“Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova africana distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè. Ma l’Africa conosce il mio canto?”. Karen Blixen
Fino alla fine del mondo e ritorno
In questi giorni in cui le immagini di Nelson Mandela fanno il giro del mondo, la mia mente, ogni volta che incrocio un servizio in tv, torna in Sudafrica. Un viaggio che ho fatto nel 2008: due settimane e una macchina da Cape Town fino al Parco Kruger. Mentre guardo un’intera popolazione in pianto per un uomo che ha fatto della dolcezza la sua principale caratteristica, penso a questo paese che sento di non avere capito del tutto. In quasi tutti i posti in cui ho viaggiato la sensazione, alla partenza, è che mi sarebbe servito più tempo. Ma fondamentalmente per vedere più cose, più posti. In Sudafrica, invece, ho pensato che sarebbe servito un periodo più lungo per entrare con maggiore profondità in questo paese così lacerato, sezionato, stratificato, in cui gli anni di apartheid hanno lasciato la loro cicatrice. Una ferita che mi ha fatto sentire a tratti in colpa, a volte impaurita, a volte esclusa. Mentre sorvolavo (insonne come sempre in aereo) tutta l’Africa, ed ero ‘solo’ sopra al Kenya, ho pensato che arrivare a Cape Town era come arrivare alla fine del mondo. Ma non solo per le cose lette su circumnavigazioni e oceani che si incontrano al Capo di Buona Speranza (questo ‘incontro’ acquatico mi ha sempre affascinata: un po’ meno quando ho scoperto che in inverno, in barca in cerca di balene, si traduce in mare veramente mosso), ma anche per quelle montagne erose dal vento per millenni che circondano la città. Rocce che mi sono sembrate antichissime, come emerse da tempi remoti. Ma, forse, questa sensazione di luogo primordiale, è un po’ l’effetto che fa tutta l’Africa. Perché è un paese che non ho capito fino in fondo. Forse perché a visitare le township, che a Cape Town sono almeno cinque città nella città, ci si va con una guida e un pulmino blindato. Quando scendi le occhiate non sono esattamente amichevoli, anche se si incontrano persone straordinarie, soprattutto i bambini o gli anziani che vivono in baracche senza perdere il sorriso. Ecco, è molto difficile vedere un superamento dell’apartheid qui, ma lo ripeto, ci sono stata nel 2008 e un po’ di differenza mi aspetto che ci sia oggi. Mi viene in mente il mio professore di storia moderna dell’università, che diceva che i diritti, civili e religiosi, l’Occidente li ha ottenuti solo dopo grandi lacerazioni. Non so, la storia qui è ancora viva, non è ancora stata scritta, ma in generale ho pensato che ci sarebbero voluti mesi per entrare in contatto più profondo con questa gente e farsi raccontare qualcosa di più. Non è facile capire fino in fondo il fatto che la polizia ti scorti fino al taxi, nei punti più turistici della città, o che le guest house sulla Garden Route siano solo di proprietà dei ‘bianchi’. Spesso sono circondate da filo spinato e sorvegliate da telecamere, con a fianco baracche dai tetti di lamiera. Non è facile capire del tutto i visi dei venditori del mercato della capitale dello Swaziland, uno stato poverissimo in cui il 30 per cento della popolazione è sieropositiva. Le differenze si toccano con mano in Sudafrica. Ovunque, tranne che nei parchi. Qui è la natura a dettare le sue regole. Nel Kruger, ad esempio, il tempo è sospeso e tutti gli uomini sono infinitamente piccoli davanti a una terra che non fa sconti. La potenza di questi animali, che sembrano usciti dalla preistoria, con i loro colori polverosi; le fiamme del falò che ardono la sera nel campo; i rumori che popolano la notte e arrivano fino alla tua tenda. E’ un altro Sud Africa ancora, questo.
