Ci sono un americano, un giapponese e un italiano. Non è l’inizio di una barzelletta, ma il racconto di una sera magica passata a Taketomi, una minuscola isola sperduta nell’oceano Pacifico.
Tutto inizia e finisce a tavola, nell’unica taverna che troviamo aperta. Non sono neanche le sette di sera, ma le prime ombre ormai iniziano a scendere dopo che i turisti se ne sono andati con l’ultima barca. Nelle strade, fatte non di asfalto, ma di corallo sbriciolato, cala una luce azzurra che si porta via il caldo della giornata. Sulle nostre biciclette cerchiamo un posto per cenare: nella minshuku che ci ospita non avevamo prenotato in anticipo e così dobbiamo cercare fra quel gruppetto di case basse che forma il paese di Taketomi. Ma, alla fine di marzo, siamo ancora in bassa stagione e il timore è di restare senza pasto. Invece, in questo vivace locale non si fanno problemi: ci mettono a tavola assieme a un signore americano. Impossibile non notarlo: indossa una giacca a vento rossa e assomiglia in maniera incredibile a Toni Servillo. C’è un momento di ogni viaggio in cui non si scordano più le facce di persone incrociate per chissà quale riga tracciata dal destino. Ci si conosce, ci si sfiora e si riparte con qualcosa di più. L’americano non ci mette molto a chiederci chi siamo e da dove veniamo. Dopo due minuti abbiamo già una birra in mano. La domanda è sempre quella che tutti ci fanno da quando siamo arrivati a Ishigaki, che ci fate qui?
Cosa ci facciamo a Taketomi. Non lo so esattamente. Il gusto della sfida di andare nell’isola più piccola e sperduta in un arcipelago a tre ore di volo da Osaka. La ricerca di una storia nuova da scrivere. Curiosità. Un piccolo sfizio per chi in Giappone ci è già stato altre volte. Ma soprattutto, che ci fa lui, lì, che parla un giapponese perfetto con la cameriera. Per forza, spiega, in Giappone ci vive da trent’anni. Ha da tempo superato, racconta, la ‘soglia del ritorno’: dopo sette, otto anni passati là a casa non ci torni più. Insegna, la terza moglie è giapponese e sta pensando di trasferirsi sulla minuscola isola. Mentre lo dice penso che in effetti questo posto ha un’atmosfera unica. Squassato dagli uragani, a Taketomi resistono con fatica case di legno sovrastate da pesanti tegole. Ci abitano circa trecento persone e spesso le foto mostrano carretti di turisti che trainati da enormi buoi. Anche noi l’abbiamo fatto: è divertente e ci si fa una prima idea del posto. Qua e là si vedono cartelli che indicano l’altezza dell’onda in uno degli ultimi tsunami. Non deve essere facile essere un puntino nell’oceano.
Sfogliamo il menù, dove consigliano gamberi o carne al curry, un piatto molto amato dai giapponesi, e gyoza. Di veramente nipponico non vediamo molto. Intanto Daniel ci racconta delle case dell’isola, circondate dai muretti di pietra, che impediscono di vedere all’interno. E poi cosa rappresentano quelle creature in terracotta che vediamo su tetti e giardini. Sono gli shiisa, una sorta di divinità che fanno subito pensare alla Cina: sono esseri ibridi, quasi sempre in coppia: uno ha la bocca spalancata, l’altro chiusa. Nel racconto di Daniel quello a bocca aperta dovrebbe essere la donna (facile la battuta, già), ma in realtà è il contrario: il maschio prende la felicità dal mondo, la femmina la trattiene all’interno della casa. Comunque tengono lontani gli spiriti: e i giapponesi sono convinti che Taketomi ce ne siano, per quanto meno che a Iriomote, l’isola vicina.
Il resto dell’Asia, quella che guarda a Occidente, è molto vicina. Basta guardare il piatto. I ravioli che ci sono serviti fanno viaggiare con la mente. Sono buonissimi, ma sanno tanto di Cina. Così come i gamberi pastellati serviti nella densa e scura salsa al curry: appena assaggiati mi fanno sognare l’India. Tutto è mescolato in questo angolo remoto di Giappone, più vicino a Taiwan che al Kansai. E tutto è mescolato in questa taverna, dove turisti chiacchierano con i locali bevendo awamori, la potente grappa di Okinawa (la servono col ghiaccio, ma attenzione, in questa formula è traditrice). Al tavolo si uniscono altri due giapponesi. Uno, che ordina subito orecchie di maiale, è vestito in modo così strambo che subito partono le battute di Daniel. Parte un’altra birra, un secondo giro di ghioza. Si chiacchiera del paese, si scambiano biglietti da visita. Impariamo una nuova parola: nantonaku. Anche i giapponesi non sanno bene come usarla al meglio, ma è una specie di “non so perché”. Facciamo esempi a caso. Ridiamo. Anche mentre diamo consigli al nostro amico nipponico su come trovare una fidanzata. Ridiamo. All’inizio penso che siano le birre, ma no, davvero sul tavolo davanti a noi c’è una bottiglia di grappa con dentro un serpente.
Sono un po’ matti, qui a Taketomi. Ai turisti regalano sabbia con piccole stelle. Il tradizionale the verde è servito pieno di ghiaccio. Gli uomini hanno i capelli lunghi. Non si può venire in giornata, non basta visitare questa isola in poche ore. Taketomi è uno di quei posti che ti devi godere di notte, per non partire con l’idea di avere fatto parte di una cartolina e poco più. Ed è in quella notte stellata che lasciamo l’unica fonte di luce della taverna e riprendiamo le nostre bici per pedalare verso casa.
Come si arriva a Taketomi.
Ci sono barche giornaliere da Ishigaki, il capoluogo dell’arcipelago; il viaggio dura circa un quarto d’ora. Per volare sull’arcipelago; voli sia da Tokyo che da Osaka (circa tre ore), con la compagnia low cost Peach. Un’altra versione della storia, con molti particolari, la trovate qui.
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