Latest Posts

Preparandomi al Laos

Foto dal sito della Lonely Planet (http://www.lonelyplanet.fr/destinations/asie/laos)

Foto dal sito della Lonely Planet (http://www.lonelyplanet.fr/destinations/asie/laos)

Perché andare in quel paese
Come mi è già successo in passato, alla vigilia di un viaggio mi chiedo perché ho scelto di andare proprio in un determinato Paese. Ci sono così tanti posti che mi affascinano: perché questo è arrivato prima di altri? Sto parlando del Laos, che da domani sarà la mia nuova meta, il punto di partenza alla scoperta di quel tetris di stati che sono Thailandia, Cambogia, Vietnam e Birmania. L’Indocina, leggevo l’altro giorno su un vecchio atlante. Che poi pensandoci, mi sono ricordata che quello era stato il mio primo atlante: me l’ero fatto regalare per un compleanno alle medie. La passione per carte e paesi lontani, io che non avevo mai preso un aereo (e i miei genitori neppure) era evidentemente già lì da qualche parte. Comunque dicevo. Perché il Laos. La risposta esatta non ce l’ho. In effetti ero partita dall’idea della Thailandia, che all’improvviso è diventata Cambogia e Laos e poi Laos da solo. Una full immersion a Bangkok è in programma, ma poi abbiamo deciso di concentrarci su un paese solo, per non saltare di qua e di là continuamente e provare a immergerci un po’. Anche se sarà solo un assaggio. E quindi eccoci in partenza per il paese su cui avevamo trovato meno cose scritte, meno foto, meno certezze forse.
Compagni di viaggio

Compagni di viaggio

E qui torno al punto di partenza: perché il Laos. Perché, dopo due viaggi in Giappone e uno in Turchia, quelli che per me sono gli estremi dell’Oriente, volevo vedere cosa ci sta in mezzo. Un libro che ho comprato, una mini guida su usi e costumi laotiani scritta da Mauro Proni (che poi vive lì da anni), nell’introduzione parte da una famosa frase di Terzani tratta da ‘Un indovino mi disse’: “Il Laos è uno stato mentale”. Se ho ben capito, il succo di queste righe è che durante questo viaggio bisogna necessariamente abbandonare tutti quegli schemi, quelle griglie che ci portiamo da casa saldamente racchiuse dentro la nostra testa. Che dobbiamo prepararci a un diverso significato delle cose, a una diversa scansione del tempo, a un altro ritmo. Il senso del viaggiare, e credo che sia questa la differenza con il concetto più lato di vacanza, è toccare con mano il diverso. Molto spesso è più brutto, più sporco, più scomodo di tutto quello cui siamo abituati (e venendo dall’Italia capita un po’ ovunque) e più volte ho pensato: ma chi me l’ha fatto fare di arrivare fin qui? La prossima volta Maldive. Ecco, superando questi scogli che già mi immagino ci saranno, mentre penserò che la frittata di formiche è forse un po’ troppo per me, spero di arrivare a capire questo stato mentale tutto laotiano.

E poi mi piace un sacco, come ho già scoperto a Cuba, quando le stagioni nei luoghi sono soltanto due. Due momenti che ritornano ciclicamente e che scandiscono la vita con semplicità. Più pioggia o meno pioggia. Più o meno caldo (e più o meno zanzare, ahimé). Meno complicazioni, meno stress, meno contraddizioni in una vita senza orologi. Il ritmo lento ci piace, anche se non so quanto ci sappiamo resistere dentro. Bene, tutto quello intendo scoprirlo in due settimane di Laos. Infine, un’altra cosa che mi affascina, a priori. I luoghi in cui la storia sta ancora cambiando rapidamente, anno dopo anno, il volto di un luogo. Leggendo la Routard del 2005 (non c’è una versione più aggiornata di questa in giro), è piuttosto diversa dalla Lonely Planet 2011. E anche i post in Rete più aggiornati sono contraddittori. Dove fino a pochi mesi fa si navigava, ora c’è una diga e non si passa più. Tanto per fare un esempio. Mai letto pareri tanto discordanti su un posto (questa però, di Silvia Moggia, è stata la mia lettura preferita). Insomma, credo che ci siano parecchie pagine da scrivere sul Laos. Non resta che partire.

Una cena di ostriche a Hiroshima

La barca-ristorante Kakifune Kanawa

La barca-ristorante Kakifune Kanawa

La barca delle ostriche

Otto portate, servite in una stanza tutta per te, in mezzo all’acqua. Del resto stiamo mangiando su una barca e, a dirla tutta, fuori sta anche piovendo parecchio. Ma non è solo l’atmosfera un po’ nostalgica di Hiroshima, o l’idea di essere appena stata servita da una adorabile signora in kimono a rendere questa cena così speciale. Il merito va soprattutto al menù (e, certo, alla persona che è con me e che l’ha scelto): otto portate colorate e raffinate unite da un ingrediente: le ostriche. Serve un passo indietro. Come ho già spiegato in un post precedente, associo molto Hiroshima alla buona cucina. Lo so che questa frase, proprio qui, suona strano. Dico solo che questa città ha due volti: quello ferito, che stringe lo stomaco e toglie le parole, e quello della vita che ricomincia, che scorre come il fiume sotto di noi, illuminato dal bagliore dei ciliegi. Ebbene, fra le caratteristiche culinarie di Hiroshima c’è anche l’altissima qualità delle ostriche (che in giapponese si chiamano kaki), pescate nel mare interno su cui si affaccia la città. Sono particolarmente grandi rispetto a quelle che mangiamo in Italia e infinitamente buone. Le ho sempre trovate cotte e il top è certamente la loro versione fritta. Ma chi vuole veramente farne una scorpacciata da raccontare ai nipoti deve proprio regalarsi una cena un po’ più costosa da Kakifune Kanawa (letteralmente barca delle ostriche).

Variazioni di ostriche (Foto di Patrick Colgan)

Variazioni di ostriche (Foto di Patrick Colgan)

Otto modi per dire ostrica

Entriamo e subito arrivano gentili signore a prendere cappotti e scarpe. Certo, quelle si levano sempre, figuriamoci in un posto così. Mi colpisce il vociare che viene dalle stanze: i giapponesi a tavola (di sabato sera poi) hanno sempre l’aria di divertirsi parecchio. Noi veniamo portati però in una saletta tutta per noi: una parete è un’enorme vetrata che dà sul fiume. E qui comincia lo spettacolo: abbiamo scelto (prenotandolo prima) il menù da otto piatti (circa 8mila yen, ed è quello medio). L’adorabile signora (mi è proprio impossibile chiamarla cameriera francamente) entra esce con la discrezione tipicamente giapponese, ma con mosse veloci e decise. Il primo piatto che ci mette sotto il naso è orizzontale: sopra troviamo cubetti di ostriche affumicati. Una specie di finger food, davvero ottimo per stimolare l’appetito. Un cubetto è mantecato, uno è servito con acciughe e uno sembra uno sformatino. La versione affumicata la troviamo anche nella portata successiva: sono ostriche fredde, lasciate nella loro conchiglia, con una gelatina di frutta e pezzi di kiwi. Sapore forte, ma il contrasto è fantastico.

Ostriche e kiwi (Foto di Patrick Colgan)

Ostriche e kiwi (Foto di Patrick Colgan)

26-DSC_3223
Ostriche fritte - kaki furai (Foto di Patrick Colgan)

Ostriche fritte (Foto di Patrick Colgan)

Le specialità: Kaki furai (ostriche fritte) e Kaki nabe

Proseguiamo con qualcosa di più classico: altre due ostricone alla griglia: le più semplici della serata, ma dal gusto pieno e sapido. Segue la mia versione preferita di sempre: quella pastellata e fritta (kaki furai), servita con insalatina e maionese. Mi colpisce che anche in un posto così raffinato, questo piatto di ostriche fritte richiama in tutto e per tutto la versione popolare, normalmente proposta nelle izakaya. Per me il contrasto del sapore di mare con la scioglievolezza in bocca della pastella raggiunge vette elevatissime. E poi sotto ancora con la versione in brodo: qui il sapore ricorda un po’ la zuppa di miso per quanto questa sia molto più saporita.

