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Una cena a Yokohama

L’olio sfrigola in cucina e il suono dei fornelli riempe i primi momenti di silenzio, quelli che si dissolvono subito, appena ci si siede a tavola. La mamma di Aya, la nostra amica giapponese che abita a Yokohama, si muove con sicurezza nel piccolo spazio a fianco alla sala da pranzo. E, di tanto in tanto, compare con nuove verdure in tempura: patate dolci, asparagi, funghi, melanzane. Un gambero, come gran finale. Madre e figlia si rammaricano di non avere preparato di più, proprio mentre in tavola arrivano anche soba freddi, da immergere nella salsa. Decisamente non ci sembra che il cibo sia poco, anzi.

Tutto è un po’ già visto e tutto è un po’ nuovo in questo mio terzo viaggio in Giappone. L’itinerario è molto tradizionale, perché con me e Patrick ci sono anche mia sorella e mio cognato, i miei due nipotini e una coppia di amici. E, nonostante alcune tappe giù viste, è un viaggio pieno di prime volte, come Kamakura, da cui proveniamo e dove abbiamo lasciato un mare autunnale e una spiaggia spazzata dal vento. Anche pensando ai più piccoli viaggiatori della nostra insolita compagnia allargata, ci è sembrata fantastica la proposta di Aya di andare a casa sua: l’incontro con la sua bambina sembrava un imperdibile faccia a faccia con un rappresentante del paese alto come loro. E noi, che veniamo dall’altra parte del mondo, ci troviamo in questa casa a un passo da Tokyo, in una città famosa per lo skyline notturno e per essere stato il primo luogo in Giappone ad avere aperto le porte agli stranieri. Coincidenze.

Il Buddha di Kamakura

Il Buddha di Kamakura

Arriviamo in ritardo e scesi dal treno ci lanciamo su un taxi, fra passeggini richiusi al volo e sacchetti volanti. Perderemo anche una giacca, che poi puntualmente sarà ritrovata e restituita perfettamente pulita e piegata. Yokohama è molto grande, è la seconda città del Giappone: le strade salgono e scendono, mentre dal finestrino cerchiamo di capire cosa sia quell’enorme stadio illuminato il cui campo sembra coperto da non una coltre bianca. Solo da più vicino capiamo: si stanno allenando dei giocatori di golf e quella che sembra neve su un pendio è una distesa di palline. E’ pura quotidianità quella che ci scorre sotto gli occhi, sembra di essere penetrati più a fondo in questo mondo, fatto di sport, palazzi e gente che rientra a casa. Mi sento calata in una dimensione più intima, lontano anni luce dai neon della metropoli che pulsa a qualche fermata di treno più in là.

La casa è una villetta su due piani: sembra molto grande e infatti, per gli standard giapponesi lo è. Ed è per questo che ci troviamo tutti qui stasera, staremo più larghi. Aya ci sta aspettando in strada, ci si sente sempre così accolti qui in Giappone. I nostri amici, ma anche gli sconosciuti, mi fanno sentire sempre un’ospite speciale. Ci togliamo le scarpe ed entriamo in casa: non sono mai stata in una casa privata giapponese, penso mentre entriamo nella sala da pranzo, dove ci attende una tavola perfettamente apparecchiata. C’è anche un’ala ricoperta di tatami. Perfetta per il tè, penso, ma in realtà diventa presto parco giochi  e punto d’incontro fra i bambini che si studiano a vicenda. La mamma di Aya abbraccia ognuno di noi per poi riprendere il controllo dei fornelli: difficile comunicare a parole, forse, ma a sorrisi e inchini ci capiamo al volo.

la tavola apparecchiata per noi

la tavola apparecchiata per noi

Non abbiamo mai assaggiato una tempura così buona e un fritto così delicato. Facciamo il bis di soba, gli spaghettini sottili che piacciono molto anche i miei nipoti. Mia sorella e Aya iniziano a parlare dei figli, degli orari di lavoro, dell’asilo, del ritorno a casa il prima possibile, dopo quei mille incastri che conoscono le donne a ogni latitudine. Con Aya ricordiamo quando ci siamo conosciute, a Bologna, cinque anni fa. Lei era in città per studiare italiano e Patrick, sapendo della sua passione per il calcio, l’aveva portata allo stadio. La sera eravamo usciti insieme, fra osterie e vicoli di un centro storico illuminato dalla luna di settembre. Me lo ricordo alla perfezione quel momento, ancora non sapevo che il Giappone sarebbe diventato così importante per me. E ora siamo qui, in casa sua, con le nostre vite che hanno preso le loro curve e lei che parla italiano sempre meglio.

I soba di grano saraceno

I soba di grano saraceno

Arriva anche il marito, con un sacchetto contenente birre e qualche bevanda per noi. Quella che all’inizio sembra timidezza, in realtà  diventa presto gentilezza, che da queste parti è disarmante. E’ uno dei tratti di questo Paesi che amo di più, lo capisco una volta di più. I bambini rompono gli indugi e iniziano a giocare insieme. La sala si riempe di risate, mentre i due papà sollevano e fanno roteare a turno i bambini, non importa di chi, fra gridolini divertiti. Partono foto, video, giochi. Sono rapita da questa scena, che è pura vita, entusiasmo, incontro. Penso che i miei nipoti sono fortunati a conoscere un mondo così lontano e diverso così presto, e spero che anche da questa occasione germogli in loro la stessa voglia di viaggiare che io scoperto tanto dopo. Questa casa giapponese che ci ha aperto le porte stasera è la mia immagine più viva per raccontare che cosa ho fatto nel mio ultimo viaggio in Giappone. Non c’è modo migliore per intendere l’amicizia, per sentire i propri legami di famiglia. Essere stati tutti insieme, in un salotto di Yokohama, famiglia.

A casa di Aya

A casa di Aya

Ps. inutile dire che, come se non bastasse, Aya ci ha dato anche dei regali quando siamo andati via (e lì sono partiti i fazzoletti, io e mia sorella siamo irrecuperabili)  e, con la madre (ognuna con la sua auto) ci ha accompagnati alla stazione. Dopo averci cercato e scritto su un foglio la combinazione di treni più comoda e veloce, ovviamente. E avere aspettato, salutandoci con la mano, fino a quando non siamo spariti in fondo alla scala mobile.

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