Forse non sarà il luogo più noto della Namibia, come l’Etosha o Sossusvlei, ma in viaggio a volte capita che il cuore resti in posti che in noi accendono una scintilla. Questa volta è successo a Twyfelfontein, una delle tappe che più ho amato, anche se tutto lasciava presagire una serata disastrosa, per quanto fossimo pure usciti indenni dalla Skeleton Coast. Ci troviamo nel Damaraland, una zona non solo bellissima dal punto di vista paesaggistico, ma anche interessante da quello culturale, grazie alle incisioni rupestri che permettono di fare un salto nel tempo di millenni.
Dalla Skeleton Coast a Twyfelfontein
Sapevamo che sarebbe stata una delle tappe più lunghe del nostro viaggio, quello che non sapevamo è quale strada avremmo scelto. Parliamo di una meta, la zona di Twyfelfontein, che rientra normalmente nei tour fra l’Etosha e Swakopmund e che la maggior parte dei viaggiatori di solito raggiunge passando per una strada interna, la C35, che passa per Uis costeggiando il Branberg. E anche noi stavamo per fare la stessa scelta, visto che il navigatore la consigliava come opzione più veloce, più corta di circa 40 chilometri rispetto alla Skeleton Coast (un tragitto totale di 460 chilometri). In più, dopo una lunga ricerca su Internet, sembravano pochi gli avventurieri della costa, che in certe stagioni può diventare davvero spettrale a causa della nebbia e della strada salina scivolosa. Dunque che fare? Mentre facevamo colazione alle 6 nell’ostello di Swakopmund, la graziosa cittadina coloniale tedesca sull’Oceano, abbiamo deciso di scegliere in base alle condizioni meteo.
Il segreto è essere mattinieri: alle 8 avevamo già visto da una spiaggia desolata vicino a Henties Bay il relitto della nave Zeila, giusto in tempo prima di essere ‘assaltati’ da venditori ambulanti, e ci siamo diretti verso Cape Cross, area protetta abitata da migliaia di otarie. Lo spettacolo offerto dalla colonia è potente e inquietante, mitigato solo da un bellissimo lodge poco lontano – non del tutto immune dal cattivo odore delle amiche otarie ahimè-, ma che è stata una meravigliosa tappa per una seconda colazione, davanti a un fazzoletto azzurro d’oceano. Una scena da Oceano Mare, per certi versi ricordava proprio la locanda immaginata da Baricco. Abbiamo chiesto un’ultima volta consiglio sulla strada e alla fine abbiamo proseguito lungo la famigerata Skeleton Coast, puntando a uscire entro le 15 dal gate di Springbokwasser. Perché racconto tutto questo: perché arrivare nel roccioso Damaraland dopo avere percorso oltre 200 chilometri di costa piatta e grigiastra, è stato come atterrare su un altro pianeta. Un pianeta sempre aspro e infuocato, ma esplosivo nei suoi colori. Anche se di esseri umani non se ne vedono poi molti di più.

L’ingresso al parco della Skeleton Coast, Namibia

La Skeleton Coast
Nel Damaraland
Qualcuno c’è. Qualche allevatore, non lontano dai recinti in cui pascolano mucche marroni sotto un sole rovente. A volte si intravede qualche casupola e, addirittura, minuscoli villaggi che sembrano popolati da gommisti: avere un intoppo con l’auto in questo tratto di nulla può essere una rogna non da poco ed evidentemente qualcuno si è attrezzato. Altre volte si incrociano carcasse di macchine, senza ruote, rivoltate verso l’alto come scheletri di insetti. Non sembra un mondo per uomini, la Namibia. Ma, rispetto alla costa, questo sterrato roccioso incute comunque meno timore: forse è merito dell’erba verdissima che, chilometro dopo chilometro, torna a popolare questo mondo. Il rosso della pietra circostante esalta i radi prati, che in questa fine dell’estate sono pure più rigogliosi del solito. Gli alberi si contorcono, ci diciamo più volte che l’Africa, da casa, ce l’aspettavamo proprio così. Così come? Spazi sconfinati, luoghi primordiali, che sembrano solo sfiorati dall’uomo.
La strada sale e scende continuamente, alcune buche sono impossibili, ma procediamo spediti verso il lodge che ci attende, sognando la piscina, senza curarci del pranzo saltato e delle temperature esterne. Mi ricorderò di non avere praticamente bevuto solo prima di cena, quando il caldo desertico mi taglia le gambe e mi sembra di avere la testa nel forno: a Twyfelfontein ho capito cosa si intende con disidratazione e perché tutti ti fanno una testa così sul fatto di bere quando è molto caldo anche se non hai sete: il rischio, altrimenti, è di stramazzare a un passo dal buffet (nulla che un po’ di ghiaccio sui polsi e carne alla griglia ben salata non abbia poi risolto). Nel frattempo, infatti, dopo circa 7 ore di auto, siamo arrivati al nostro lodge, nascosto dalle rocce rosse, che sembrano inglobarlo.