Quella successiva è buonissima: ricorda il modo in cui viene cotto il nabe (carne nel pentolone, all’incirca) e, non a caso, si chiama kaki nabe. Viene allestito un fornelletto sul tavolo e nel recipiente l’ostrica viene scaldata assieme a porri, funghi e tofu. Si tratta di un’altra preparazione classica e i sapori si fondono alla perfezione. E poi ancora una versione calda: ci servono una specie di risotto con una spolverata di stracciatella. Ammetto, alla fine non le potevo più vedere queste ostriche, ma, mentre sorseggiavo il tè verde alla fine, mi era chiaro che avevo appena vissuto quelle cene che si ricordano per la vita. Così come mi ricordo come se fosse ieri, l’adorabile signora in kimono che mi regala l’ombrello all’uscita e ci accompagna fino alla fine del ponte. Quando mi sono voltata, mi salutava ancora con la mano.

⇒⇒ Le ostriche alla griglia sono anche un classico piatto di street food sull’isola di Miyajima

 

Roche de Solutré

Sorsi di Borgogna: istruzioni per l’uso

Sulla strada dei Grand Cru

Sulla strada dei Grand Cru

“Allora, cosa ne pensate? Riuscite a sentire la differenza fra diversi terroir?”. L’invito, pronunciato in un sinuoso francese, è rivolto a due tedeschi intenti a degustare alcuni rossi e che lasceranno il castello di Prémeaux con due casse di bottiglie. Noi siamo lì a emozionarci col naso dentro a un premier cru, ma ne compriamo solo una bottiglia, che dovremo fare riposare qualche anno in cantina per lasciare al vino il tempo di raccontare qualcosa in più di sé. Ma questa è la lezione della Borgogna. La pazienza e l’attesa, perché le cose fatte bene richiedono il loro tempo. Così come, allo scorrere del tempo, resistono miracolosamente castelli e abbazie, che punteggiano la collina coperta di vigne. La pazienza, se si vuole viaggiare in autonomia, serve anche nella preparazione del viaggio, visto che non sono tanti i siti in italiano che forniscono un’idea precisa di come muoversi sul posto. In questo post voglio raccontare, ancora prima delle cantine che ho visitato, cosa si cerca e cosa si beve in Borgogna (mi scuso con gli esperti per il linguaggio un po’ molto semplificato usato dalla sottoscritta, ma così ci capiamo tutti). Ecco qualche dritta, insomma, su aspetti che, nonostante abbia studiato parecchie pagine sulla regione per il mio esame da sommelier, ho capito davvero solo esplorando questo verde angolo di Francia.

Ma che cos’è sta storia del terroir

Quando mi dicevano che in Francia non gliene frega nessuno del vitigno, ma quello che conta è il terroir non era davvero così chiaro. Il punto è che qui in Borgogna il vino porta il nome del territorio. Nel senso che se la vigna (il climat) si trova sulla collina Saint-Véran, ecco quel vino si chiama direttamente Saint-Véran. Che il vitigno sia un Pinot Nero o uno Chardonnay è successivo: la bottiglia individua un preciso fazzoletto di territorio. Secondo punto di tutta la faccenda è che ogni collina, con il suo speciale orientamento al sole o con la sua peculiare composizione del terreno, dà un risultato unico e inimitabile. L’unione di questi aspetti è quel terroir che i produttori introducono sempre prima di ogni degustazione. Ed è proprio quello che ci beviamo.

Roche de Solutré

La roccia di Solutrè, che dà il nome a un vino bianco a base Chardonnay

Che vini si bevono in Borgogna

I vini sono prodotti in zone contraddistinte da vitigni precisi. Sono tutti molto diversi da loro. Al sud, venendo da Lione, c’è il Beaujolais. Qui si beve il Beaujolais nouveau, un vino che assomiglia molto (nel processo di vinificazione) al nostro Novello. Per chi snobbasse questo genere, pare che molti giovani produttori però stiano partendo proprio da questa zona visti i prezzi inferiori dei terreni. Si prospetta, forse, un crescente interesse. Salendo ancora un po’ si arriva nel Mâconnais. Siamo fondamentalmente nella roccaforte dei bianchi, in primis il profumato Poully-Fussè: in altri termini un ottimo Chardonnay. In verità abbiamo provato anche qualche rosso a base Gamay. Non male. Salendo si arriva nel paradiso della vite: la Côte d’Or. A sud, vincono ancora i bianchi nella zona attorno alla graziosa cittadina di Beaune. Stiamo sempre parlando di Chardonnay, o eventualmente di Aligotè: un’uva che regala una buona dose di acidità, ottima anche come base per i Crémant (gli spumanti metodo classico prodotti fuori dalla regione Champagne). Salendo ancora verso Digione, ci si inoltra nel panorama vitato della Côte de Nuits, empireo dei rossi, dei cru, prodotti col capriccioso Pinot Nero. Vini che nella loro versione più raffinata (Grand cru e premier cru, di solito in corrispondenza di vigne particolarmente antiche su terreni vocatissimi) fanno viaggiare la fantasia fra boschi e frutteti profumati, o in un caravanserraglio ricco di spezie. Infine, salendo ancora, ma verso Ovest, nella Yonne tornano in auge i bianchi a base Chardonnay: la star in questo caso è lo Chablis. Ovviamente i prezzi cambiano notevolmente: se per un ottimo crémant bastano 8 euro, un premier cru può costarne alcune centinaia.

Una mosca bianca: un rosso nel Maconnais

Una mosca bianca: un rosso nel Maconnais

Come visitare le cantine in Borgogna

Il quadro è variegato. Un buon punto di partenza sono i numerosi uffici del turismo che si trovano nelle città attraversate dalle diverse vie del vino. Tante le aziende segnalate in numerose brochure disponibili nei punti informativi di Mâcon, Beaune e Nuit St. George. Sempre qui si trovano anche gli itinerari per esplorare la zona in bici o, perché no, in mongolfiera. In linea di massima, per essere certi di incontrare il produttore, conviene scrivere prima una mail per un appuntamento. Il periodo precedente la vendemmia (che inizia grosso modo il 15 settembre) si è rivelato utile perché poi molti non danno più disponibilità. Ovvio è che erano tutti molto indaffarati o in fase di preparazione della cantina. Sistema numero due: presentarsi nei diversi clos, chateaux (le grandi tenute storiche), cantine sociali o domaine (aziende) negli orari indicati e chiedere di fare una degustazione. Il giro in cantina non è garantito, ma si possono incontrare comunque persone e vignerons molto disponibili. Altro sistema, ancora più semplice, ma non necessariamente economico: partecipare a tour organizzati. Ce ne sono moltissimi, della durata di una giornata o anche solo di una manciata di ore con prezzi che oscillano dai 60 euro ai 200. Molti che ho visto su internet partivano da Beaune e prevedono il trasporto in fuoristrada, qualche degustazione in vigna ed, eventualmente, anche il pranzo. Ecco un paio di indirizzi: Burgundy Discovery (che mi pare quello meglio recensito) o Vineatours. Ci sono poi delle tenute speciali, che si visitano come musei (e i prezzi dei vini non sono per tutti): come lo Chateau de Vougeot, storico castello abitato da monaci che oggi appartiene alla Confraternita del Tastevin, o la tenuta dei Romanée Conti.

Lo Chardonnay bevuto a Azé è tutta un'altra cosa

Lo Chardonnay bevuto a Azé è tutta un’altra cosa

Come spostarsi in Borgogna

Per un tour enogastronomico come questo io consiglio vivamente di muoversi con l’auto. Il viaggio dall’Italia (nel mio caso con partenza da Bologna) dura circa sette ore: non è poco, ma la strada da Torino in su è molto suggestiva e al dunque il tragitto può essere intervallato da soste piacevoli (come la nostra, ad Annency, in Savoia). L’unica cosa davvero esasperante sono i continui pedaggi: sia nell’ultima tratta italiana che oltre confine. Operazioni piuttosto veloci alla dogana, questo sì: anche se attraversare il Traforo del Frejus non è economico: parliamo di una cinquantina di euro andata e ritorno.

