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Non solo sushi, cosa mangiare in Giappone

Il padiglione d'oro (Kinkaku-ji), a Kyoto

Il padiglione d’oro (Kinkaku-ji), a Kyoto

 Prima del più famoso ‘l’Eleganza del riccio’, Muriel Barbery ha scritto un libro che si chiama ‘Estasi culinarie’. Sarebbe il titolo perfetto anche del mio primo viaggio in Giappone. Dodici giorni fra il delirio di Tokyo, l’incanto di Kyoto e suggestive (e innevate) località di montagna. Sono pronta a sostenere che un quaranta per cento almeno della bellezza del Paese risiede nel cibo. Lo scopo principale di questo post, dunque, è sfatare un mito: che nel Sol Levante si mangi solo pesce crudo (cosa che per altro mi renderebbe molto felice). Non c’è persona, e dico una, che alla partenza o al rientro dalle vacanze non mi abbia buttato là: “Quindi, avrai mangiato del gran Sushi?”. Gran sushi sì, ma non solo.

In Giappone c’è una varietà gastronomica incredibile. Troverete localini in ogni cittadina, in ogni stradina. Fra le cose divertenti, è che tutti i posti sono specializzati in un piatto particolare, quindi basta capire di che cosa si ha voglia e cercare il ristorante adatto. Altra cosa: anche i prezzi sono molto fluttuanti: gli spiedini di carne o una ciotola di ramen vi costeranno davvero pochi euro, mentre per provare la raffinata (e vegetariana) cucina Kaiseki, beh… mettetene in conto almeno un centinaio a persona. Un avvertimento: non sempre sarà facile trovare il locale che cercate. Primo perché, i posti hanno l’insegna in ideogrammi e spesso da fuori non è facile capire che tipo di piatti vengono proposti. A meno che non riusciate a sbirciare oltre una porta di legno e carta di riso, dovrete entrare e aspettarvi qualsiasi sorpresa. Altra cosa, i giapponesi hanno un rapporto peculiare con la toponomastica: nel senso che non hanno proprio i nomi delle strade. Loro stessi si perdono spesso quindi… portatevi le mappe. Difficoltà a parte, sarete ovunque ampiamente ripagati.

Cosa mangiare in Giappone? Yakitori a Kyoto

Cosa mangiare in Giappone? Yakitori appena messi sulla griglia

Yakitori, pollo alla griglia

Partiamo da un pasto molto divertente. I Giapponesi affollano alcuni locali soprattutto all’uscita dal lavoro. Sulle 18 troverete uomini in giacca e cravatta ridere e bere di gusto davanti a un piatto di yakitori (letteralmente ‘pollo alla griglia). Si tratta di spiedini cotti alla brace proprio davanti a voi: chiedete allo chef e ve li preparerà in salsa agrodolce o col sale; starà poi a voi accompagnarli a birra o sakè. Tenete presente che gli yakitori sono soprattutto a base di carne e, in particolare, di interiora di pollo. Fra quelli che mi sono stati proposti, c’erano fegato d’anatra, collo e addirittura un utero. Niente paura, il sapore è forte, ma gustoso: se non conoscete la lingua, tanto meglio, scoprirete cosa avete mangiato solo dopo. Indirizzi utili. Ne consiglio due, dallo stile molto diverso. A Kyoto, nel cuore di Pontocho, una delle strade più suggestive della città, provate Torijin: l’oste molto simpatico vi servirà anche uova sode, salsine e un dolce gratuito per giustificare il coperto (4 euro). Sedetevi al banco e mescolatevi alla gente del posto. Come riconoscerlo? Gli yakitori a Pontocho sono solo due. Questo è il più buio.

Se siete a Tokyo, c’è un’intera strada, proprio dietro alla stazione di Shinjuku (yakitori-yokocho, vicino all’uscita Nishiguchi). Sono localini aperti sulla strada molto, molto spartani, anche troppo: presi d’assalto dai giapponesi con voglia di chiacchiere rappresentano comunque una divertente cena low cost.