Il mio itinerario in Sudafrica

Un itinerario molto simile al mio ( Foto tratta da http://enchantmenttours.com/kruger_garden_route.htm)
Al di là di questi pensieri in libertà, un viaggio in Sudafrica lo consiglio davvero. Anche se, in due settimane, i tempi sono piuttosto tirati. Sui costi dico subito che io sono riuscita a stare dentro ai 2.500 euro. Il volo con la Olympic (compagnia di bandiera greca) ha fatto scalo a Johannesburg, poi, come dicevo, dopo un viaggio durato quasi un giorno siamo arrivati a destinazione. Piccole disavventure (ce ne sono state): a Johannesburg le nostre valigie erano da prendere per fare un nuovo chek-in per Cape Town. Ce ne siamo accorti all’ultimo: i meandri degli aeroporti sudafricani non sono uno scherzo! Secondo: abbiamo noleggiato un’auto: con la guida a sinistra bisogna prenderci la mano e, se vi capita, non debuttate sullo stradone che porta al centro città. Anche perché a Città del Capo conviene spostarsi in taxi: sono dappertutto ed economici. Due giorni sono un po’ pochi. Abbiamo fatto in tempo a salire con la funivia mozzafiato (rotante) alla Table Mountain, visitato alcuni quartieri e passato un pomeriggio nella township. Consiglio almeno un giorno in più per fare tappa a Robben island, l’isola in cui fu imprigionato Mandela. Da lì il nostro itinerario era piuttosto fitto: passando per il Capo di Buona speranza (e la sua spiaggia affollata di pinguini), avremmo percorso la Garden Route fino a Port Elisabeth. Da qui un volo ci avrebbe portato fino a Durban, per poi riprendere la marcia fino al Kruger. In realtà al Capo non ci siamo mai arrivati perché abbiamo perso tempo con un incidente (niente di grave, ma, come già detto, la guida a destra non è immediata. Ergo: non lesinate sull’assicurazione dell’auto) e abbiamo tirato dritto per Hermanus. Strano posto: piccola cittadina di pescatori sull’oceano famosa per l’avvistamento delle balene (io sono stata ad agosto ed era un periodo buono). Ci si imbarca la mattina, a piccoli gruppi (costa circa 50 dollari) e si esce per un paio d’ore. Io per fortuna non ho problemi di ‘mal di mare’, ma ho visto gente soffrire le pene dell’inferno (quel giorno il mare era molto mosso in effetti), quindi regolatevi! Comunque ne vale la pena, perché le balene si vedono sul serio.
Altra tappa bizzarra, ma interessante, è quella di Oudtshoorn, la patria sudafricana degli struzzi. Animale molto allevato (e mangiato) sulla costa, è il protagonista di questa cittadina più interna rispetto alla costa. Si alloggia in belle guest house che vi consiglieranno come visitare un allevamento. Qui potrà capitarvi di dare da mangiare a uno struzzo, sedervi sulle sue uova per testare quanto sono resistenti e, i più coraggiosi potranno pure cavalcarlo (nel recinto). Io mi sono limitata a sedermi sopra a uno immobilizzato, che dire… un’esperienza unica! Peccato che la sera poi sarà imperdibile una tappa in uno degli ottimi ristoranti locali dove lo struzzo è decisamente a chilometro zero (abbinato a ottimi vini, per altro). Non me ne vogliano i vegetariani, ma in un viaggio in Sud Africa la carne è decisamente il piatto forte. Abbiamo proseguito poi per un altro posto insolito, che ricorda le coste californiane. Plettenberg Bay, una località in cui deliziose guest house si affacciano su una lunga spiaggia di sabbia bianca. Logico è che, andandoci in quella che là era la stagione invernale, non c’era proprio l’atmosfera soleggiata da Bay Watch, ma comunque ne è valsa la pena, anche solo per vedere qualche balena amoreggiante. Dettaglio divertente, a proposito dei ristoranti italiani all’estero: c’era un locale chiamato ‘Cornuti a mare’ (esiste davvero: vedo che la recensione c’è). Altra tappa bizzarra: la nottata nelle capanne di paglia e sterco. Ebbene sì: ai confini dell’Addo Elephant Park. Niente paura: le capanne, nel mezzo di un aranceto, sono bellissime (e riscaldate) e