Viaggiare in auto significa potersi fermare spesso: dietro ogni curva c'è un tesoro da scoprire

Viaggiare in auto significa potersi fermare spesso: dietro ogni curva c’è un tesoro da scoprire

Infine, ecco qualche link utile
Cosa visitare nel Mâconnais
Una panoramica sulla Borgogna: tutti i riferimenti per le Chambres d’hôtes (che poi sono una specie di guest house)

In Alto Adige lungo la strada del vino

Il lago di Caldaro visto dal paese

I luoghi
Penso che pochi posti come l’Alto Adige siano la prova di come il turismo possa ruotare attorno al vino. Nel senso che prima scegli le cantine, poi ti rendi conto che c’è anche tanto da vedere. E da fare. Belle passeggiate, paesini pittoreschi e la guduria delle Terme di Merano. Sono luoghi che amo particolarmente, tanto che, dopo un fortunato incontro al Vinitaly, circa ogni sei mesi cerco di passarci. E alla fine, dopo che avevo lasciato questo post in ‘gestazione’ per alcuni mesi, l’ho terminato dopo esserci tornata anche quest’estate. In tutte le stagioni ho provato però una cosa: il lago di Kaltern (Caldaro) regala un clima incredibilmente mite. Sulle sue rive, dunque, si trovano i vigneti di Schiava e Pinot Nero, mentre sui pendii, ripidissimi, crescono le uve bianche. A Favogna una vigna resiste da molti anni anche a mille metri. E sembra lottare in tutti i modi, e l’uomo assieme a lui, per sopravvivere in quota. Insomma, è un fazzoletto d’Italia pieno di paradossi, a partire da quello linguistico, ma torniamo al vino, il vero protagonista del viaggio.

Che i bianchi altoatesini mi piacessero, l’avevo già scoperto dal mio primo corso all’Aies, ma visitare le cantine che si trovano lungo la Strada del vino (suedtiroler-weinstrasse) – da Salorno a Nalles- è un’esperienza unica. Sono veri e propri piccoli musei, spesso realizzati in vetro, legno e altri materiali naturali. Una delle più belle è la Cantina Tramin: l’architettura esterna ricorda l’intreccio della vite. Molto elegante è il wine shop di St. Michael Eppan, arioso, in legno chiaro con grandi banconi per la degustazione. In entrambe, così come nelle altre, si può degustare gratuitamente o a cinquanta centesimi al bicchiere: dipende se poi acquistate o no. Scordatevi bevute stile aperitivo: qui il banco d’assaggio viene preso molto seriamente.

Il wine shop di San Michele Appiano

Il wine shop di San Michele Appiano

I vini

Non mi posso definire un’esperta, ma per il mio livello di conoscenze e gusti personali, il Gewurztraminer prodotto in questa manciata di chilometri è davvero eccezionale. Ogni sorsata è un’estasi di profumi. Io ci sento in particolare la rosa e frutti gialli, litchies e una freschezza incredibile. Anche gli abbinamenti sono tantissimi: dall’aperitivo ai piatti orientali. L’ho provato, è ottimo anche con il sushi. Per questo vino bianco aromatico, le mie aziende preferite sono Hofstätter e Ritterhof. La prima si trova nel centro di Tramin, proprio di fianco alla chiesa. Purtroppo, non sono ancora riuscita a fare il giro nelle vigne (che in parte si trovano proprio dietro alla cantina) in fuoristrada. In primavera ci riprovo. La cantina propone due linee: il Joseph, che abbraccia dal Pinot Bianco al Lagrain. Il livello è già ottimo, ma chi volesse qualcosa di unico, ad esempio fra i rossi, dovrà provare il Pinot Nero Riserva Mazon. Cresce sull’omomino altopiano e le viti hanno più di trent’anni d’eta.

Tre vini in degustazione alla cantina Ritterhof

Tre vini in degustazione alla cantina Ritterhof

Tornando al Gewurztraminer, confesso che sono una  vera fan dei vini di Ritterhof, sempre a Keltern. Uno dei motivi per cui mi sta a cuore questa cantina è che l’unica (almeno per il momento mi è successo solo qui) in cui si ricordano di te. E’ sempre bello tornare nei posti e, a distanza di sei mesi, essere subito riconosciuti dal ragazzo al banco d’assaggio che vi illustrerà tutta la gamma. Anche in questa cantina vi è una linea base, la Ritterhof, che propone i vini classici dell’Alto Adige. Dal Lago di Caldaro Classico Doc – semplice, ma impeccabile-, ai Pinot bianco, grigio e nero. Molto interessante l’Alto Adige Moscato giallo Doc: è un vino secco, incredibilmente aromatico. Al primo assaggio sembrerà abboccato, in realtà è solo ricco di sentori di frutti e fiori. L’altra linea, la ‘Crescendo’, è, se possibile, ancora superiore. Si tratta di una sorta di edizione limitata, selezionando le uve delle annate migliori e da terreni con basse rese. Oltre al Gewurztraminer, un bouquet freschissimo nel palato, da provare è il Pinot Nero, dalle note speziate e sentori di frutti rossi.

Un altro paio di cantine che mi hanno entusiasmata. La prima, sempre a Kaltern, è la Tenuta Manincor. Il luogo è ricco di fascino, sia perché si entra nel castello del conte, sia per la professionalità del personale. Il conte Michael Goëss-Enzenberg ha fatto le cose in grande e si è dato al biodinamico. In cantina, una chicca da provare è, questa volta, un rosso. Io di solito preferisco i vini in purezza ai blend, ma il Cassiano è un’eccezione: 50 per cento di Merlot, per cento Cabernet Franc 30 e 5 per cento dei vitigni Cabernet Sauvignon, Petit Verdot, Tempranillo, Syrah. La nota speziata è davvero interessante. Un’altra cantina che merita una sosta è quella di St. Michael Eppan, nell’omonimo comune, l’ultimo avanzando verso Merano. Del wine shop ho già fatto cenno più su, per quanto riguarda i vini, ne segnalerei due. Il primo è un Alto Adige Sauvignon 2011 della linea Sanc Valentin: per niente scontato. L’altro è un Alto Adige Riesling ‘Montiggl’ 2011, della linea Cru. L’ho trovato molto raffinato e si presta anche un leggero invecchiamento. Infine, la mia ultima scoperta si chiama Stroblhof, sempre a St. Michael Eppan.

Vista sulle vigne Stroblhof

Vista sulle vigne Stroblhof

A parte il fatto è possibile alloggiare in uno stupendo hotel-ristorante fra le vigne (non l’ho provato, confesso che era fuori budget, ma ho ripiegato alla grande su questa pensione), i vini pensati da Andreas Nicolussi-Leck sono davvero eleganti. Il mio preferito è il Pigeno, un Blauburgunder dal caratteristico colore scarico e un bouquet floreale di grande intensità. Buono buono buono.


Piccole istruzioni per l’uso se vi trovate sulla Weinstrasse

Occhio al calendario
Sempre bello visitare i posti fuori stagione o lontano dal fine settimana. Ma qui non fanno certo a botte per attirare i turisti e dunque attenzione ai giorni di apertura dei posti. Nel tratto fra Tramin e Merano potreste trovare molti ristoranti chiusi a pranzo; altri masi o locali restano chiusi per tutti i mesi invernali, anche sotto le feste (vale pure per i pernottamenti). Controllate sempre. Una guida con informazioni in merito è quella del Touring e Slow Food ‘Alto Adige Südtirol -Tra masi e castelli, laghi e cime alpine strade del vino e sapori mitteleuropei’. Se vi trovate a Tramin, un posto da non perdere è Le verre capricieux, il bistrot di Elena Walch. Non solo per le degustazioni in cantina, ma soprattutto per pranzare nello stupendo giardino. La Walch, del resto, è architetto e ha saputo unire le sue due passioni in questo piccolo angolo di paradiso. Sia il pesce che i formaggi non sono regalati, ma veramente ottimi. Se vi fermate, cedete al dolce: di solito sono proposte un paio di torte e il vino di accompagnamento è da urlo.

Le verre capricieux

Le verre capricieux ( Foto tratta dal sito di Elena Walch)

Gli orari delle cantine
La maggior parte sono chiuse proprio nel fine settimana, quindi attenzione, soprattutto se vi avventurate la domenica.

Non aspettatevi cibo
Nessun cracker, tanto meno grissini. Nessuna variante del maiale (lo so, sono emiliana e ogni occasione da noi è buona per allungarti una fetta di salame). Quindi preparatevi: per godervi al meglio l’assaggio conviene ‘aver fatto un po’ di fondo’ (però cfr. punto 1).