Visto che ho parlato di carne, mi soffermo su un locale davvero assurdo di Tokyo, Toriki (3-11-13 Hatanodai, Shinagawa-ku), che ho poi scoperto essere abbastanza noto dopo la visita di Anthony Bourdain. Qui il motto potrebbe essere ‘del pollo non si butta via nulla’. I pennuti arrivano da un allevamento locale che serve solo il ristorante. Qui vi verrà servito anche un piatto che mette in crisi una delle convinzioni che più ci hanno inculcato da piccoli: pollo crudo, accompagnato col wasabi (il rafano che si mette anche col sushi). Ho assaggiato con sospetto, ma devo dire che è molto fresco. E che sono ancora viva. Poi si prosegue con brodo, collo (tutto intero con tanto di trachea, sì), interiora, cosce, magoncini… fino al boccone del prete. Proprio lui, il lato b del pennuto, sempre cotto alla brace. La carne è abbastanza grassa, quindi succulenta: è un’esperienza unica, va provato.

Toriki, Tokyo

La parte… meno nobile del pollo

Toriwasa

Pollo appena scottato (di fatto crudo) con wasabi fresco, da Toriki (Tokyo)

Dal sukiyaki alla carne di Hida

Continuando con la carne, uno dei piatti più gustosi e simili al gusto europeo che ho assaggiato è di sicuro il sukiyaki. Il cameriere vi porterà un fornellino in cui cuocere fette di manzo (o di anatra) con le verdure. Il ‘sughino’ della carne è celestiale e la cottura sul tavolo, un po’ come nelle nostre bourguignonne è divertente. Subito un indirizzo, sempre a Kyoto: Negiya heikichi. Costa un po’ di più, circa 5mila yen a persona, ma la location da sola vale il prezzo. E’ fuori dalle zone più frequentate, lungo uno stretto canale che di notte è illuminato dalle lanterne: l’interno, tutto in legno, è reso magico da una vetrata che si affaccia sull’acqua del fiume. Il locale ha molta personalità, punta sugli ortaggi (ampiamente caldeggiati dal cuoco che ve li mostrerà). Fantastica la cipolla, veramente enorme, lentamente cotta al forno. Morbidissima, saporita, e da intingere nel sale.

Negiya Heikichi

Un morbidissimo cipollone al forno da Negiya Heikichi (Kyoto)

Finiamo con la carne, toccando una delle punte più elevate della cucina giapponese: la carne di Hida, tipica della zona montana di Takayama. Io adoro ogni tipo di carne, ma mai, davvero mai, ho mangiato manzo così morbido e delicato. Il modo ideale per assaggiarlo – e così introduco un’altra esperienza imperdibile di un viaggio in Giappone – è durante una cena tradizionale in una ryokan, una casa tradizionale. L’ho provato due volte, ma citerò il posto più suggestivo: nel minuscolo paesino di Shirakawa-go. E’ annidato in montagna a circa tre e ore e mezza da Kyoto e le sue casette di legno dalla forma tipica Gassho-zukuri (in italiano, a mani giunte) sono patrimonio mondiale dell’Unesco. Pernottare in una di queste case significa anche cenare intorno all’irori (focolare) con gli altri ospiti. Sul tatami troverete, già in tavola, zuppa di miso, the verde, ciotola di riso, sottaceti di montagna, pesce al forno e tempura di verdure. Il re, il manzo di Hida, è adagiato su una specie di bruciatore per essenze su un letto di funghi e una foglia profumatissima. Durante la cottura sulla fiamma, le consistenze si sciolgono e i sapori si fondono dolcemente. Una meraviglia.

Aggiungo una nota: nelle ryokan, più o meno lo stesso pasto si mangia a colazione, servita intorno alle sette e mezza. Preparatevi quindi al pesce di prima mattina: niente paura, è delicato e farà gola anche ai più scettici. Un indirizzo: Koemon Minshuku (circa 10mila yen a persona comprensivi di due pasti e sakè attorno al focolare).

