Quella fissa del treno per Ooty
Questo post è di quelli che nascono da una domanda: ma ne è valsa la pena, con tutti i posti che ci sono al mondo, di andare fin là? Alla fine, a una settimana di distanza, la risposta è sì. Ma ecco la cronaca del nostro viaggio della speranza verso Ooty, cittadina colorata appollaiata a 2.200 metri sulle Nilgiri Hills. A proposito, siamo in India, nello stato del Tamil Nadu.
La mia storia con Ooty inizia leggendo alcune guide (i miei riferimenti di solito sono Routard e Lonely Planet, a cui si aggiunge in questo caso la stupenda Polaris curata da Pierpaolo Di Nardo). Il fatto è che l’India aveva iniziato a chiamarmi e mi sono intestardita ad andarci ad aprile anche se era evidente che avrei trovato un caldo pazzesco: il termometro sfiora costantemente i 40 gradi e di peggio c’è solo maggio, in cui l’aria comincia a gonfiarsi di umidità in attesa dell’imminente monsone. E così, imbastendo il nostro itinerario nel Sud (Patrick è già stato in Rajasthan e abbiamo voluto cambiare), Ooty, con il suo clima fresco e le piantagioni di tè sembrava la meta perfetta per dei pazzi che vanno in India fuori stagione. Quella che è nata come una Hill Station degli inglesi durante la dominazione britannica, infatti, in questo periodo è presa d’assalto da allegre e chiassose famigliole indiane e, anzi, per trovare alloggio c’è da sgomitare.
E poi c’era quel treno. Quel trenino a scartamento ridotto che impiega cinque ore per risalire dalla ridente località di Mettupalayam fino a Ooty: cinque ore per 46 chilometri e una decina di fermate intermedie. Quei vagoni ‘del west’ mi hanno fatto capitolare: dovevo salirci, anche se presto hanno iniziato a fioccare gli intoppi. E in questo post di racconto quello che le guide (e pochissimo Internet) vi diranno.
La vera sfida è salire sul treno
Ooty si può raggiungere in auto dalla pittoresca città di Maysore (nello stato del Karnataka, poco distante da Bangalore), ma il modo più caratteristico è arrivarci con il trenino patrimonio Unesco che parte da Mettupalayam e sale passando per Conoor e varie località isolate di montagna. Questo treno, cui è dedicato anche un piccolo museo nella stazione di partenza, nell’Ottocento era stato un miracolo di ingegneria e, miracolosamente proprio, funziona ancora, sospinto da una locomotiva sbuffante. Inoltre, è molto economico: il biglietto costa 15 rupie (pochi centesimi dunque) ed è molto gettonato dalle famiglie con bambini. Insomma, è un po’ il Gardaland locale.
Proprio per questo motivo, oltre al fatto che è molto piccolo, i posti vanno prenotati (in alta stagione) almeno tre mesi prima: quando ci siamo affacciati alla biglietteria in un pomeriggio di aprile, non c’era disponibilità fino alla fine di luglio. E dire che avevamo provato, con una serie di mail e telefonate (!) in India, a prenotare da casa tre settimane prima, ma non c’era stato niente da fare (anche perché la lentezza e burocrazia indiana hanno fatto la loro parte e da quelle telefonate non abbiamo ricavato un bel niente). E così, frugando su siti stranieri, abbiamo capito quale era l’ultima spiaggia per salire su quel treno: presentarsi alle quattro di mattina in stazione per intercettare una manciata di biglietti che vengono venduti sul posto.
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Per riuscire in questa impresa bisognava dormire a Mettupalayam, una cittadina polverosa e caotica, il posto più lontano dal concetto di turismo che io abbia mai visto. Insomma, un luogo che sarebbe dimenticato da Dio e dagli uomini ha la fortuna di avere un sito patrimonio Unesco e niente, non c’è un cartello, un bar con wifi (o almeno, non l’abbiamo trovato). Niente, solo due strade che si incrociano in cui si accalcano uomini su ogni mezzo di trasporto, mucche, cani, polli. Insomma, India profonda: non era poi troppo diverso dalle aspettative, ma di certo due stranieri qui sono guardati come marziani. E così ci siamo sentiti anche noi dopo essere stati catapultati fuori dall’auto di un driver scrupoloso quanto taciturno (e forse con una gran fretta di tornare a casa visto che abbiamo impiegato sei ore ad arrivare da Cochin, per meno di 250 chilometri).
Ci avevano consigliato di partire presto per evitare il traffico più estremo, ma così siamo arrivati alle tre in questo luogo di confine, brutto e con tanto di manifestazione politica in corso. Non avevamo cibo con noi, ma abbiamo lasciato perdere: abbiamo fatto scorta di acqua e succhi in un piccolo supermercato e abbiamo aspettato l’alba. In qualche modo.
E’ l’India, ci sei voluta venire tu.
E’ vero.
Non eri tu che ti lamentavi a Varkala perché era troppo turistica?
Sì, ero io.
Dopo un tempo sembrato infinito, l’alba è arrivata e ci siamo avventurati in strade buie, schivando mucche addormentate, fino alla stazione. E anche se siamo stati i primi ad entrare, sul binario c’erano già diciotto persone in attesa: per lo più famiglie che avevano dormito lì. Per un paio d’ore sono stata anche io nel dormiveglia seduta in terra, a un passo da rane saltellanti e scacciando zanzare, fino a quando il vociare e la (solita) calca non sono diventate insopportabili.