Per saperne di più, ecco un altro punto di vista sul tema

Andamento lento: isola di Amorgos

Ripensai a quello che l’abate Tofukuji mi aveva detto, cioè che anche un uomo d’affari o un giornalista aveva qualcosa da imparare trascorrendo una notte in un monastero e assaporando un momento di pace. Uno deve imparare a non rincorrere il tempo, aveva suggerito. “Se ti affretti, c’è una parte del mondo che non riuscirai a vedere”, aveva detto. “Se, per esempio, stai imboccando un percorso sbagliato della tua vita, è solamente quando ti fermi e osservi le cose con chiarezza che puoi cambiare direzione e ritornare su un più appropriato percorso. Il messaggio Zen è che per trovare te stesso, devi imparare a fermarti.

Pico Iyer, Il monaco e la signora

Una porta sul mare (Foto di Matteo Martino)

Una porta sul mare (Foto di Matteo Martino)

Ho deciso che sarei andata ad Amorgos guardando la foto di una porta, a casa di amici. Una porta di legno appoggiata sulla spiaggia, a riva,spalancata sul mare. Un’immagine da brividi, questa soglia aperta sull’orizzonte. Solo due anni dopo, scendendo assonnata dal traghetto e muovendo i miei primi passi sull’isola, avrei scoperto che non avevo mai neppure immaginato un mare così blu, un’acqua dal colore così intenso, a tratti violaceo. Non può che essere questa, quella del blu, la prima immagine che affiora pensando a come descrivere quest’isola, la più orientale delle Cicladi, abbracciata dall’Egeo. Un luogo che fa bene alla mente e soprattutto al ritmo interiore, condannato a essere fuori tempo rispetto alla vita frenetica di tutti i giorni. Blu è il cielo, raramente velato da una nuvola nei giorni in cui il meltemi si riposa. E  blu sono porte e le finestre di tutte le case, comprese quelle della nostra pensione. E’ ‘Grande’ è il blu che ha ispirato il regista Luc Besson nel suo strampalato e onirico film degli anni Novanta (lo proiettano tutte le sere in un pub di Katapola).

In cima all'isola

In cima all’isola

La spiaggia di Agios Pavlos

La spiaggia di Agios Pavlos

Vivere ad Amorgos: Henrietta e Paul

La seconda immagine di Amorgos è quella di fiori, di pesci, di barche disegnate. Decorazioni sulle strade, come fatte da bambini, che mettono allegria a chi cammina in paesini appena sfiorati dal tempo. “Deve essere una caratteristica proprio di quest’isola”, commenta pensosa Henrietta quando le chiedo se è un’abitudine cicladica quella di decorare le strade. Non ha dubbi invece sul perché tutti i gradini siano bordati di bianco candido: per vedere meglio le scale nella notte e non inciampare. Del resto qui la corrente elettrica fino a qualche anno fa non era poi così scontata. Henrietta e il marito Paul Delahunt-Rimmer lo sapevano quando negli anni Novanta lasciarono tutto e vennero a vivere ad Amorgos. L’isola “migliore” per camminare. Per andare piano. Le persone del posto devono averli presi per matti quando scelsero una casa sotto Langada, uno dei tre deliziosi paesi che sovrastano Egiali, il secondo porto dell’isola. Assieme a Potamos e a Tholaria, è annidato sopra la baia per sfuggire agli sguardi indiscreti: il mare, infatti, portava pericolo. Portava i pirati e gli abitanti si sono ritirati nell’interno. Basta mangiare da queste parti per capirlo: il piatto tipico si chiama patatato, spezzatino di capra con patate e la cucina offre altri intingoli simili. In generale il menù è adatto agli amanti della carne, con decisi rimandi alla cucina turca. Henrietta e Paul hanno fatto di questa isola il loro primo esperimento di eco-turismo. Hanno progressivamente avviato un circuito, esteso poi al Botswana, che propone strutture ricettive che sposano la loro filosofia realmente slow. A Langada è rappresentato dal Pagali, una specie di agriturismo a gestione familiare diretto dal gioviale Nikos. In poco ci mostrano le fresche stanze che guardano verso il mare, il negozio di erbe curative e la fattoria con animali e orto. Fanno vino e olio, sono completamente autosufficienti. Incontriamo anche la madre che sbuccia le patate, all’ombra di un pergolato.

Fiori sulla strada, Potamos

Fiori sulla strada, Potamos

Potamos

Potamos

Dove osano le capre

La terza immagine sono capre. Sono dappertutto. Te le trovi davanti in mezzo alla strada, l’unica, finita quindici anni fa, che attraversa l’isola. Henri e Paul ci spiegano che Amorgos è una delle poche isole che ha mantenuto due porti in un periodo di tagli drastici. Il motivo è che esiste questa unica strada, che però si alza vertiginosamente da un capo all’altro e così l’approdo dal mare resta doppio. D’inverno la nebbia può diventare un autentico pericolo e anche d’estate questa unica strada asfaltata non è certo adatta ai motorini. Ma nel caldo che secca la gola di luglio faccio fatica a immaginarmi questi rigori invernali. Le uniche a trovarsi a proprio agio in questa terra sassosa, bruciata dal sole, sembrano proprio loro: capre di tutte le dimensioni e colori che si richiamano da una valle all’altra e obbediscono alle grida serali dei pastori. Sono appollaiate ovunque e gli abitanti in passato hanno sezionato la campagna con muretti di pietra, anche per evitare che le capre venissero a banchettare in orti e campi. Ma loro, incuranti, si accontentano di brucare a bordo della strada, mentre il vento gioca con le loro campanelle di latta.

Capre che non soffrono di vertigini

Capre che non soffrono di vertigini

.. e neanche di solitudine

.. e neanche di solitudine

Amorgos fra chiese e mulini

La quarta immagine è il bianco. E’ il bianco dei mulini che formano una corona sopra Kora, il paese principale dell’isola. Sono in fila indiana, ma non funzionano più: le loro pale sono rotte, come braccia spezzate, alcuni sono privi di tetto. Segno del tempo che passa e che rende questa località più reale, meno artefatta, come a volte capita di vedere in altre isole. Incantevole la vista al tramonto, quando li si vede lassù, allineati, mentre si sorseggia un aperitivo su uno dei bar con terrazza del centro. Bianche sono le chiese che punteggiano la campagna, dei santuari isolati che si risvegliano per le feste dei santi o per la Pasqua, che nel culto ortodosso è la ricorrenza più importante. La calce è così brillante perché ogni famiglia ha la sua chiesetta e si occupa della manutenzione. Bianco, infine, come panna spruzzata su una scogliera di cioccolato, è il monastero della Panagia Hozoviotissa, il monumento simbolo dell’isola. Aggrappato alla roccia sembra il frutto di un lavoro disumano per ancorare lassù, al riparo dei pirati, questo luogo sacro, in cui è venerata una preziosa icona della Vergine. Salire è fatica, anche perché siamo avvolti in abiti pesanti per non rischiare di restare fuori: le donne non possono entrare con pantaloni o braccia nude. Arranchiamo su questi gradini interminabili e non immaginiamo neppure che dentro ci aspetterà pure una bevuta di psimeni rachi, il liquore locale. E’ il colpo di grazia alle gambe fiaccate dal caldo: forse è per questo che in molti dopo corrono verso la spiaggia sottostante, quella di Agia Anna. In cerca del blu che fa rinascere.

Il monastero della Panagia Hoziovotissa

Il monastero della Panagia Hoziovotissa

Chiese sul sentiero

Chiese sul sentiero

Luna sopra i mulini a Chora

Luna sopra i mulini a Chora

Qualche nota su Amorgos

I coniugi Delahunt-Rimmer hanno scritto due libri sull’isola di Amorogos: Amorgos. The secret Jewel of the Cycaldes, che unisce aneddoti sull’isola alle mappe per il trekking (10 itinerari) e Out of the Rat Race into the fire in cui raccontano la loro vita sull’isola. Questo è il loro sito internet.

Dove dormire ad Amorgos

Io consiglio nettamente Aegiali su Katapola per due motivi: il primo è che si trova a un tiro di schioppo dai paesini di Potamos, Langada e Tholaria, francamente imperdibili. La seconda ragione è che ad Aegiali c’è anche un po’ più di movida serale: molto soft ma vagamente hippie, molto carina.
Per dormire, noi ci siamo trovati molto bene alla Pensione Pelagos, subito sopra al paese. Comoda per andare a piedi, essenziale, ma pulita e abbastanza economica (55 euro la doppia). Per chi non ha paura di un po’ di salita, consiglio vivamente Pagali, a Langada o gli appartamenti Uranos, a Potamos.