Scodelle fumanti: Ramen, Soba e Oden

Un piatto fumante di soba con vista sul fiume non ha prezzo

Un piatto fumante di soba con vista sul fiume non ha prezzo

Tornando ai piatti ‘da tutti i giorni’, economici e perfetti per scaldarsi durante i rigori invernali, non posso non parlare di soba, ramen e oden. Nel primo caso, si tratta di spaghetti di grano saraceno, molto sottili, cotti nel brodo, insaporito con verdure (ma si possono mangiare anche freddi). Come sempre, un indirizzo imperdibile: siamo a est di Kyoto, sulle colline, in una zona costellata di templi.  Proprio sul fiume, prima della montagna delle scimmie, c’è il ristorante Yoshimura. A 2mila yen, si pranza con la vista sul corso d’acqua, al secondo piano, davanti a enormi vetrate. I soba sono arricchiti da cipolline verdi e tofu fritto: fra il cibo e la vista (e la musica classica di sottofondo) si intravede la pace dell’anima. Passiamo al ramen. Avete presente quei cartoni giapponesi in cui il protagonista sorbisce rumorosamente gli spaghetti con la faccia nel piatto? Ebbene questi posti esistono e la gente mangia questa pasta in brodo di carne (più o meno arricchita in soia a seconda della zona) proprio così. Con le bacchette rischia di diventare un incubo, ma ancora una volta il gusto deciso conquista: spesso accompagnato da riso e sottaceti, ve la cavate con meno di mille yen.

Infine, gli oden, un piatto che in Italia è sconosciuto. Il protagonista è sempre il brodo, in cui vengono cotti palline di carne o pesce, tofu, verdure. In particolare il daikon, una specie di rapa, che in questa versione è molto saporita. Ancora una volta ci troviamo davanti a un piatto molto economico, da gustare direttamente al bancone davanti al cuoco. Un locale divertente, Miyuki, si trova a Kanazawa. Appena entrate, proprietari e commensali vi saluteranno in coro: i gestori si fermano a parlare volentieri, incuriositi dai clienti (pochi) stranieri. Dettaglio non indifferente: qui ho bevuto il miglior sakè del viaggio, consigliato dalla titolare (marca Tedorigana).

Okonomiyaki

Nel caso non bastasse ai detrattori del pesce, le vie della cucina sono infinite. Un capitolo lo merita di gran lunga l’Okonomiyaki, chiamata ‘pizza giapponese’ e particolarmente amato da comitive di giovani e studenti. In realtà con la nostra pizza (fortunatamente) ha poco a che fare. Si tratta più di una specie di pancake con verdure e carne: in alcuni locali vi serviranno una pastella e gli ingredienti. Starà poi a voi cuocerla e girarla con le apposite palette su una piastra rovente a centro tavola. In alcuni locali – quelli di livello un po’ più alto, o semplicemente più turistici – saranno i cuochi a prepararvelo e dovrete solo mangiarlo al bancone.

Tutti questi piatti sono adatti anche nel caso in cui vi troviate a viaggiare in Giappone con dei bambini. Per saperne di più ⇒ne ho scritto in questo post.

Tempura

Non posso non citare uno dei piatti più sfiziosi, questo conosciuto anche in Italia: il tempura. Sembra fritto, ma non è. O almeno, la pastella è particolarmente delicata, a base di farina di riso e acqua ghiacciata. Lo si trova in tantissimi ristoranti, ma alcuni posti sono specializzati. Ne segnalo uno, a Tokyo, Tsunahachi (ce ne sono diversi, sono stata a quello di Shinjuku). Sedetevi al banco e chiedete il menù degustazione: il cuoco vi servirà direttamente nel piatto sei-sette porzioni di verdura, gamberi e altri tipi di pesce. A me piacciono molto le foglie, tipo salvia: sono particolarmente croccanti.

E infine il pesce: non solo sushi

Ed è così, con il tramite del tempura che, finalmente, arrivo al pesce. Per chi lo ama, non credo possa assaggiare niente di più buono. Ci sono tanti posti per gustarlo, a partire dalle izakaya, una sorta di pub in stile giapponese. Diversamente dall’Italia, è difficile che si beva senza l’accompagnamento del cibo e in questi locali si mangia sempre qualcosa. In cima alle mie preferenze ce n’è una a Kyoto, Ikawamaru, specializzata, appunto nel pesce. Ordinate subito il polipo crudo al wasabi. Poi proseguite con un bel piatto di sashimi misto… fino al pezzo forte: le ostriche fritte (piatto tipico di Hiroshima). Accompagnate da una salsina vagamente simile alla mayonese, è un’esperienza da lacrime. Il sapore forte di mare si sposa benissimo con la pastella croccante: un piacere unico.

Ostriche fritte

Ostriche fritte!

Se come me siete fanatici delle ostriche, in questo ristorante di Hiroshima mangerete solo quelle! Oppure potete provare quelle in versione  street food!

