usciva la musica suonata nella stanza vicina.

8) Libreria dell’acqua alta

Uscita di sicurezza. #libreriaacquaalta #venezia #venice

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La Libreria dell'acqua alta

La Libreria dell’acqua alta

Appena si entra, dopo avere attraversato un piccolo cortile, c’è una gondola stipata di libri. E poi altre barche e vasche da bagno, tutte cariche di volumi. E’ un luogo più suggestivo che comodo per  gli acquisti forse, ma sembra che alla Libreria dell’Acqua alta ci sia ogni libro possibile. Ci sono più sale piene oltre ogni modo, con tanto di punti pensati per fermarsi a leggere. Il mio preferito è quello davanti all’uscita di sicurezza: una porta aperta sul canale. E’ in Calle Lunga Santa Maria Formosa, 5176/B.

9) Un giro a Burano

Burano *latergram* #venezia #venice #burano

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Mi piacciono molto le isole della Laguna, in particolare la Giudecca, ma Burano è uno di quei luoghi che sembra galleggiare in una bolla. C’è un’atmosfera sospesa, un po’ malinconica, ma senza esagerare, grazie all’esplosione di colori che si offre ai visitatori. Tutte le case dei pescatori, infatti, sono dipinte con toni pastello: questa isola famosa per la lavorazione dei merletti è un piccolo arcobaleno. Considerate diverse ore per la visita: il tragitto in vaporetto è piuttosto lungo (la linea è la 12, che passa anche per Murano).

10) Pizzette a volontà

pizzetta con l’acciuga: felicità -#Venezia — Inviato da WhatsApp

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La cucina veneziana è fantastica e va provata, anche se non sempre è a buon mercato (oltre al posto già citato al punto 6, un consiglio per mangiare bene e non spendere troppo: La Palanca alla Giudecca). Ecco, le pizzette sono un’ottima opzione per pranzare con pochi euro in una città fondamentalmente un po’ cara e sentirsi in pace col mondo. Adoro in particolare quelle con l’acciuga, ma in generale questa versione veneta con la base di pasta sfoglia mi fa impazzire. Le mie preferite sono quelle della pasticceria Nobile (Cannaregio, 1818), frequentatissima dai veneziani, altrimenti amo molto anche quelle dell’Aciugheta, nel Campo Santi Filippo e Giacomo (molto vicino a San Marco). Ma quanto sono buone, da accompagnare con un’ombra di vino bianco ovviamente!