Come arrivare ad Amorgos

Ci sono almeno due collegamenti dal Pireo pure d’inverno e in alta stagione approdano tutti i giorni sia i traghetti che i catamarani veloci. Posso consigliare di viaggiare anche verso Rafina, secondo porto di Atene e più vicino all’aeroporto.

Canava Roussos

Le cantine di Santorini

sant

Santorini vista dalla cantina Antoniu (Foto di Patrick Colgan)

Uno dei motivi per cui la vite mi sta così simpatica è che cresce, e bene, nei posti più impensati. Meno scontati. Uno di questi è Santorini, una semiluna di terra annerita nel cuore delle isole Cicladi, in Grecia. E l’altra cosa che me la rende ancora più simpatica è che è una pianta che i luoghi li racconta, li sintetizza. E a Santorini l’ho notato una volta di più. Il mio rapporto con il vino greco fino adesso era caratterizzato da una profonda simpatia, per la rinfrescante e traditrice retsina, o per quei ‘vini del contadino’ che spesso ti propongono nei paesini. Ma non mi ero ancora trovata davanti a un vino qualitativamente così interessante come quello di Santorini, dove la viticultura ha una sua secolare tradizione. E, sembra strano a dirsi nel cuore dell’Egeo, ma la via principale che collega i vari punti della minuscola isola è una Strada del vino. Sono molte le cantine presenti sull’isola, come racconta molto bene un capitolo della guida Marco Polo. Soprattutto sono ben indicate quelle prese d’assalto dai turisti stipati sui pullman, unico vero aspetto urticante di Santorini. Nelle due che racconto qui, invece,il problema non si è presentato.

La cantina Galavas a Megalochori

Un ottimo benvenuto in paese

Un ottimo benvenuto in paese

La cantina si trova nel cuore del sonnolento paesino. Il centro è costituito da poche strade, in cui le bouganville esplodono sul bianco accecante delle case. Diversamente forse si passerebbe di qui, lasciando la via principale che porta verso le spiagge di Perissa. Si arriva in un fresco patio di pietra: all’ora di pranzo ci siamo soltanto noi. La famiglia fa vino dagli anni Venti e la produzione è rivolta sostanzialmente verso l’isola o Alessandria d’Egitto. L’assaggio di alcune etichette costa 5 euro, con crostini di accompagnamento. Scopriamo subito le principali varietà autoctone di Santorini, come l’Assyrtiko: un bianco fresco e sapido. Ci sento subito erbe aromatiche e tanta mineralità.

Il vino rosè

Il vino rosè

Ancora più interessante è però il Nykteri: fa anche un passaggio in legno che dona morbidezza e maggiore equilibrio. Deve il nome alla vendemmia notturna, fatta anche per evitare il caldo e i rischi di fermentazioni spontanee. Questo vino mi tornerà in mente il giorno dopo, sull’isoletta di Nea Kameni: creatasi solo nel Settecento dopo l’ennesimo episodio sismico della zona. E’ un pezzo di terra letteralmente affiorato dalla caldera del vulcano che nel 3.600 a. C. si era portato via la metà dell’isola. Su quelle rocce nere, arroventate, ancora in formazione, in alcuni tratti si sente odore di zolfo. Ecco, dentro il Nykteri avevo sentito questo: profumi, asprezza, calore.

Di questa cantina segnalo anche il rosè, Voudomato, che qui d’estate accompagnano alla carne alla griglia ed è caratterizzato da sentori di frutta rossa fresca. Molto gradevole col caldo. Il pezzo forte è, ovviamente, il Vinsanto: un vino che bevono anche come aperitivo perché non è mai troppo alcolico (anche se l’alto residuo zuccherino me lo fa visualizzare in tavola con un dessert, ecco). Comunque sia il Visanto (che costa non meno di una trentina di euro) è prodotto a partire sostanzialmente da tre vitigni: Assyrtiko, Athiri e Aidani. Le vinacce vengono raccolte e poi fatte appassire per giorni. Il colore caramello e la dolcezza non stucchevole ne fanno un vino davvero interessante. Vale la pena di rischiare di allagare la valigia e portarselo a casa.

Vinsanto finale

Vinsanto finale

Cantina Antoniu

Tradizionalmente, uno dei punti noti (fin troppo) di Santorini in cui si ha la vista migliore sulla caldera sarebbe Oia. Non tutti forse sanno, però, che dalla cantina Antoniu, vicino al paesino di Pyrgos, lo sguardo abbraccia il mare scintillante come, secondo me, in nessun altro posto dell’isola. Questa azienda, aggrappata alla parete rocciosa, era segnalata sulla guida proprio per la spettacolarità della location. Grande, dunque, la nostra delusione nel trovarla chiusa con tanto di lucchetti. Ancora non abbiamo ancora capito il motivo (non ci hanno risposto alla mail), ma mi auguro vivamente che fosse solo un momento di ferie. In ogni caso, oltre alla commovente vista sull’intenso blu di Santorini, siamo comunque riusciti a vedere bene le vigne coltivate con l’alberello basso un sistema di allevamento particolare che dalle mie parti, nel nord Italia, non si vede: le piante sono bassissime, un po’ interrate, e le radici avvolgono i frutti come in una spirale protettiva. Un piccolo nido, insomma, per riparare gli acini dal caldo soffocante.

Le vigne di Santorini

Le vigne di Santorini

Cantina Roussos

Abbiamo così proseguito verso la tappa successiva, la Canava (Cantina) Roussos, nel sud dell’isola (d’estate è aperta tutti i giorni fino alle 19). Anche qui si lascia il caldo della strada entrando in un fresco cortile di pietra, con molti tavoli per la degustazione (che costa 10 euro per sei assaggi e qualche stuzzichino, tipo i famosi pomodorini di Santorini). Qualche esempio?  Un nome, un programma: il vino Caldera. Ovviamente non poteva che essere Assyrtiko (più Mantilaria) che si fa una dormitina in botte per un anno: speziato e tannico. Grandi soddisfazioni anche con la triade di vini dolci. A me è piaciuto molto l‘Athiri, che in realtà è semidolce: i grappoli vengono lasciati appassire per quindici giorni, processo che lascia un colore dorato e profumo di frutta secca. Il mio preferito è comunque il Mavra thiro, tanto che me lo sono portata a casa. E’ un rosso dolce, che ricorda un passito, e prende il nome proprio da questo vitigno (non in purezza però). A differenza del precedente il sonnellino in botte dura tre anni e i sentori ricordano i frutti rossi e la cannella. Siamo alle solite, qui lo presentano come aperitivo, ma io francamente lo vedrei meglio col cioccolato.

Degustazione alla cantina Roussos

Degustazione alla cantina Roussos

Un'ampia scelta

Un’ampia scelta

Link su Santorini

Ecco qui sotto un altro paio di spunti: itinerari a Santorini (sul blog Orizzonti) e il viaggio nelle cantine (di Mi prendo e mi porto via). Buona lettura

Una cena a Taketomi

Per strada a Taketomi

Per strada a Taketomi

Ci sono un americano, un giapponese e un italiano. Non è l’inizio di una barzelletta, ma il racconto di una sera magica passata a Taketomi, una minuscola isola sperduta nell’oceano Pacifico.

Tutto inizia e finisce a tavola, nell’unica taverna che troviamo aperta. Non sono neanche le sette di sera, ma le prime ombre ormai iniziano a scendere dopo che i turisti se ne sono andati con l’ultima barca. Nelle strade, fatte non di asfalto, ma di corallo sbriciolato, cala una luce azzurra che si porta via il caldo della giornata. Sulle nostre biciclette cerchiamo un posto per cenare: nella minshuku che ci ospita non avevamo prenotato in anticipo e così dobbiamo cercare fra quel gruppetto di case basse che forma il paese di Taketomi. Ma, alla fine di marzo, siamo ancora in bassa stagione e il timore è di restare senza pasto. Invece, in questo vivace locale non si fanno problemi: ci mettono a tavola assieme a un signore americano. Impossibile non notarlo: indossa una giacca a vento rossa e assomiglia in maniera incredibile a Toni Servillo. C’è un momento di ogni viaggio in cui non si scordano più le facce di persone incrociate per chissà quale riga tracciata dal destino. Ci si conosce, ci si sfiora e si riparte con qualcosa di più. L’americano non ci mette molto a chiederci chi siamo e da dove veniamo. Dopo due minuti abbiamo già una birra in mano. La domanda è sempre quella che tutti ci fanno da quando siamo arrivati a Ishigaki, che ci fate qui?