Chi ama il pesce crudo, non può non provare il sashimi al mercato del pesce. Purtroppo per vari disguidi ho perso la famosa asta del tonno a Tokyo, ma fortunatamente a Kanazawa ho fatto un salto al mercato cittadino. Si rimane stupiti dagli enormi granchi in vendita, dai molluschi e dai crostacei esposti. Che il pesce sia freschissimo lo testerete da voi nei ristorantini che si affacciano sulle bancarelle, molto frequentati nella pausa pranzo. Io ho scelto una ciotola di riso con sopra adagiate fettine di sashimi: il top, come sempre è il gambero crudo. Con una birra piccola, ve la caverete intorno ai 2mila yen.

E arriviamo così al gran finale, un vero e proprio lusso che mi sono concessa: il ristorante Kyubey, un’istituzione di Ginza, a Tokyo. La cucina è raffinatissima e, come potrete leggere all’interno del locale, è molto frequentato da star di Hollywood e pezzi grossi locali. A pranzo i prezzi sono più contenuti e per una degustazione piccola (che comunque conta una ventina di portate), dovrete mettere in conto circa 10mila yen (circa 90 euro). E anche per questo è frequentato da turisti. Alcuni lo considerano in declino (e infatti ha perso la stella Michelin), ma le infinite file di clienti locali confermano che il locale è apprezzato. Si può prenotare solo per l’orario di apertura (11,30). Altrimenti sarete messi in lista d’attesa, Una volta nel locale, aspetterete in una sala apposita. Poi, il tripudio. Davanti a voi avrete uno chef che cucina quello che chiedete. Un rapporto diretto che mette un po’ soggezione, ma ci si sente viziati come non mai. Ogni portata viene adagiata in un piattino davanti al cliente, con tanto di indicazioni sulla salsa più adatta; in ogni caso va mangiata subito. Fra sashimi, onigiri e sushi, mai nessun pesce mi sembrerà mai più all’altezza, ma due piatti mi hanno davvero tolto le parole. Un pesce cotto con mandarino cinese e un tipo di tonno di una morbidezza inaudita. Attorno a voi donne in kimono non vi lasceranno mai sprovvisti di the verde. La quinta essenza della cucina giapponese. La cura dei particolari. Il senso del bello. La più grande lezione chre il Giappone sa insegnare.

Ginza Kyybey

Il sushi viene preparato un pezzo alla volta (Ginza Kyubey)

Come si diventa Masterchef

Andrea Marconetti: Com'era... com'è (Foto da Sky.it)

Andrea Marconetti: Com’era… com’è (Foto da Sky.it)

Appena l’ho visto in tv ho avuto subito la sensazione di averlo già visto. Era lì, in trepidazione, fra gli aspiranti cuochi alle selezioni di Masterchef. Ed era lì, anche l’altra sera, sotto la graticola di Carlo Cracco, Joe Bastianich e Bruno Barbieri che hanno premiato il suo bizzarro frullato di ostriche. Poi, dopo aver vinto la manche ai fornelli, è scoppiato in lacrime. Ed è lì che mi è venuto in mente. Io Andrea Marconetti non solo l’avevo già visto, ma ci avevo pure parlato. Insomma, l’avevo intervistato nel 2010 quando, in una piazza un po’ meno nota, aveva vinto a Forlimpopoli il Premio Marietta (la leggendaria assistente di un certo Pellegrino Artusi).

Follia di pesce, il piatto cucinato da Andrea Marconetti a Masterchef

Follia di pesce, il piatto cucinato da Andrea Marconetti a Masterchef (Foto da Sky.it)

Ebbene il nostro Andrea, informatico classe 1974, liquidato dalla mia responsabile al giornale con “un po’ presuntuosetto il tuo cuoco”, già attraverso il telefono lasciava trapelare un’autentica passione per la cucina. Sembrava che quel premio avesse ‘stappato’ qualcosa (“mi ha scombussolato”, diceva), gli avesse dato coraggio, tanto da pensare seriamente di cambiare lavoro. Raccontava di come fossero state le donne di casa, la mamma e la nonna, ad averlo iniziato all’arte culinaria (“Si potrebbe dire che ho sempre studiato e mi sono laureato in cucina. E’ come se avessi assorbito tutti gli odori e i profumi di una vita”) e di come per lui stare ai fornelli fosse una valvola di sfogo. Dopo più di due anni, evidentemente, non ha abbondonato quello che era molto più di un hobby, facendosi intruppare in uno dei reality Sky più popolare del momento. Dove, mi sembra, si è già ritagliato un suo personaggio di concorrente emotivo, ma assai determinato. Soprattutto quando non ha esitato a mettere in difficoltà gli altri partecipanti, massacrati dai giudici durante una disastrosa preparazione della lepre. Selvaggina, guarda un po’, scelta da lui in precedenza.