Le stelle del Sud
Verso sera il luogo cambia. Del caldo della giornata resta un’arietta dolce, che mi fa rinascere. Si sentono solo i grilli, mentre sul lodge cala un manto stellato. A Twyfelfontein ho imparato a leggere il cielo australe, grazie alla lezione di un signore tedesco che ormai vive lì da 50 anni e che regala un viaggio di un’ora nella Via Lattea. Con laser e telescopio, ci mostra la Croce del sud, Alfa e Beta Centauri, ci aiuta a riconoscere Orione e le costellazioni del Leone e dei Gemelli. Infilando l’occhio in quel minuscolo foro, ci porta con lui fra le lune di Giove. E’ un momento magico, in cui mi sembra di avvicinarmi un po’ di più a questa natura travolgente, ma essenziale, che ci stupisce ogni giorno di più da quando siamo in Namibia. Mi avvicina a quegli uomini, che millenni fa, hanno lasciato una loro traccia incidendo la roccia qui vicino. Ed è lì che andiamo di buon’ora, il giorno dopo.
Per quelle strane casualità del viaggio, i nostri compagni nella visita guidata – l’unica formula possibile nel sito che è patrimonio Unesco- sono due signori tedeschi che la notte prima hanno esplorato il cielo con noi. Il centro visite si confonde ancora una volta con il panorama circostante: è realizzato con vecchi barili di benzina. La struttura sembra un guscio di bronzo ed è progettata per essere facilmente rimossa, proprio come le passerelle da cui si osservano le incisioni rupestri. Kudu, giraffe, rinoceronti e leoni sono lì su quelle rocce da circa 10mila anni. Ci sono anche impronte umane, come se quelle pietre fossero lavagne, su cui prepararsi, prima di andare a caccia. C’è persino una foca, che stupisce, a tanti chilometri dalla costa e lascia correre l’immaginazione. Molte di queste immagini mostrano animali con tratti umani: la spiegazione sta nel fatto che molte di questi figure rimandano allo stato di trance degli sciamani.
Il luogo, infatti, era sacro ed è stato colonizzato – con il nome che tradotto significa “sorgente dubbia”- nel 1947 dai primi bianchi. Vicino al sito si vedono ancora i resti della casa, poi abbandonata quando la famiglia che vi abitava è stata costretta a tornare in Sud Africa negli anni della segregazione razziale. Qui i bianchi non potevano stare. Tornando dalla visita non resisto e chiedo alla nostra guida, una ragazza che parla un ottimo inglese, qualcosa su tutti quegli schiocchi che fanno con la lingua, il che è poi una scusa per farla parlare un po’ del mosaico etnico della zona. Lei è di etnia Damara, una delle 14 che ancora si trovano in Namibia: circa la metà di queste parla inglese, obbligatorio a scuola, mentre sei mantengono la loro lingua. Alcune, poi, hanno quattro schiocchi caratteristici e molto diversi con la lingua: meglio non sbagliare, se non si vuole fare una grossa figuraccia.
Verso Khorixas
Da qui si possono visitare, in una sorta di anello, altri due siti molto interessanti, sempre pagando una piccola quota per i biglietti d’ingresso. La prima è la montagna bruciata, un’area in cui la roccia, di origine vulcanica, è particolarmente scura e sembra annerita dal fuoco. Poco distante si trovano gli Organ pipes, rocce che ricordano distese di canne d’organo e si visitano in un piccolo canyon. Infine, la zona è famosa anche per la foresta pietrificata: in una zona brulla, in cui pascolano capre scortate dai cani, una guida mostra questi blocchi di pietra che in tutto e per tutto sembrano legno. Ora sono rocce, ma millenni fa erano davvero tronchi, portati fin qui dall’acqua. Col tempo, sono diventati pietra, conservando però i caratteristici anelli e solchi degli alberi. Non è una visita sconvolgente, ma interessante, ed è anche una buona occasione per osservare le Welwitschia, simbolo della Namibia. Sono piante grasse, alcune maschili e altre femminili, che possono vivere centinaia di anni. E ancora una volta la natura qui batte l’uomo.
Da qui abbiamo caricato una signora che lavorava nel nostro lodge e che aveva bisogno di un passaggio fino a Khorixas, cittadina principale della zona in cui si trova l’ospedale. Ancora una volta ho pensato alla differenza nella concezione del tempo fra noi e l’Africa. Per noi è impossibile pensare di affidarsi al caso, a un’auto che può passare come no per fare qualcosa, figuriamoci poi andare all’ospedale. Il tempo scorre con altre regole, forse. Ma intanto siamo arrivati in città, che ci accoglie con un tratto di asfalto che salutiamo con un grido dal fuoristrada. Basta sobbalzi per un po’.
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