Chiacchiere notturne a Taketomi

Chiacchiere notturne a Taketomi

Cosa ci facciamo a Taketomi. Non lo so esattamente. Il gusto della sfida di andare nell’isola più piccola e sperduta in un arcipelago a tre ore di volo da Osaka. La ricerca di una storia nuova da scrivere. Curiosità. Un piccolo sfizio per chi in Giappone ci è già stato altre volte. Ma soprattutto, che ci fa lui, lì, che parla un giapponese perfetto con la cameriera. Per forza, spiega, in Giappone ci vive da trent’anni. Ha da tempo superato, racconta, la ‘soglia del ritorno’: dopo sette, otto anni passati là a casa non ci torni più. Insegna, la terza moglie è giapponese e sta pensando di trasferirsi sulla minuscola isola. Mentre lo dice penso che in effetti questo posto ha un’atmosfera unica. Squassato dagli uragani, a Taketomi resistono con fatica case di legno sovrastate da pesanti tegole. Ci abitano circa trecento persone e spesso le foto mostrano carretti di turisti che trainati da enormi buoi. Anche noi l’abbiamo fatto: è divertente e ci si fa una prima idea del posto. Qua e là si vedono cartelli che indicano l’altezza dell’onda in uno degli ultimi tsunami. Non deve essere facile essere un puntino nell’oceano.

Le strade ricoperte di corallo

Le strade ricoperte di corallo

Le case di Taketomi

Le case di Taketomi

Sfogliamo il menù, dove consigliano gamberi o carne al curry, un piatto molto amato dai giapponesi, e gyoza. Di veramente nipponico non vediamo molto. Intanto Daniel ci racconta delle case dell’isola, circondate dai muretti di pietra, che impediscono di vedere all’interno. E poi cosa rappresentano quelle creature in terracotta che vediamo su tetti e giardini. Sono gli shiisa, una sorta di divinità che fanno subito pensare alla Cina: sono esseri ibridi, quasi sempre in coppia: uno ha la bocca spalancata, l’altro chiusa.  Nel racconto di Daniel quello a bocca aperta dovrebbe essere la donna (facile la battuta, già), ma in realtà è il contrario: il maschio prende la felicità dal mondo, la femmina la trattiene all’interno della casa. Comunque tengono lontani gli spiriti: e i giapponesi sono convinti che Taketomi ce ne siano, per quanto meno che a Iriomote, l’isola vicina.

Gli shiiza sui muretti

Gli shiiza sui muretti

Il resto dell’Asia, quella che guarda a Occidente,  è molto vicina. Basta guardare il piatto. I ravioli che ci sono serviti fanno viaggiare con la mente. Sono buonissimi, ma sanno tanto di Cina. Così come i gamberi pastellati serviti nella densa e scura salsa al curry: appena assaggiati mi fanno sognare l’India. Tutto è mescolato in questo angolo remoto di Giappone, più vicino a Taiwan che al Kansai. E tutto è mescolato in questa taverna, dove turisti chiacchierano con i locali bevendo awamori, la potente grappa di Okinawa (la servono col ghiaccio, ma attenzione, in questa formula è traditrice). Al tavolo si uniscono altri due giapponesi. Uno, che ordina subito orecchie di maiale, è vestito in modo così strambo che subito partono le battute di Daniel. Parte un’altra birra, un secondo giro di ghioza. Si chiacchiera del paese, si scambiano biglietti da visita. Impariamo una nuova parola: nantonaku. Anche i giapponesi non sanno bene come usarla al meglio, ma è una specie di “non so perché”. Facciamo esempi a caso. Ridiamo. Anche mentre diamo consigli al nostro amico nipponico su come trovare una fidanzata. Ridiamo. All’inizio penso che siano le birre, ma no, davvero sul tavolo davanti a noi c’è una bottiglia di grappa con dentro un serpente.

Gamberi al curry

Gamberi al curry

Grappa di... serpente

Grappa di… serpente

Sono un po’ matti, qui a Taketomi. Ai turisti regalano sabbia con piccole stelle. Il tradizionale the verde è servito pieno di ghiaccio. Gli uomini hanno i capelli lunghi. Non si può venire in giornata, non basta visitare questa isola in poche ore. Taketomi è uno di quei posti che ti devi godere di notte, per non partire con l’idea di avere fatto parte di una cartolina e poco più. Ed è in quella notte stellata che lasciamo l’unica fonte di luce della taverna e riprendiamo le nostre bici per pedalare verso casa.

Come si arriva a Taketomi.
Ci sono barche giornaliere da Ishigaki, il capoluogo dell’arcipelago; il viaggio dura circa un quarto d’ora. Per volare sull’arcipelago; voli sia da Tokyo che da Osaka (circa tre ore), con la compagnia low cost Peach. Un’altra versione della storia, con molti particolari, la trovate qui.

Street food a Miyajima

Il tori rosso

Il tori rosso

Miyajima: il paradiso del cibo di strada

Lo devo dire anche questa volta: in Giappone la cucina, il cibo, l’aspetto enogastronomico (chiamatelo come preferite) vale una buona parte del viaggio. Una larga fetta del viaggio. C’è bisogno di farmi 10mila chilometri per mangiare un po’ di buon giapponese? Eh sì perché, almeno in Italia, al massimo ti propongono dell’ottimo sushi, ma in generale piatti lontani anni luce della varietà che trovo nel Sol Levante (parola brutta lo so, ma non posso ripetere Giappone mille volte). Ecco perché la scoperta dello street food è stata davvero esaltante. Nel mio primo viaggio avevo forse scoperto le basi di questa straordinaria cucina, questa volta mi sono lanciata in nuovi esperimenti. E ne sono ben felice.

cervo2

In Giappone capita anche questo: se non avete il senso dell’umorismo non è il paese che fa per voi

Scriverò più post su questo paradiso gastronomico, ma intanto parto da un luogo che mi fa tornare l’acquolina in bocca solo a pensarci: Miyajima. Mi rendo conto che il tutto suona un po’ blasfemo, visto che in questa isola che si affaccia sul Mare Interno in realtà si viene per visitare una delle tre meraviglie del Giappone e il suo Santuario di Itsukukushima, che affiora dall’acqua. E’ un’immagine che si vede spesso. Si arriva da Hiroshima con la nave: qui la gente sembra un po’ un protagonista della scena iniziale di Novecento di Baricco, quando gli immigrati fanno a gara per vedere per primi la Statua della Libertà. Qui accade con il Tori rosso: magica porta shintoista del tempio che sembra galleggiare sul mare. Insomma, in questo luogo così idilliaco (per quanto preso d’assalto dai turisti), in cui si incontrano cerbiatti liberi e si guarda romanticamente l’orizzonte scandito dalla marea, ammetto di essere stata davvero presa per la gola e dalla frenesia di assaggiare tutto. A mia discolpa dirò che sembra che qui abbiano inventato un oggetto per niente banale in Asia: la paletta da riso (ce n’è una enorme di legno esposta!).

Miyajima: non solo ostriche

All’inizio non potevano che essere le ostriche. Tutta la zona di Hiroshima è famosa per questa meraviglia del mare, che per altro ha costi molto più contenuti rispetto all’Italia e per quanto le conchiglie siano molto più grandi. Chi sta per sfoderare la facile ironia sul crudo sappia che fondamentalmente qui si mangiano cotte. Sono moltissimi i posti che le propongono: fatevi tentare per questi pochi yen. Di solito si comprano a pezzo, a me piace tantissimo la versione grigliata: è buona anche semplice, ma con il burro fuso, con untuosità e sapidità che si fondono alla perfezione, è da urlo. Ne ho trovato una versione ‘flambé’: notevole. Ovviamente le stramberie giapponesi non hanno mai fine e c’è pure la versione con paprika o maionese. Qualcuno mi faccia sapere se la prova.