Chi segue il programma si starà visualizzando la scena. Chi lo snobba potrà comunque sorridere con me di un fatto. Scorrendola, quell’intervista, proprio l’ultima domanda verteva sui programmi televisivi di cucina e su quanto stessero imperversando a tutte le ore del giorno e della notte (e tre anni fa meno che adesso). Che cosa mi ha risposto? “Spesso sono a orari incompatibili con i miei. Comunque non so se li guarderei, perché in certe trasmissioni poi si improvvisano chef un po’ tutti”. Chissà ora cosa risponderebbe. Mi piacerebbe richiederglielo se uscirà vivo dalle bacchettate del trio stellato. Nel frattempo, chi crede, può leggersi l’intervista, fatta in tempi decisamente non sospetti.

tapa di salmoreho

Andalusia: di tapa in tapa/1

tapa di salmoreho

un eccellente salmorejo
servito a Cava de Europa

“Non capisco come mai a nessuno sia venuto in mente di proclamare la ‘tapa’ l’espressione alimentare di uno stile di vita in cui si prova tutto, si conversa molto, si beve in modo intelligente e si arriva alla non facile conclusione che, a piccole dosi, il mondo è bello” (soffitto della Vineria San Telmo, Siviglia)

Una delle cose che mi convinceva meno della Spagna era sicuramente la cucina. Le due esperienze precedenti, del resto, erano stati la gita dell’ultimo anno del liceo a Barcellona, a suon di fritto in albergo (le famigerate mezze pensioni) e panini a pranzo, e una vacanza estiva a Formentera. Ma, anche per i prezzi non certo economici, già dieci anni fa, di quel viaggio ricordavo molte cene in casa (le famigerate case vacanze) e, va detto, meravigliosa sangria. E così, quando ho deciso di partire per l’Andalusia all’ultimo minuto è stato solo perché, a cavallo del ponte del 1° novembre, era la meta che costava meno. Mi sono dovuta ricredere. In una Siviglia e Granada insolitamente inzuppate d’acqua o ‘obbligata’ a tante piccole soste per sfuggire alla pioggia, la grande scoperta è stata di gran lunga quella delle tapas.

Albaicin a Granada

AL’Albaicin sotto a un cielo
davvero poco andaluso

Un passo indietro. Non che l’Alcazar e il dedalo di stradine del barrio di Santa Cruz a Siviglia o l’Albaicin di Granada non mi abbiano affascinata. Così come ho già un po’ nostalgia del volto severo delle ballerine di Flamenco o del ritmo scatenato della Zambra nelle cuevas di Sacromonte. E pure mi ha tolto il fiato sporgermi dal ponte colossale che taglia il vuoto a Ronda, per non parlare dell’inquietudine provata davanti alle statue religiose, trasudanti lacrime e dolore, nelle innumerevoli chiese barocche. Ma, fra le mille facce del viaggio, un aspetto che mi ha sorpreso, divertito e che non avevo mai sperimentato prima è stato decisamente la filosofia del tapear, che pur contrasta così tanto con lo spirito della cena seduti – delle mangiate con gli amici o delle cenette a lume di candela -, che ci sono tanto care in Italia. Invece, il concetto di fare tanti piccoli assaggi in maniera itinerante e in piedi, a un passo dall’oste (che spesso è un personaggio che resta impresso), è davvero una piccola rivoluzione. Come la soddisfazione di poter ordinare anche quattro/cinque volte e sentirsi sazi con pochi euro. Ma non di solo cibo parliamo, visto che non sarebbe un tapear che si rispetti senza una copa de blanco o di tinto (calice di vino bianco o rosso) o di cañas, piccole birre chiare alla spina leggere, straordinariamente dissetanti.

tapas al bar alfalfa

Tris di formaggio caprino con salsa verde
al Bar Alfalfa di Siviglia

Piccolo vademecum, o apologia, della tapa

Che cos’è.  Sulla guida Routard ho trovato due versioni della storia. La prima deriva dall’abitudine di coprire con un piattino i bicchieri, perché non vi entrassero le mosche. E a quel punto hanno deciso di non lasciarlo vuoto. La seconda, invece, si rifà al più vecchio espediente per limitare gli effetti dell’alcol: fare fondo. In altri termini accompagnare le bevande con il cibo. E così è tuttora.