soprattutto questo parco è un ottimo assaggio di quelli che si vedranno più a Nord-est. Si può circolare anche con la propria auto, ma noi ci siamo accodati a un gruppo. Dalla jeep abbiamo preso un primo contatto con kudu ed elefanti e, soprattutto, abbiamo incontrato due leonesse intente a pasteggiare con un povero facocero, con tanto di leoncino. Il silenzio e la potenza di quell’immagine è ancora bene impressa nella mia mente. Verso i parchi Non merita molto Port Elisabeth, da dove però abbiamo volato fino a Durban, per poi noleggiare una seconda auto e proseguire fino allo Kwazulu-Natal. Qui il paesaggio comincia a cambiare parecchio e, fuori dalla bellezza della strada costiera, ci si addentra in un’Africa più rurale e selvaggia. Devo dire che queste tappe non le abbiamo organizzate da soli, ma ci siamo appoggiati a un’agenzia: non c’è molta possibilità di improvvisare nei pernottamenti e conviene sicuramente avere già alberghi già prenotati. Alcuni sono un po’ anonimi, ma in generale conservano il loro stile africano e nelle enormi cene (e colazioni) a buffet tendenzialmente si mangia bene. In questa regione è affascinante il Hluhluwe-Imfolozi Park. Si parte all’alba in jeep con una guida che si addentra nella riserva per qualche ora: racconta sempre aneddoti sugli animali e vi insegnerà a riconoscerli. Tutti, ma dico tutti, vi chiederanno come si riconosce una giraffa femmina da un maschio o una specie di gazzella semplicemente… dal lato B. Comunque la natura sterminata è magica, così come è stato magico trovarci all’improvviso circondati da sinuose e aggraziate giraffe.

Ippopotami molto rilassati (e meno male, visto che sono gli animali più pericoli per l’uomo fra i Big five)
Tralascio il villaggio Zulu che, al di là di un fantastico negozio di artigianato è davvero molto turistico, e volo nello Swaziland, un piccolo regno (c’è proprio il re) incastonato nel Sud Africa. Attenzione alle dogane, chiudono molto presto nel pomeriggio e si rischia di dovere tornare indietro. Noi siamo passati sia all’andata che al ritorno per il rotto della cuffia. All’andata perché ci eravamo fermati in un’officina e ci eravamo attardati: l’ingresso nel paese è stato spettrale, capanne e persone a piedi lungo una strada incredibilmente buia. Arrivammo nella capitale Mbabane davvero esausti e in albergo c’era un raduno… di squadre di rugby! Ancora più rocambolesca l’uscita: per dare l’idea delle strade, siamo stati bloccati da un gruppo di tori al pascolo non intenzionati a farti passare, per poi inoltrarci in un bosco dalla terra rossissima verso Piggs Peak. Si tratta fondamentalmente una città fantasma, dove un tempo ci vivevano i minatori, oggi restano case con i tetti di lamiera. Davvero suggestivo, ma siamo arrivati alla frontiera in modo insperato.
Parco Kruger
Varchi i cancelli del Kruger e capisci che tutto il viaggio appena fatto è stato solo un avvicinamento a questo luogo simbolo del Sudafrica. Il vero viaggio comincia ora, quando lasci l’auto in attesa che ti vengano a prendere i ranger per portarti nella riserva. E’ la formula più comune per visitare la regione: le riserve private, che offrono sistemazione in lodge o campi tendati, si adattano un po’ a tutte le tasche e offrono due safari al giorno e pasti di ottimo livello (di questo avevo già scritto in questo post, non mi ripeto). Karen Blixen scriveva: “Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova africana distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè. Ma l’Africa conosce il mio canto?”. Ecco io credo che, se davvero questo Paese intona la sua canzone, questa risuoni qui. Risuona di notte, davanti al fuoco mentre i ranger raccontano le loro storie. Risuona al tramonto, quando la jeep si ferma nella savana, fra gli alberi abbattuti dagli elefanti. Risuona nel silenzio del pomeriggio, quando un’antilope, furtiva, si allunga in una pozza d’acqua.