Le ostriche sono fantastiche a Hiroshima

Le enormi ostriche giapponesi

Le enormi ostriche giapponesi

E poi. L’avete mai assaggiata una murena? Ora io sì. In un localino minuscolo che attira l’attenzione per le scatole di Champagne in vetrina, ma che in realtà su un lato prepara cibo ‘da passeggio’. Noi, anche per ripararci da un momento di pioggia, ci siamo seduti all’interno (tutto molto bio e legno, bello), per accompagnare i piatti (pochi quelli in carta): c’era l’anago-meshi, murena grigliata su riso, ma io ho puntato sulla versione tempura. I giapponesi vanno matti per questo pesce grasso e saporito. Ora ho capito perché.

Ah, il locale si chiama Zipang: è gestito da due giovani ragazzi e si trova appena fuori dalle vie più trafficate di Miyajima, leggermente a monte, nascosto in una delle strade che vanno verso il monte Misen e la funicolare.

Zipang da www.minube.it/foto/posto-preferito/2215291/7782750

Zipang da www.minube.it/foto/posto-preferito/2215291/7782750

Tornando in strada, sono molti i ‘baracchini’ che preparano vari tipi di spiedini di pesce, a volte in versione fritta e di forme simpatiche. Ma i giapponesi, si sa, amano queste cose buffe, a volte un po’ infantili. Lo spiedino caratteristico è quello fatto come una foglia di acero (c’è anche un simpatico dolcetto, ripieno di crema o cioccolata con la stessa forma, il momiji manju). Nel caso raccontato dalla foto qui sotto, cambiava solo il ripieno: dall’ostrica al gambero, polipo (pure formaggio).

Pesci... di tutti i tipi

Pesci… di tutti i tipi

Spiedini di seppie e polipo

Spiedini di seppie e polipo

Un altro piatto da assaggiare è lui: il mitico ‘panino cinese’. Così l’abbiamo soprannominato noi, in realtà si chiama Nikuman (o Butaman). E’ un morbido e gudurioso spuntino, subito riconoscibile per il profumo che si sente passando nei paraggi. Di fatto è una specie di focaccina sferica ripiena di carne di maiale tritata, ma molto saporita, anche se dal gusto tendenzialmente dolce. Mantenuti al caldo, vanno mangiati con attenzione perché potrebbero avere un cuore rovente, ma sono davvero deliziosi.

panini2

Una città contesa da due fiumi: Lione

Lione vista dall'alto

Lione vista dall’alto

Una città da scoprire

Alzi la mano chi conosce Lione. Fino a pochi giorni fa sapevo solo che era una città molto grande della Francia (la seconda più visitata dopo Parigi) e che si trova nella regione vinicola del Rodano settentrionale. Tradotto: rossi a tutto spiano. Poco di più. Ci sono stata per quattro giorni e sono tornata con alcune convinzioni.

  • Rispetto a Parigi le altre città francesi sono un po’ sorelle minori, ma non per questo senza fascino, a volte dato dalle piccole cose
  • Si mangia molto bene (anche se la cucina si adatterebbe bene a temperature siberiane, da quanto ‘caricano’ i piatti. Ah la Francia)
  • Se un fiume regala sempre un po’ di magia a una città, quando i corsi d’acqua sono due l’incantesimo raddoppia
  • Il Syrah continua a non entusiasmarmi

Ma veniamo a questa città che offre diversi punti di interesse e una tappa all’interno di un viaggio in giro per la Francia meridionale se la merita tutta. Giovane (ho incontrato tantissimi studenti, mi ha ricordato un po’ la mia Bologna), multietnica, è perfettamente visitabile grazie alla perfetta sinergia di tram e metro (in questo, purtroppo, non mi ha ricordato la mia Bologna). Non posso consigliare alberghi visto che sono stata ospitata da un’amica, ma credo che per assaporare la parte migliore della città sia romantico dormire nella Vieux Lyon. Stradine lastricate, case dai tetti caratteristici: questo nucleo cittadino al di là della Saône è stato anche consacrato dall’Unesco. Questa parte è indubbiamente un po’ ostaggio dei turisti, ma passeggiare in una giornata di sole buttando l’occhio alle vetrine delle boulangerie è davvero piacevole.

Ristoranti nella Vecchia Lione

Ristoranti nella Vecchia Lione

Cosa vedere

Restando nella Vieux Lyon, vi capiterà di vedere turisti sparire dietro alle porte di alcuni palazzi. Non varcano queste soglie a caso: stanno entrando in un traboule. In vari punti di Lione, infatti, le strade sono collegate da questi passaggi che si snodano sotto i palazzi. A volte poco illuminati (e profumati), a volte lasciano intravedere stupende architetture. Divertenti. Questi bellissimi palazzi sono sormontati da una collina: Fourvière. Impossibile non vederla, visto che è dominata da una Tour Eiffel in miniatura (chissà poi perché) e da una chiesa che vuole (ancora) ricordare il Sacro Cuore di Parigi. Immagino tutto questo non vi abbia attirato, ma vale la pena salire sulla funicolare (stesso biglietto di tram e metro) per godersi un magnifico panorama.

Ma non solo. Anche se non si è particolarmente fissati con la storia antica, sulla collina c’è il bel Museo della civiltà Gallo-Romana. Nel parco ci sono diversi ritrovamenti archeologici (l’anfiteatro è tuttora usato per gli spettacoli), ma il vero gioiellino è il museo. Più che per una bella ripassata di quella Gallia conosciuta soprattutto nelle versioni di latino, la cosa più bella della visita è il contenitore: progettato dall’architetto Bernard Zehrfuss sparisce letteralmente sotto la collina. Solo due finestroni, che sbucano come occhi, ne ricordano la presenza. Andateci, un po’ di storia non ha mai fatto male a nessuno. Non è finita qui: se avete la fortuna di imbattervi in una bella giornata, si può scendere dalla collina a piedi attraversando un parco che in questa stagione è pieno di rose. La vista dei comignoli e il profumo dei fiori sono davvero ottimi compagni di discesa.

Rose di Fourvière

Rose di Fourvière

Un traboule

Un traboule

Sembra un’isola, ma non lo è

Una parte di Lione è schiacciata fra i due fiumi, la Saône e il Rodano. E’ la Presqu’île, zona elegante ricca di piazze, a partire da quella, veramente enorme, di Place Bellecour. Qui si concentrano i negozi, fra cui molte catene e alcune favolose e inavvicinabili boutique, cinema e tanti, tantissimi ristoranti. Per toccare con mano un altro po’ di grandeur francese, fatevi un giro fino all’Hotel de ville (il municipio) fino all’Opéra: tutto bello, ma estremamente trionfale. Per cambiare atmosfera, basta salire verso la Croix Rousse: quartiere con velleità boémienne, che però non ho visitato per intero. Vie più radical chic si alternano a quelle più popolari: è un’altra buona scelta per visitare i laboratori della sete, per l’ora dell’aperitivo e, perché no, mangiarvi un bel piatto di ramen. Per godere del fiume e magari confondersi fra i giovani del posto, il luogo ideale è la riva del Rodano. Impossibile sbagliare: in questa stagione la pista ciclopedonale è pienissima di gente e si beve un verre a bordo delle barche (oppure subito fuori, a terra). L’ora ideale? Prima di cena.

La riva animata lungo il Rodano

La riva animata lungo il Rodano

C’è pure lo zoo

Di domenica è certo: sono moltissimi i negozi e i ristoranti chiusi. La città si spopola, tranne che nel polmone verde della città: il parco della Tête d’Or. Oltre a passeggiare o a stendersi sui numerosi prati, si può anche noleggiare un pedalò per godersi l’acqua del lago. Gelaterie, chioschi, tantissimi bambini per una vera domenica in famiglia. Lo so che molti sono contrari, ma devo dire che il pezzo forte di questo parco è decisamente lo zoo. Gratuito, in mezzo alla natura circostante, fa un po’ Ottocentesco, ma è sempre affascinante. Insomma, se mentre prendi il sole a pochi passi hai una giraffa e fenicotteri oggettivamente non è così male. Più malinconica, onestamente, la vista del leone o delle scimmie nelle gabbie, ma nell’insieme resta un signor parco.

Lo zoo del parco Tete d'or

Lo zoo del parco Tete d’or

Chi è il parente più vicino al gibbone???

Chi è il parente più vicino al gibbone???