hijos de morales

Hijos de Morales, caposaldo
del tapear sivigliano

L’effetto sorpresa. E’ utile munirsi di un dizionario per non ritrovarsi sul piatto un involtino di budella di capra non richiesto. Al banco di Hijos de Moraes ho ordinato in maniera spericolata sangre encebollada, ma ero consapevole di cosa fosse (andatelo vedere su google). Però bisogna anche improvvisare leggendo le lavagne fitte di nomi che potrebbero significare qualsiasi cosa. Se è pesce o carne, o entrambi, spesso lo si scopre solo assaggiando. Un posto imperdibile per rompere il ghiaccio è la Bodega Santa Cruz, a Siviglia. A pranzo è preso d’assalto da una ressa eterogenea urlante, tanto dai turisti, quanto dalla gente del posto. Gridate quello che vedete alla lavagna e i prezzi vi saranno segnati col gesso sul bancone. Almeno sui costi, nessun salto nel buio.

La varietà. C’è tapa e tapa. Da quelle ‘basiche’, piccole porzioni di paella, tortilla di patate o baccalà (anche nella versione bocadillo, dentro a un piccolo panino) alle elaborazioni sul tema (il prezzo lievita un po’, ma di circa un paio di euro al dunque). Nella versione più semplice, in cima alla lista dei piatti da provare c’è sicuramente il jamon. Un buon criterio per scegliere un locale è la fila di prosciutti che vedrete appesi sulle vostre teste. Il più interessante è quello di bellota, cioè di un maiale ingrassato esclusivamente a ghiande. Se vi trovate a Granada, un buon posto per provarlo è La Mancha. Da provare anche il lomo (lombo, o lonza). Ottima (non regalata) è quella di Las Teresas, storico locale a un passo dalla Cattedrale di Siviglia.
Altra bella sorpresa, gli spagnoli non si risparmiano nel proporre il foie gras. L’abbinamento preferito, quello con le acciughe, l’ho assaggiato a Granada nella bodega Casa de todos. Un vero must è il salmorejo, parente andaluso del gazpacho, a base di pomodoro, pane raffermo, uovo e aglio. Lo si trova un po’ dappertutto, anche se una versione ‘superior’ si può trovare a La Cava De Europa, a Siviglia. Questo è il posto ideale per provare la variante più evoluta della tapa, che qui è (come si vede in vetrina) super premiata. Un altro locale di livello simile è la Vineria San Telmo, sempre a Siviglia. Va detto, fra i clienti ci sono molti italiani, tanto che anche i camerieri lo parlano piuttosto bene, ma forse anche per questo i piatti sposano il gusto a cui siamo abituati. Segnalerei la carta dei vini, una delle migliori che ho trovato. Cambiando genere, so che molti inorridiscono all’idea, ma straordinariamente saporita è anche la morcilla, una specie salame o salsiccia a base di sangue di maiale (in pratica, sanguinaccio). Una versione molto originale la si può provare a Ronda alla bodega El Socorro, arrotolata in bastoncini (cigarillos).

Sacro e profano. Se a fianco di prosciutti e teste di toro vedete una sequenza di immagini sacre e Madonne in lacrime, non avete bevuto troppo. E’ proprio così. Gli spagnoli non hanno paura di accostare statue di Cristo con la corona di spine alle specialità locali. Il posto più eccessivo l’ho trovato a Siviglia: si chiama La Fresquita ed è legato a una delle confraternite cittadine. Lo capite subito entrando nella bodega: alle pareti non c’è un centimetro che non sia riempito di immagini della famosa processione che si tiene per la Semana Santa. Che, per rafforzare il concetto, va in onda a ciclo continuo anche su di un televisore. Fra le altre cornici, c’è anche un’intervista al gestore, che spiega come i clienti siano soprattutto membri della confraternita. Ma, se entrano con rispetto, anche i turisti sono ben accetti. Bene approfittarne, e gustare gli espinacas, una delle specialità sivigliane. 

Danno dipendenza. Si è colti da un certo delirio di onnipotenza nel lanciarsi negli assaggi che, per gli stomaci più delicati, a volte presentano il conto verso sera. Piccole porzioni possono rivelarsi delle piccole bombe. Anche perché gli spagnoli non ci vanno piano con l’aglio. Ma comunque ne sarà valsa la pena.