Alle sei, quando è arrivato il capostazione, è scattata una vera corsa al biglietto: bambini mandati avanti in grado di intrufolarsi, gente che saltava platealmente la coda, urla di quelli in attesa. Alla fine siamo stati agguantati da un poliziotto e messi su un vagone pensato per dieci persone, ma che si è presto riempito fino a dodici, con i bambini tenuti in braccio. Ci siamo così strizzati fra famiglie indù e una islamica: sono stata costola contro costola con una donna in niqab. Mi sono chiesta come potesse respirare con quel caldo (mica c’è l’aria condizionata) e quella ressa. Nel frattempo i venditori di cibo passavano con riso, curry, pakora e nel nostro vagone tutti hanno mangiato di continuo, con le mani ovviamente!
Il viaggio in treno
Nel delirio più totale, il treno parte, fra i saluti di chi resta a terra. Lasciamo in fretta il piccolo centro abitato e ci inoltriamo nella vegetazione fitta. In prossimità delle curve, alcuni uomini si sporgono con una bandiera: se è verde, via libera, il treno può proseguire. Il vero spettacolo probabilmente è quello interno: ogni volta che i vagoni si infilano in una galleria, le famiglie cominciano a urlare, come in un parco di divertimenti. Lo stesso avviene quando passiamo su spaventosi ponti nel vuoto: non ho idea di cosa siano fatti quei passaggi che si aprono, senza parapetti, su cascate e strapiombi. Altri urli, io mi attacco alla portiera: incredibile, ma anche stavolta il treno prosegue.
Durante il viaggio sul treno a vapore per Ooty ci sono circa una decina di stazioncine in cui comprare chai fumante e spuntini: bambini e genitori vanno e vengono, fra foto ricordo, blitz in bagno e lanci di cibo alle scimmie che hanno capito che il treno è una vera manna. Mentre comincia a brillare il verde delle foglie di tè, purtroppo il panorama sempre più idilliaco non viene risparmiato dal lancio di vaschette, bottigliette di plastica, carte. E’ un gesto plateale, come se fosse la cosa più naturale del mondo lanciare rifiuti. Ma forse in India è la cosa più naturale del mondo. Il viaggio prosegue fra urli e piccole soste, mentre l’aria cambia fuori dal finestrino. Le famiglie sono incuriosite dalla nostra presenza (siamo solo quattro occidentali in tutto il treno) e ci chiedono da dove veniamo. Venezia è Italia? Sì.
Dopo una sosta a Co0noor di mezz’ora, arriviamo infine a Ooty, al 46esimo chilometro. La cittadina si spalma su una specie di conca e spicca per le sue case dai colori pastello. Traffico indiavolato e sporco a parte, mi ricorda Lizzano in Belvedere e località simili del mio Appennino: Ooty offre pensioni, gite e trekking, barche sul lago, giardini botanici lasciati in eredità dagli inglesi, negozi di cioccolato e di maglie di lana. Ma il nostro primo pensiero, dopo due giorni quasi di digiuno, è cercare un pranzo abbondante. Ed è quello che faremo, salendo sul primo, saltellante, tuk-tuk che vediamo.
Treno per Ooty: qualche informazione in più
A Ooty abbiamo alloggiato due notti all’albergo Willow Hill (circa 25 euro a notte con colazione). E’ un luogo con alcuni punti di forza e qualche svantaggio. Partiamo dal primo gruppo: le stanze di legno, in stile cottage, sono carine e abbastanza pulite, il ristorante discreto e la vista bellissima. E’ uno dei pochi posti in India in cui ho apprezzato calma e silenzio e c’è pure Sky per vedere qualche film di Bollywood (non ridete, ne ho visto uno divertentissimo, anche questo è India). Tasti dolenti. E’ pensato soprattutto per turisti indiani automuniti: è un po’ isolato e un tuk-tuk chiede sempre qualcosa in più per arrivare (circa 150 rupie invece di 80), non c’è wifi, nè la possibilità di fare il bucato. Ma in generale, mi sento di consigliarlo.
Se a Ooty cercate un wi-fi c’è, in pieno centro, il bar Willy’s: si paga, ma il posto è molto simpatico e pieno di giovani.
C’era un modo per evitare di pernottare a Mettupalayam? Probabilmente sì, se si fa il giro al contrario e prendendo il trenino pomeridiano per scendere. In questo modo si arriva in città alle 17.30 e si fa ancora in tempo a viaggiare per lo meno fino a Coimbatore, molto caotica, ma forse più attrezzata. Oppure, per chi come noi veniva da sud, dal Kerala, forse basta contrattare con il driver di arrivare più tardi, in modo che Mettupalayam sia solo una tappa per dormire e nulla di più. Il nostro albergo, comunque, il Soorya International, è comunque un indirizzo consigliabile. Altri ancora salgono sul treno direttamente a Coonoor, a metà del tragitto.
Gli orari del museo a Mettupalayam: 6-10 la mattina e 15.30-18 il pomeriggio. E’ gratuito.
Altri link utili
- L’esperienza è raccontata anche da Patrick, su Orizzonti
- Sull’India ho scritto anche: Nelle backwaters del Kerala
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