Finalmente si mangia

Dando credito alle guide, Lione è la capitale gastronomica della Francia. Non so se possiamo spingerci a tanto, ma una cosa è certa: le specialità non mancano. Come i ristoranti, le brasserie, i bistrot: sono ovunque. In più, a Lione c’è una vera e propria istituzione: il buchon. Una sorta di trattoria che serve cucina tipica. Allora: a prima vista moltissimi hanno l’aria parecchio turistica e la cucina è davvero impegnativa per uno stomaco medio. Esagero? Uno dei piatti forti è una frittura di interiora, per non parlare di salsiccia e trippa. Detto questo, le cose tipiche vanno provate e consiglio vivamente il Tire Bouchon, in piena Vieux Lyon. Arredi retrò, atmosfera intima, spesso richiede la prenotazione. Il menù proposto, da tre piatti, permette di assaggiare il meglio della casa a cifre oneste. Io ho provato alcuni must: il saucisson brioché con pistacchi. Una sorta di cotechino avvolto nella sfoglia e servito caldo. Onnipresente a Lione, ma davvero appetitoso. Poi filetto di manzo con patate e… panna e ancora canard con una crema di funghi (e via ancora di crème fraîche). Meraviglioso, mi chiedo sempre come i francesi cuociano la carne d’anatra così bene. Io stavo già arrancando, ma nel menù era previsto anche un formaggio e un dolce. La scelta è ricaduta su un formaggio bianco, cremoso, servito con coulis di frutti rossi e un tortino di cioccolato dal cuore caldo. Non credevo fosse possibile digerire e invece è successo e il giorno dopo ero già pronta a proseguire il tour gastronomico. (Prezzi onestissimi: 30 euro a testa mangiando fino a scoppiare).

Il mitico saucisson brioché pistaché

Il mitico saucisson brioché pistaché

Dalla cucina tipica a quella rivisitata. Se c’è un nome famoso a Lione è quello di Paul Bocuse. Chef stellato, ormai ha ottant’anni, ma in città si trovano svariate sue brasserie. Le più divertenti sono quelle che lui ha chiamato le Nord, le Sud, l’Ouest e l’Est. Quattro punti cardinali così come quattro sono le proposte gastronomiche differenti. Al Nord, ad esempio, vince la tradizione, mentre al Sud è facile trovare tajine e piatti del Mediterraneo. Noi abbiamo provato l’Est: la Cuisine de Voyages. Un locale dal nome così evocativo non poteva trovare collocazione migliore di una stazione. O meglio, di una ex stazione ferroviaria, Brotteaux, nel sesto arrondissement. Il ristorante, con davanti un’ampia veranda, all’interno riesce a ricreare perfettamente l’atmosfera di un vagone ristorante (senza vibrazioni tranquilli). Tanti tavoli, circondati da locandine di film dedicati a treni e ferrovie: sulle vostre teste scorre persino un trenino elettrico. Anche in questo caso, il menù da due o tre piatti permette di mangiare bene senza spennarsi. A me è capitata una faraona ai funghi con polenta. Buona, ma senza brividi. Probabilmente i piatti à la carte sono più particolari. In ogni caso i dolci sono incredibili: la crème brulée alle gocce di vaniglia, ad esempio, è buonissima. Per i veri amanti del cioccolato fondente, invece, la ganache: quasi amara.

La cucina dei viaggi (foto tratta dal sito www.nordsudbrasseries.com)

La cucina dei viaggi (foto tratta dal sito www.nordsudbrasseries.com)

A proposito di dolci. A Lione vale la pena rischiare l’indigestione. Il posto ideale è l’Epicérie, in 2 Rue de la Monnaie. Siamo in pieno centro, a due passi dalla Saône e questo localino attira subito per le sedie azzurre e i tavolini in strada. Il bello però viene soprattutto all’interno, dove fanno bella mostra di sé guduriose torte, da gustare su tavoli vintage, sedie volutamente spaiate e carta da parati retrò. Sull’immancabile lavagna, le altre specialità della casa, fra cui la zuppa del giorno e le tartine, fredde e calde. Ma soprattutto le torte appena fatte attireranno la vostra attenzione, a partire da quella tipicamente lionnese con le praline. Non ho avuto il fegato di assaggiarla questa volta: è completamente rosa, colore dovuto a una sorta di caramelle, le pralines, appunto. Ma le cose eccessivamente dolci mi insospettiscono. Mi sono lanciata su quella con i lamponi e non c’è da restare delusi. Anche nel prezzo finale.

Le torte di Lione

Cinque terre Doc di Sassarini

Le Cinque Terre nel bicchiere

Il sentiero fra Levanto e Monterosso

Il sentiero fra Levanto e Monterosso

In Italia, a differenza di moltissimi Paesi in giro per il mondo, è possibile: ci si può bere il territorio. Ho sempre pensato che il vino, così come la cucina, raccontasse tantissimo di un luogo. La sua storia, i suoi colori, i suoi profumi. L’ultima volta che mi è successo? Pochi giorni fa, in Liguria, dove ho provato per la prima volta un’ottima cantina di Monterosso: quella di Natale Sassarini. E proprio seduta in un ristorante in riva al mare in questo adorabile paesino ho provato il suo vino base: la sua Doc Cinque Terre.

Cinque terre Doc di Sassarini

Cinque terre Doc di Sassarini

Ma facciamo un passo indietro. In questo bicchiere, infatti, ho ritrovato il percorso e la fatica appena fatta raggiungendo a piedi Monterosso da Levanto. Un sentiero del Cai di circa due ore e mezza percorso con molta emozione anche per il contesto. Mi trovavo, infatti, a un raduno di blogger di viaggi (#welevanto, ecco il link allo storify). Vedere dal vivo alcune persone che potevo dire di conoscere solo in foto, o per uno stile di scrittura, o per un taglio originale di un post mi è sembrato molto strano e molto bello. Nuovi sentimenti al tempo del web che affollavano la mia testa prima di partire per la piccola spedizione, ma che poi sono svaniti lasciando posto solo allo stupore davanti alla natura del luogo. A unirci, nel sentiero che si inerpicava nel bosco, lo stupore per quel mare azzurro che si spalancava sotto i nostri occhi, per i fiori profumati, per le erbe aromatiche. Ginestre, aglio selvatico, fiori bianchi: sono solo alcune delle tante piante che ci sono state mostrate dalla nostra guida Roberto.

I colori sul sentiero

I colori sul sentiero

1-DSC_4594

Ecco, forse esagero un po’, considerando che sto parlando di un vino base e meno complesso di altri di questo produttore, ma posso dire di avere ritrovato quel sentiero dentro il calice di Cinque Terre Doc. E anche la difficoltà di certi tratti della salita, perché non va dimenticato che la viticultura da queste parti è fatta di gesti eroici, come la vendemmia, che spesso viene effettuata a strapiombo sul mare. Nulla è regalato in questo vino, fatto di Vermentino, Bosco e Albarola, che si concedono solo per poche migliaia di bottiglie l’anno. Non ho avuto modo di recarmi in cantina, ma posso dire che, appena seduta, accaldata e affamata, questo vino mi ha raccontato molto di sé. In quel giallo paglierino, che rifletteva la luce del sole di maggio. Mi ha rinfrancata con la sua freschezza, mentre ho ritrovato il mare nella sapidità. Ma, così come la curva delle colline, mi ha anche conquistato per la morbidezza (e per la buona alcolicità). Una bevuta equilibrata, davvero. E non solo: perfettamente adatta alla pasta al pesto e alle acciughe che mi sono state servite. Dopo un brindisi con i nuovi compagni di viaggio.

Vermentino La Cantina Levantese

Vermentino La Cantina Levantese

Dai luoghi visti e assaporati, a quelli ricordati. Sempre grazie a un calice di vino, questa volta proprio di Levanto. Si tratta di un Vermentino in purezza,  della Cantina Levantese. L’ho assaggiato solo tornata a casa, per ridurre la nostalgia del viaggio davanti a trofie al pesto. Anche in questo caso, nei profumi mi è sembrato di riconoscere quei fiori gialli visti sul quel sentiero. Anche in questa Colline di Levanto Doc ho ritrovato note salmastre e minerali del paesaggio ligure. Anche se le parti dure sono perfettamente controbilanciate dall’alcolicità (13,5%). Insomma, l’avete capito, un’ottima bevuta.

Nota finale, in questo post ho raccontati i ‘sorsi’ per raccontare un luogo. Per sapere qualcosa di più di questi luoghi meravigliosi, ecco altri due post tutti da leggere: In barca alle Cinque Terre, favola dal mare e #welevanto, un’occasione per scoprire Levanto e le Cinque Terre